[Pubblichiamo il testo del primo intervento all’incontro “In memoria di Mario Galzigna” organizzato dal Collettivo Guaranì il 12 gennaio 2021. La registrazione integrale dell’incontro si può vedere sul canale YouTube del seminario Bateson Deleuze Foucault].
In questi giorni ho ripreso in mano lo splendido Rivolte del pensiero (edito da Bollati Boringhieri), che si apre con l’analisi dell’immagine scelta per la copertina, ovvero “Costruzione di un edificio” di Piero di Cosimo, pittore del Cinquecento. Mario aveva evidenziato la compresenza di due livelli temporali nel quadro: quello dello stagliarsi del palazzo nella sua compiutezza, da un lato, e l’operosità umana, lo svolgimento dei lavori di costruzione del palazzo stesso, dall’altra. Entrambi i tempi presenti sulla tela, a ‘fare’ la tela. Ebbene, quel palazzo ‘terminato’, nel momento della mia rilettura, è diventato per me Mario. La morte lo ha reso il ‘compiuto’. Nella tela noi oggi siamo quelle piccole figure affaccendate a mostrare l’edificazione del palazzo stesso, nei suoi molti livelli, in un presente continuo.
Occupandomi spesso di poesia, ho voluto dedicare la prima parte del mio intervento all’unico libro di poesia di Mario, Storia di una passione, e collegarlo, laddove possibile, al discorso da lui fatto sull’amore e sulle sue molteplici declinazioni, a partire dal tema dei libertini, nel capitolo quarto di Rivolte, lì dove lui spazia magistralmente tra Diderot, Sade, Goethe, Freud e psichiatria.
Ricordo che Marco Nicastro ha dedicato a queste poesie un’estesa riflessione su Il lavoro culturale, evidenziando gli stilemi di Mario, le sue peculiarità, quali: la ricercatezza del lessico, la generosità aggettivale, la metrica, la scansione spaziale e temporale (con l’inserimento diaristico di data e luogo in ogni singolo componimento – pur, come evidenzia Borgna nella postfazione, in una «corrente narrazionale che riscatta da ogni episodicità»), e poi le note colte aggiunte ai versi, la natura dialogica dei testi. Testi che rappresentano ‘l’arco’ di un amore, dal deflagrare allo spegnersi.
Tenebra vuota, avara di bagliori:
è questa la saggezza dei filosofi
che ignorano il sangue della mente?
Persuasori dialettici, servili:
aulici araldi di democrazia,
nemici d’ogni nostra insurrezione
logica, d’ogni nostro scarto opaco:
rivolta del pensiero e della carne.
È sempre un’esperienza intensissima riconoscere in Mario, nella sua opera, i fil rouge tematici, le aree semantiche esplorate a tutto tondo, le ricorrenze, la coerenza dell’indagine intellettuale, anche i rovelli, certo.
In Rivolte leggiamo: “Un pensiero della libertà. Un pensiero in rivolta, che punta a destabilizzare gli assetti costituiti, i vecchi equilibri, le nuove gabbie normative […]. Posso tuttavia pensare e progettare dei gradi di libertà solo a partire dalla consapevolezza dei meccanismi che mi condizionano e mi assoggettano” (p. 8).
E c’è forse un “meccanismo assoggettante” più dirompente, più sovversivo dell’amore da indagare per ragionare di libertà? L’ha scritto e ribadito, Mario: “i concetti, sottratti al terreno dell’esperienza, diventano gusci vuoti: involucri formali incapaci di guidare le nostre azioni” (p. 30).
Non possiamo sottrarci alla contaminazione con l’esperienza.
Lui non l’ha mai fatto, nemmeno nelle vette più concettuali dei suoi scritti.
Accedere alla verità significa mettere in gioco la propria esistenza, privilegiando il percorso etico al percorso epistemologico” (p. 48): ne abbiamo parlato così tanto, anche senza parlarne, nel dispiegarsi delle ore che abbiamo potuto passare insieme.
