Aprire Venere
Un testo famoso del 1893 di Aby Warburg (Warburg, 1999) tematizza l’opera di Botticelli, in particolare la Nascita della Venere e la Primavera, e la rappresentazione dell’ideale di bellezza rinascimentale in relazione alle sue matrici nell’antichità classica. Da lì muove Georges Didi-Huberman nell’analisi della nudità artistica in Aprire Venere: Nudità, sogno, crudeltà (Didi-Huberman, 2001). Seguire alcuni momenti della sua argomentazione ci permetterà di contestualizzare il nostro tema, che dell’aprire Venere è una demetaforizzazione sostanziale. La Venere botticelliana, statuaria, perfetta, trae ispirazione dalle Stanze per la giostra di Poliziano, a loro volta debitrici agli Inni omerici ad Afrodite (Warburg, 1999, 90-94). Sorge dalle acque sospinta da Zefiro incontro alla regina delle stagioni, la Primavera. Rappresentazione idealizzata della bellezza, così come lo è la Venere de’ Medici, copia romana di una scultura di Prassitele a sua volta agli Uffizi. La tesi portante del libro di Didi-Huberman è che il nudo rivela sempre, oltre gli espedienti idealizzanti della rappresentazione, il suo doppio osceno: un fondo di disordine, violenza e profanazione.
«Ripensare la nudità oltre gli abiti simbolici di cui si riveste il nudo nella rappresentazione? Ciò significa in primo luogo accostarsi a quella fenomenologia del contatto mascherato che Freud richiama giustamente come rovescio bifronte – tocco di Eros e tocco di Thanatos – di ogni idealizzazione, di ogni difesa psichica contro l’attacco, in noi, dei cosiddetti processi «primari». Occorre dunque trovare nella Venere stessa la traccia di questo snodo dissimulato, inquietante, in cui il tocco di Thanatos si sposa a quello di Eros: passaggio impercettibile, e nondimeno straziante, in cui l’essere toccati (essere commossi dalla bellezza pudica di Venere, vale a dire essere attirati e quasi carezzati dalla sua immagine) diviene essere colpiti (ovvero essere feriti, essere aperti dal negativo che appartiene a quella stessa immagine). Qui nudità fa rima con desiderio, ma anche con crudeltà» (Didi-Huberman, 2001, p. 19).
Riconosce ad Aby Warburg il merito di avere colto nella Venere questa tensione dialettica, che lega in un processo di continuo rimando Eros e Thanatos, apollineo e dionisiaco, e la capacità di leggere nei riferimenti letterari rimandi associativi che eccedono il momento che ha ispirato la rappresentazione. Poliziano narra il racconto mitico a monte, la castrazione di Urano ad opera del figlio Saturno, e dai cui genitali caduti in mare nascerà Venere “Nel tempestoso Egeo in grembo a Teti / si vede il frusto genitale accolto, / sotto diverso volger di pianeti / errar per l’onde in bianca schiuma avolto” (Poliziano, Stanze, 99). L’horror precede e sostanzia il pudor, Didi-Huberman ritrova in forma esplicita l’altro polo della dialettica in quattro tavole botticelliane conservate al Prado, rappresentano la novella della quinta giornata del Decameron su Nastagio degli Onesti, in una in particolare il cavaliere sventra la pulzella e ne estrae i visceri, Venere, questa volta in dimensione onirica, si svela appagamento di un desiderio mortifero, mostrando le budella di quella che sorge dalle acque. La ricognizione impeccabile di Didi-Huberman procede ad altra Venere, Madame Edwarda, di cui propongo, evoca il seguito, un passo noto: «Elle était noire, entièrement, simple, angoissante comme un trou: je compris qu’elle ne riait pas et même, exactement, que, sous le vêtement qui la voilait, elle était maintenant absente. Je sus alors, qu’Elle n’avait pas menti, qu’Elle était DIEU» (Bataille, 1967, p. 41). La parata delle Veneri si conclude con la più inquietante, la settecentesca Venere dei medici (complementare alla Venere de’ Medici quanto la tavola del Prado alla Nascita della Venere) di Clemente Fusini, Venere anatomica in cera, apribile in più strati, per porre alla vista ciò che ci è interiore.
Questa premessa per individuare il nostro oggetto e le coordinate per la sua analisi, Venere, una Venere ulteriore, in cui l’ambivalenza si gioca in un rapporto osceno tra le rappresentazioni e i mondi che le hanno generate, Saartje Baartman, la Venere Ottentotta.
