Il primo impatto con il progetto Nemat di Fabio Orecchini (Industria & Letteratura, 2024) è una fotografia scattata dallo stesso poeta e posta quasi come esergo in apertura della silloge. L’immagine si intitola Zoomorfemi, e cattura una sezione di tronco di albicocco del suo orto:

«visibili i tracciati ‘cartografici’ scritti dagli scolitidi, in sinergia con i funghi; esempio incredibile di attività simbionte, i miceti rendono la cellulosa ‘digeribile’ e le larve scavano in profondità nel tronco, a fini riproduttivi, causando la morte dell’ospite. Il Bostrico tipografico (Ips Typographus) appartenente alla famiglia degli scolitidi, è il responsabile della devastazione delle foreste di abeti del nord-Italia, 14 milioni di alberi in pochissimi anni, la colonizzazione causata dall’ampia disponibilità di tronchi a terra dovuta alla furia della tempesta Vaia» (p. 128).

Nemat

La memoria e la disponibilità di legname – due diversi lasciti della tempesta Vaia, ed equamente imponenti – stanno generando uno slittamento nell’immaginario collettivo del nord-est, dove negli ultimi cinque anni e mezzo si è imparato a convivere con la vertigine dell’evento atmosferico più spaventoso mai sperimentato nel Triveneto. Fra le varie manifestazioni di carattere artistico, Nemat rappresenta la prima attestazione della tempesta in poesia. Collocata in apertura dell’opera, la menzione del lavorio distruttivo dello scolitide su alberi non necessariamente posti nell’areale colpito dall’evento atmosferico è rivelatrice di una nuova consapevolezza rispetto a fenomeni naturali di portata eccezionale. Il bostrico è una presenza piuttosto comune nei boschi di conifere dell’arco alpino, ma a causa di una sensibilità scaturita dalla presa di coscienza del cambiamento che sta subendo l’ambiente intorno a noi, il suo nome adesso sollecita pensieri inquieti. Pensieri legati a un divenire su cui gli umani non hanno più controllo: ecco che la prima sezione di Nemat è intitolata Ferecide, e attraverso il primo esergo rimanda esplicitamente all’Alcesti di Euripide, tragedia enigmatica che narra di una revenante, una donna che torna dal mondo dei morti. Tornare, quindi, dal regno dei morti è il filo conduttore di questa silloge.

Già nel titolo di questa parte iniziale si nasconde un richiamo sia linguistico – Alcesti è ferecide in quanto regina di Fere e portatrice di un lutto – sia filosofico, attraverso la figura di Ferecide di Siro, di cui Teopompo – come riportato da Diogene Laerzio – dice che fu il primo autore di una teogonia.1 In quest’opera, fra le divinità primigenie compare Chtonìe, che solo in seguito si chiamerà Gea.2 La Terra è dunque in prima istanza ctonia, e solo in seguito, oppure in subordine, minerale. Il legame fra il mito di Alcesti e la teogonia di Ferecide è stretto: entrambe le opere rimandano al mondo ipogeo, che costituisce parte integrante della natura della Terra e da cui Alcesti ritorna. Inoltre, Chtonìe è velata proprio come Alcesti. In questa stratificazione linguistica, mitologica e filosofica si nasconde la volontà di scoprire l’abisso della terra, le profondità insondabili dove avviene una vita altra, invisibile eppure presente, con cui l’umano coesiste inconsapevole.

Come evidenziato nelle note ai testi, questa sezione fa parte di uno studio più ampio sulla tragedia euripidea che consiste di una riscrittura, un libro d’arte e una installazione, opere realizzate dal poeta a partire dal 2019. Proprio da Figura (Oédipus, 2019) sono tratte le liriche di questo primo segmento, che si apre con una sequenza di testi a fronte, laddove il testo originale è accompagnato da «traduzioni» (p. 127) in stenografia della madre dell’autore.

Ferecide compare in funzione di antonomasia già nel primo componimento, mentre nel secondo è «la giovane […] che è stagione di ferri accesi e di morte» (p. 18). Alcesti ritorna poi ancora come «giovane ferecide» nel terzo componimento, e ancora una volta con lo stesso appellativo in nemat odi. Ritroviamo questo uso del nome proprio aggettivato come attributo in altre due istanze: gli «scriventi porfiri» (p. 26), laddove riconosciamo il riferimento a Ferecide in Porfirio: «e Ferecide di Siro parlando di recessi e di tane e di antri e delle porte – di una casa e di una città – e con queste parole esprimendo enigmaticamente le nascite e le morti delle anime».3 E poi: «d’aria ifigènia» (p. 107), nella cui stratificazione semantica individuiamo il sacrificio della giovane in Aulide e quindi il rapporto con la vita ultraterrena, e al contempo il violento temporale che genera ife, che avevamo già trovato in un componimento – nella parte intitolata linguamadre – dedicato all’insetto scolitide divoratore di alberi danneggiati dalla tempesta:

«bluastra colchide, bracciante con ali spente
nerastre che fa nero, di campi aridi
magnetici, che bisogna: atti, alterazioni
di umido credo, diluenti
ife, libagioni di muffe così – atte –
al midollo» (p. 24)

La sezione diaspora gioca invece chiaramente con la parola “spora”: in apertura di sezione troviamo altre due immagini, sulla sinistra una «impronta sporale di Psylocibe Cubensis» (p. 128), mentre nella pagina a destra un particolare della performance Nemat Alcesti, in cui un secchio in rotazione libera su terra rossa traccia un cerchio perfetto. Le due immagini evidenziano il ruolo del medium lisergico come ingresso all’orfismo.