Mario temeva “l’egemonia dell’Uno”, dei molteplici Uno incarnati nella filosofia e nella storia. Era, mi si conceda, un bellissimo ‘polimorfo’, un heteronymos: l’uomo dai tanti nomi, l’uomo “dal nome diverso”, appellativo che si era scelto per la blogosfera, “un soggetto che vive nella molteplicità dei suoi registri espressivi, creativi e produttivi” (da Heteronymos: tra la rete e il mondo, 2017).
Ancora, da Rivolte: “La passione del libertino non può non essere passione del molteplice, che ha orrore della monotonia e dell’uniformità” (p. 114). Un io che vuole essere accolto come multiplo e dissimile da sé.
Nel quarto capitolo, si chiede e chiede a noi: “Com’è possibile, per due esseri umani che si amano, conciliare ragione e passione? Com’è possibile includere, negli itinerari della passione, la sensualità, l’attrazione erotica, le avventure dell’intelletto, le pulsioni ludiche e trasgressive, la forza e la costanza dei sentimenti? […] l’idea di una passione amorosa incline a stringere entro un unico cerchio i giochi della trasgressione, le dimensioni dell’erotismo, le manifestazioni della tenerezza, i percorsi della ragione” (da p. 118).
Sintesi disgiuntiva, tensione creativa tra le polarità.
L’amore è quella esperienza personalizzata che trasforma l’Alterità in Altro […] quando l’erotismo della carne, libero da pregiudizi e da prescrizioni normative, entra in relazione con i percorsi dell’emozione, dell’immaginazione e del pensiero” (p. 124).
Un’espressione che ho apprezzato molto, in questo capitolo, è “vocazione alla scoperta”, connessa da lui al gioco; una vocazione che rende, cito, “assai difficile che l’amore, con il passare del tempo, diventi un’esperienza scontata e uniforme, regolata e istituzionalizzata” (p. 124).
Questa sera ho riscoperto l’incanto
di un gioco dissacrante e senza maschere.
Ho ritrovato l’antica speranza
di un amore nemico della quiete:
vigile, temerario, bellicoso,
anche se immerso nell’oblio del mondo.
Sono dei versi pubblicati da Mario su Ibridamenti, il 18 dicembre 2019. Il titolo: Un amore nemico della quiete.
Gioco, appunto. E speranza, sempre. La rivolta era per lui un grimaldello per aprire speranze, varchi di speranza; per opporsi, parole sue, alla “sottrazione di futuro” (crimine vero e proprio contro la natura umana), sia in campo pubblico, politico, intellettuale che nel privato amoroso.
E anche quando si profila la realtà del lutto, della perdita dell’altro, il lutto amaro, cito, “inevitabile è sospeso tra la morte e la rinascita”. L’ha bene sottolineato Nicastro: «Il poeta può finalmente distaccarsi e ricordare la donna perché è riuscito ad attingere nuovamente al nucleo profondo e benefico dell’essere (il proprio), ritrovandosi e andando oltre il dolore della perdita, come espresso magistralmente dall’autore nei due versi a chiasmo: “Ho scoperto me stesso nel distacco. / Ho scoperto te nella mancanza”».
Ben lontano dal platonismo che stigmatizza la materia, per Mario la materia è faccenda in primis relazionale:
Materia sono i pori della carne,
volumi e superfici del tuo volto:
àncore solitarie dentro il nulla.
Musica assoluta dei corpi, dice splendidamente un altro verso.
Ritorno così all’immagine iniziale, a quel che avevo definito “presente continuo”, con questi altri versi:
l’incanto collettivo –
un bagliore accecante, luminoso –
di un presente assoluto, senza limiti
e ricalibro, con Mario, quel “presente continuo” in “presente assoluto”. Un presente incessante, inesauribile che ci vede tutti insieme, in uno stesso quadro: nel nostro fare, nel già fatto, nel compiuto eppure mai detto una volta per tutte.