Osceno
Si impone una definizione preliminare dell’osceno. I vocabolari concordi affermano essere ciò che offende il pudore, che a sua volta è definito come il senso di vergogna cagionato da ciò che è moralmente sconveniente. L’etimologia rimanda al doppio significato originario di brutto, torbido, laido e di portatore di cattivi auspici, ma per lo più sono sensi dismessi a favore di un significato ristretto alla sola sfera sessuale, in ragione del ruolo che viene ad assolvere come termine giuridico. In effetti il reato di oscenità, articoli 725 e 726 del codice penale, fa riferimento all’offesa della “pubblica decenza”. In ambito giuridico sono stati elaborati strumenti per valutare l’osceno, il primo e più noto è l’Hicklin test, elaborato in Inghilterra nel 1868, per cui il crivello è il seguente: osceno è ciò che “deprava e corrompe le menti aperte a tali influenze immorali”, senza riguardo al valore artistico dell’opera. L’onda repressiva sull’osceno giunge in America con le Comstock laws, che si appoggiano al test di Hicklin. Nel tempo ne sono stati considerati i limiti e gli è stato preferito il test di Roth, del 1958, per cui è osceno il materiale «il cui tema dominante nel suo complesso motiva interessi prurigginosi” alla “persona media, secondo gli standard comuni contemporanei».
Salta agli occhi l’evidente limite di ogni tentativo di ipostatizzare il nostro termine, l’osceno è negli occhi di chi guarda, ciascuno vive una soglia oltre cui un oggetto, un comportamento, un pensiero appaiono osceni, e a determinare il giudizio è evidentemente l’orizzonte della nostra vita singolare (lungo lo spettro che dalla beghina giunge al libertino), ma tanto più il milieu culturale in cui siamo immersi. Classici della letteratura, Cleland, Flaubert, Joyce, Guyotat, sono stati banditi al tempo della loro pubblicazione perché non passavano il test degli standard comuni contemporanei, e c’è da supporre che a turbare lo spirito dei censori non fossero solo i contenuti sessuali espliciti, ma qualcosa di ulteriormente perturbante nella scrittura, o nella messa in scena, come nel Salò o nella prolusione radiofonica dell’ultimo Artaud. Non ci sembra comunque adeguato limitare l’analisi dell’osceno alla sola sfera della sessualità e delle sue pratiche, l’osceno è dislocato su molti livelli. A volte finisce per embricarsi con altre categorie, il perturbante di Jentsch-Freud, il grottesco, si pensi al Rabelais di Bachtin (Bachtin, 1979, Valtellina, 2012). C’è un’etimologia fittizia, cara a Carmelo Bene, che vuole l’osceno come il fuori scena, ciò che deve stare al riparo dalla vista. Definizione suggestiva, non fosse che l’osceno, anziché alterità rimossa, è ad un tempo stigmatizzato e posto bene in vista, non smette di essere additato, percorso, sezionato e sanzionato, e la sanzione ne ribadisce la centralità simbolica, non c’è osceno senza fascinazione, individuale e collettiva. Per tale ragione torna utile una ulteriore definizione di Carmelo Bene: «Chiamiamo sin da ora osceno l’eccesso del desiderio» (Bene, 1995, 760). Fascinazione, desiderio e standard morali in un tempo dato sono le coordinate portanti di ciò che mi propongo nel presente testo, analizzare l’osceno cumulativo nella proliferazione virale del discorso pubblico e scientifico su una ragazza di etnia Khoekhoe morta a Parigi il 29 dicembre del 1815 all’età di venticinque anni, Saartjie Baartman.
Saartjie
In varie occasioni mi era capitato di imbattermi nella storia della Venere nera prima di focalizzare l’attenzione su di lei, nel racconto dell’incontro di Stephen Jay Gould con i suoi resti, allora conservati al Musée de l’Homme al Trocadero (Gould, 2004), poi scrivendo un testo introduttivo ai Freak Studies (Valtellina, 2012a) e infine al cinema, messa in scena da Abdellatif Kechiche in Vénus noire (dalla cui sceneggiatura è stato tratto anche un fumetto: Kechiche, Pennelle, 2010). Allargando lo sguardo alle altre fonti sono rimasto sopraffatto dalla quantità di materiali che la riguardavano, alcuni coevi, per tutto l’ottocento se ne è scritto tantissimo, altri contemporanei, Saartjie è diventata un’icona per i Black Women’s Studies (Willis 2010, Wallace-Sanders, 2002, Gordon-Chipembere, 2011) e i Postcolonial Studies, e ricorre come oggetto di dedizione nei Freak Studies (Garland Thomson, 1997), era comparsa persino in forma trasfigurata nel primo numero della rivista fascio-razzista La difesa della razza.