Nella sezione cartografie secrete cinque liriche sono incluse fra riproduzioni di tracciati di scolitidi provenienti dalle foreste della regione australiana delle Blue Mountains. Il secondo e il terzo di questi componimenti (tegumenta, contractor) anticipano il tema della sezione centrale, nemat odi | geopoemi, il cui protagonista è il nematode scoperto nel permafrost da alcuni scienziati siberiani e risvegliato artificialmente dallo stato di criptobiosi. Si ritrova qui il filo rosso che unisce tutta la raccolta, il tema del ritorno alla vita, che riguarda Alcesti quanto i vermi pleistocenici, il cui utilizzo scientifico, peraltro, abbraccia diversi campi, fra cui la cura di malattie terminali.

Particolarmente interessante la conclusione della prima parte, che si apre con la brevissima sezione dal titolo idraglifi | terioscritture, e che è da intendere come installazione. I due neologismi anticipano i contenuti: i segni incisi da un mostro acquatico, le grafie degli animali selvatici, per esteso la lingua dei mostri. In esergo una citazione programmatica di Charles Darwin, che vale la pena di riportare per intero: «Fui così portato a concludere che tutto il terriccio vegetale dell’intero pianeta è passato molte volte, e passerà ancora molte volte, attraverso il canale intestinale dei vermi» (p. 69). Non meno efficace la citazione da Cyclonopedia di Reza Negarestani: «Scrivere tutte queste lettere significa indulgere nella dracolatria, l’adorazione degli antichi serpenti», accompagnata da un codice QR che porta a un video in bianco e nero di due lombrichi (p. 70).

A seguire, la già menzionata parte nemat odi | geopoemi, in prosa, in cui l’autore racconta in un paragrafo la scoperta scientifica dei vermi siberiani e a corredo inserisce riproduzioni di terioscrittura, ovvero «esperienze di trascrizione dal vivo» di scrittura «operata dai lombrichi su carta» (p. 128). Vi troviamo anche una criptocitazione del concetto di compost in Donna Haraway rielaborato nel progetto Comp(h)ost, unione delle nozioni di compostaggio e di ospitalità: «[c]uro i lombrichi nel mio giardino, li nutro con foglie, avanzi di cibo, letame e comphost, tra i colori incandescenti del marcio» (p. 77).

La parte finale è dedicata al terremoto de L’Aquila dell’aprile 2009, in cui troviamo ricordi di donne estratte dalle macerie, fra cui spicca Maria D’Antuono di 98 anni, «trovata viva dopo 30 ore, che ha dichiarato di aver trascorso il tempo lavorando all’uncinetto» (p. 87), ricordata nei toccanti versi: «quella notte, molta notte aspettare, uncinare, tenere i fili a nodi […] | possibile salita al sole, anodi, fenditura […] | asole infila, cucite le dita in preghiera, vermine, legaccio» (p. 107).

Opera visionaria, Nemat cattura e reinterpreta la qualità ieratica dei testi antichi, celebra la dimensione orfica e iniziatica della tragedia euripidea. Negli ultimi anni si è verificata una fioritura di testi che hanno attratto l’attenzione del pubblico sugli ecosistemi e sul rapporto fra gli uomini e l’unico pianeta su cui al momento è possibile la vita umana. Nel caso di Fabio Orecchini, l’attenzione è rivolta alla crosta terrestre, scossa dal sisma, sciolta dall’azione del tempo e del clima, davanti a cui i discorsi degli umani sono «piccola orazione» (p, 22). Il riferimento dantesco al naufragio di Ulisse in Inferno XXVI, 108 (orazion picciola) è al contempo celebrazione della grecità omerica e smontaggio della hybris dell’umano, qui spostato sullo sfondo (non a caso Amitav Gosh è citato in esergo a p. 119), mentre sulla scena predominano altre forme di vita, lombrichi, scolitidi, funghi, e il fantasma di Alcesti nella sua veste di revenante, colei che ritorna nel mondo dei vivi dopo la catabasi.

Note:
1) «Ferecide – dice Teopompo – fu il primo a scrivere sulla natura e l’origine degli dèi», Diogene Laerzio, I, 116-119, in Giorgio Colli, La sapienza greca, vol. II, Milano, Adelphi, 1978, p. 87. Dato che la Teogonia di Esiodo è precedente, è probabilmente da interpretare come la prima teogonia scritta in prosa, conosciuta con il titolo Ἑπτάμυχος, Le sette caverne.
2) «[M]a a Ctonie toccò il nome di Terra, dopo che Zas la onorò dandole la terra in dono», Diogene Laerzio, I, 119, in G. Colli, cit., p. 79.
3) Porfirio, Sull’antro delle Ninfe 31, in G. Colli, cit. p. 101.

Immagine di copertina:
Cartografie secrete di Fabio Orecchini.