Vorrei ancora spendere qualche parola su un altro tipo di esperienza fatta con Mario, grazie a Mario: quella della traduzione di un autore fondamentale per l’antropologia contemporanea: Eduardo Viveiros de Castro. Mario ed io ci siamo ripartiti la traduzione del suo Metafisiche cannibali dal francese. Ricordo quando me lo propose, al telefono. Ricordo la mia titubanza, il senso di inadeguatezza. Presi tempo. Ma una sera, a cena a casa loro, di Mario e Maddalena, lui mi rifilò la mia copia del libro come fosse cosa fatta. E lo era, sicuramente per lui. Andò a toccare, persuasivo e deciso come sempre, le corde della sfida e del mio amor proprio, e così mi imbarcai nell’impresa. Naturalmente imparando molto.
Nell’introduzione al libro scritta da Mario, leggiamo che la rifondazione dell’antropologia operata da Viveiros «poggia su un’opzione antinarcisistica, capace di infrangere la sovranità del soggetto analizzante (il filosofo-antropologo) e il suo presunto primato sull’oggetto analizzato (le società amerindiane)», poi viene citato Foucault circa la necessità di distanziarsi da sé stessi.
Ricordo che pensai, e ne parlammo, ad alcuni parallelismi col mio lavoro di docente di scrittura creativa: all’assunzione e al cambiamento dei punti di vista, alla presa di distanza da sé, appunto. Devo aver discusso con lui delle variazioni immaginative di Ricoeur, di quel passo in cui si dice che: «La letteratura aiuta a liberarci dall’idea di un io narcisista e richiuso su sé stesso»; del fatto che attraverso i personaggi finzionali si innescano nuove figurazioni del sé, nuove possibilità di essere al mondo.
Erano di questo tenore le nostre conversazioni.
Forse devo avergli citato pure, se non ricordo male, un esercizio proposto da Natalie Goldberg nel suo celebre e ormai datato manuale: Scrivere Zen. Un esercizio sulla destrutturazione della sintassi soggetto/verbo/complemento oggetto. Il senso era più o meno questo: una frase tipica: “Io vedo il cane” – “io” al centro dell’universo, come soggetto vedente, e con ciò dimentichiamo che anche il cane guarda me, contemporaneamente. Con un esercizio mirato di frantumazione della sintassi si può scardinare questa centralità dell’io, questo narcisismo dell’io vedente, realizzare lo spostamento dal piano del soggetto che compie un’azione su un oggetto, nel senso di un’interazione, uno scambio; la fine dell’illusione di poter dominare il mondo.
“Io mangio un carciofo”, dice la Goldberg, ma anche il carciofo mangia noi e ci cambia in maniera irreversibile, tanto per restare sul titolo della prefazione di Mario a Metafisiche cannibali, ovvero: Divorare l’altro.
A entrambi interessava il racconto a più voci, la pluriprospettiva e, per tornare a Ricoeur, la sintesi tra permanenza e cambiamento.
Devo probabilmente sempre a Mario la genesi di quello struggimento che mi ‘perseguitò’ per mesi, nel tentativo di trovare, per i nuovi testi poetici che avevo in testa, un modo di dare voce agli animali non umani che non fosse antropocentrico. Mario ha avuto la ‘colpa’ di scrivere: «Nello sciamanesimo amerindiano conoscere significa personificare, e perciò introiettare – fare proprio, divorare – il punto di vista di chi deve essere conosciuto». Ci sono impazzita su questo, e allo stesso tempo devo ringraziarlo, perché si tratta di una di quelle accelerazioni cognitive che con lui avvenivano spesso, a motivo della ricchezza di ciò che veniva messo in campo.
Mario, insieme a Rilke, che scrisse: «Riesci a pensare insieme a me quanto sia magnifico, passando, guardare dentro un cane, per esempio, guardare dentro (non intendo comprendere, che è soltanto una specie di ginnastica umana, e poi si esce subito dall’altra parte del cane, lo si considera come una sorta di finestra sul mondo umano alle sue spalle; non intendo questo). Intendo calarsi nel cane, nel centro esatto, calarsi nel punto partendo dal quale egli è un cane?» (lettera del 17 febbraio 1914 a Magda von Hattingberg).
Ecco, non so se ho reso l’idea.
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Immagine di copertina:
Piero di Cosimo, La costruzione di un edificio, 1490 circa, tavola – Sarasota (FL), The John and Mable Ringling Museum of Art