Sappiamo pochissimo su Saartjie,
«poche cose sono certe sulla Baartman. Ciò che sappiamo viene da una lettura sotto la superficie di articoli di giornale, procedimenti giudiziari e articoli scientifici. Niente viene direttamente da lei. Un registro storico che ha preservato una quantità di tracce sugli uomini di scienza europei ma solo sguardi fugaci ai soggetti che descrivevano» (Wallace-Sanders, 2002, p. 75).
Non ne sappiamo quasi niente, ma negli ultimi anni sono proliferate le biografie, più o meno romanzate (Holmes, 2007; Crais, Scully, 2008), per la nostra analisi la dimensione biografica è di poca importanza, se non come evento di un attrattore che ha catalizzato in due momenti, l’inizio del diciannovesimo secolo e la contemporaneità, un’attenzione straordinaria legata a specifiche contingenze culturali. Non di meno, per l’essenziale, eccone il racconto.
Saartjie, diminutivo di Sara in lingua afrikaans, nasce nella valle del fiume Gamtoos nel 1789 (alcuni autori sostengono un decennio prima), figlia di un mandriano, quando questi viene ucciso va a servizio in città, qui il fratello del padrone, Hendrick Cezar, e Alexander Dunlop, medico sulle navi, le propongono di andare con loro in Inghilterra. Era parte dei reperti esotici che contavano di smerciare, tra cui, ricorrente in ogni narrazione della vicenda, una pelle di giraffa. Giunta a Londra nel 1810 si esibisce al 255 di Piccadilly Circus, altro riferimento costante, essendone rimasta la locandina.
L’esibizione viene raccontata come una cosa molto cruda da Freak Show, e di fatto lo era, esibendosi (pare talvolta in una gabbia) per due scellini. Per tale ragione la sua storia compare in Extraordinary bodies di Rosemarie Garland Thomson (Garland Thomson, 1997, 70-78), testo aurorale dei Freak Studies, accanto a quella parallela e parimente tragica di Julia Pastrana, a cui è toccata una sorte sorprendentemente simile 1. Il suo spettacolo, la sua figura, entrano in risonanza con un orizzonte culturale, in breve tempo catalizza un’attenzione straordinaria, diventa qualcosa di esemplare, ricorre insistentemente nei rotocalchi e nella satira. Non solo Londra: Bath, Bury St. Edmunds, Liverpool e Dublino (McEvansoneya, 2013). È al centro di un caso giudiziario quando Cezar e Dunlop vengono accusati di contravvenire alle leggi contro la schiavitù promulgate in Inghilterra nel 1807, il processo, attraverso cui ci sono giunte alcune notizie concrete sulla vita di Saartjie Baartman, si concluse quando venne riconosciuto un contratto tra Saartjie e Cezar. A seguito di ciò, lo spettacolo di Saartjie venne a subire un cambiamento:
«A Londra, le esibizioni presero due forme, prima e dopo il caso giudiziario. Inizialmente consistevano in Saartjie in posa su un palco sollevato che assecondava le indicazioni di Cezar, si muoveva avanti e indietro, e si girava per mostrare il suo fisico. I Tommaso in dubbio erano invitati a verificare la realtà delle sue forme e a ‘sentire le sue parti posteriori… affinché fosse chiaro che non c’era imbroglio’. Malgrado le immagini promozionali, Baartman non compariva nuda, ma le sue caratteristiche fisiche, come i grandi seni e i glutei, che erano considerate significanti razziali, erano evidenti attraverso il costume attillato disegnato per lei. Ciò venne cambiato con l’intenzione di rendere l’esibizione più accettabile per tutti, ‘adatta anche alle signore’. In breve, l’esibizione riprese con l’aggiunta della foglia di fico dei dettagli etnografici. Venne sostituito il costume, a cui vennero aggiunte perline e altri ornamenti, e un trucco ‘tribale’ venne applicato alla sua faccia. Così l’esibizione, strutturata su uno sfruttamento calcolato di un brivido sessuale razzista, si trasforma in un interesse pseudoscientifico per la varietà dell’umanità» (McEvansoneya, 2013, p. 27).
C’è traccia del battesimo di Saartjie nel 1811 a Manchester, poi per un paio d’anni non se ne sa nulla, ricompare a Parigi nel 1814, Dunlop era morto, Cezar, tornato in Sud Africa, l’aveva passata all’addestratore di animali S. Reaux, che la esibiva a prezzi ben più alti dei due scellini, anche lo spettacolo era più articolato, Saartjie ballava e suonava uno strumento a corde, fumava. Forse si prostituiva, certamente beveva tantissimo. Reaux aveva fatto in modo che Saartjie fosse oggetto delle attenzioni scientifiche di Etienne Geoffroy Saint-Hilaire, Georges Cuvier e Henri Marie Ducrotay de Blainville, che l’avevano ispezionata nel 1815 al Jardin du Roi, e ne avevano commissionato famosi ritratti, di cui uno finì nel secondo volume della Histoire naturelle des mammifères curata da Etienne Geoffroy Saint-Hilaire e Frédéric Cuvier, fratello di Georges, in cui Saartjie è l’unica persona umana in un repertorio sulle specie animali. L’abuso di alcool e un’infezione (vaiolo, sifilide, altro, le ipotesi sono varie), la uccise il 29 dicembre del 1815.
Questa per quanto ne sappiamo è stata la vita di Saartjie Baartman, la Venere ottentotta. Di Venere abbiamo detto, veniamo agli ottentotti.
L’invenzione dell’ottentotto
Tra i materiali che ho raccolto per questa ricerca, spicca per qualità assoluta L’invention du hottentot: Histoire du regard occidental sur les Khoisan (XVe-XIXe siècle) di François-Xavier Fauvelle-Aymar, sarà la traccia per la mia ricognizione, il libro segue la storia della costituzione e dell’articolazione nel tempo dello sguardo occidentale sulle popolazioni delle regioni del Capo di Buona Speranza. Pochi gruppi etnici hanno focalizzato l’attenzione e il discorso della scienza occidentale quanto gli ottentotti (e i boscimani, a questi prossimi e distinti, Barnard, 2007). I colonizzatori dell’estremo lembo meridionale dell’Africa, portoghesi prima, poi olandesi e inglesi, hanno costruito nei secoli, dal tempo della scoperta, un immaginario sulle popolazioni native, ora vengono denominate Koisan, fino a tutto il diciannovesimo secolo erano distinte in Ottentotti (ora Khoekhoe) e Boscimani (Bushmen, ora San), i primi allevatori, gli altri cacciatori-raccoglitori. In verità le partizioni tra i gruppi, etnici e linguistici, erano e sono molto più articolate, non di meno i due termini hanno motivato un accanimento nell’immaginario scientifico europeo, fino a costituire una polarità negativa estrema nell’assiologia razzista. La geografia legittima la teoria, abitano il limite estremo dell’Africa, nulla più in basso e distante dall’Europa e dai suoi abitanti, che di tale assiologia sono evidentemente il vertice. Samuel Morton, razzista americano, ne fa un intento di ricerca:
«Mostreremo che non solo che il vasto continente [l’Africa] è abitato da tipi molto diversi, come quelli di Europa o Asia, ma che esiste una gradazione regolare, dal Capo di Buona Speranza all’istmo di Suez, di cui l’ottentotto e il bushman costituiscono il livello più basso, e le tipologie egiziana e berbera il più alto» (Nott, Gliddon, 1854, p. 180).
Il termine ottentotto si afferma a partire dalla seconda metà del diciassettesimo secolo, in precedenza le popolazioni del Capo venivano individuate come cafari (termine poi riservato alle popolazioni più a nord, verso la Namibia), dall’arabo Kuffar, infedeli. Sull’origine del nome c’è chi si è accanito (Maingard, 1935, Jeffreys, 1947), le ipotesi sono varie, pare provenga da una strofa ricorrente in una danza di saluto rituale. Le tracce nella memorialistica di viaggio focalizzano il definirsi e i mutamenti delle connotazioni correlate alle popolazioni del capo (tra i fondamentali, Kolbe, 1742, Levaillant, 1884, Péron, 1807) per cui il buon selvaggio, diviene poi semplicemente selvaggio. Come accennato, il razzismo scientifico otto-novecentesco ne farà l’immagine dell’altro da sé, di volta in volta, il ruolo di gradino più basso della specie umana spetterà agli ottentotti o ai boscimani. La grande catena dell’essere ha così le sue due polarità estreme, l’uomo bianco europeo, prossimo a Dio, e l’ottentotto, prossimo all’orango: la teoria viene a essenzializzare, legittimandola, la gerarchia (Gordon, 1992). Così Samuel Morton parlando delle terre del Capo: “Si solleva, allontanandosi dalla costa, in altopiani e montagne, e possiede un clima temperato e gradevole; non di meno è qui che ritroviamo le più basse e bestiali tra le varietà umane: gli ottentotti e i boscimani. Questi ultimi, in particolare si distinguono poco, per i caratteri fisici e morali, dagli orang-outan” (Nott, Gliddon, 1854, 182, cfr. Tuvel, 2011). Una singolarità che ha motivato attenzione agli ottentotti è la lingua, con sillabe schioccanti impronunciabili dagli europei, una delle etimologie fittizie proposte per ‘ottentoto’ rimandava a un modo di dire gergale olandese per balbuziente. Così Cesare Lombroso, che molto si è dedicato agli ottentotti (Lombroso, 1892; Lombroso, Ferrero, 1903), ne descrive la lingua:
«L’uomo Ottentotto, anch’egli, ha un linguaggio tutto suo proprio, e che porta, come il suo scheletro, l’impronta dell’inferiorità della razza. Vi mancano i casi, la declinazione dell’aggettivo, il pronome relativo, i generi; vi mancano le parole astratte. Invece di dire: io e voi – dicono: noi due mani. Essi distinguono per il pronome della prima persona due plurali, uno che esclude l’idea della persona a cui si parla, l’altro che la comprende, particolarità questa commune anche alle lingue americane e polinesiche. Essi non pronunciano la s, la f, la c, la t, e viceversa hanno alcune strane consonanti, chiocchianti, come le chiama il mio Teza, impossibili a laringi europee, e che il Bleek paragona ai gridi delle conterranee scimie hylobate, intravedendovi una nuova prova della commune parentela» (Lombroso, 1892, p. 66).
Altre sono comunque le peculiarità di tali popolazioni che ne hanno fatto oggetto di uno studio e di un’osservazione compulsiva. “Il ritratto dei Khoikhoi è un ritratto sessuato. Dando credito ai viaggiatori e ai residenti della colonia, gli organi genitali degli abitanti del Capo si lasciano osservare, toccare, palpare, comparare. Gli Ottentoti non hanno mai smesso di spogliarsi” (Fauvelle-Aymar, 2002, 143). Consideravo in precedenza che l’osceno è negli occhi di chi guarda, e lo sguardo coloniale sugli ottentotti è marcatamente osceno. All’inizio si focalizza sui genitali maschili, nel diciassettesimo secolo si diffonde la credenza che avessero un testicolo solo, varie sono le versioni, che l’altro fosse asportato nei primi anni o nella pubertà, che l’operazione fosse finalizzata a ridurre le nascite o a facilitare la corsa, ad aumentare o diminuire il desiderio sessuale, ad evitare la nascita (considerata sventurata) di gemelli, e quale, tra il destro e il sinistro, fosse rescisso: netta prevalenza per il destro. Linneo attribuì tanta importanza a questa castrazione parziale da farne per metonimia l’indicativo specifico della classificazione di riferimento: non già Homo sapiens, ma Homo Monstrosis Monorchidei («Les Hommes à un testicule, comme moins féconds: les Hottentots», Linné, 1793, p. 33). A partire dalla seconda metà del diciottesimo secolo, in breve progressivamente, si smise di scrutare lo scroto ottentotto.
Rispetto al caso Saartjie Baartman, Venere ottentotta, quella sui testicoli potrebbe sembrare una divagazione, invero resta l’evocazione della castrazione di Urano. Un altro tratto fisico, specificamente venereo, si è posto progressivamente all’attenzione a partire dalla metà del diciassettesimo secolo, ha preso nomi diversi nelle varie lingue, ma con il medesimo significato: tablier, apron, Schürze, grembiule delle ottentotte, si tratta dell’ipertrofia delle piccole labbra, delle ninfe: sinus pudoris, come lo chiamò Linneo. La macroninfia è diffusa in varie popolazioni, non è una peculiarità delle popolazioni del Capo, non di meno è stata sempre associata a queste. Resta inoltre un’indecidibilità, se naturale o culturale, essendo molti coloro che hanno sostenuto che fosse l’esito di manipolazioni per aumentare le dimensioni di detta caruncola. La curiosità dei viaggiatori nella terra dei Khoisan non diminuisce nei secoli, e ogni racconto si sofferma sul tablier: talvolta dopo una decisa resistenza, a volte dopo la semplice offerta di strumenti ricreativi particolarmente graditi (tabacco e aquavite, ricorrenti in quasi tutti i racconti dei viaggiatori, e nella vita di Saartjie), le ragazze ottentotte acconsentivano all’ispezione dei propri genitali. Robert Gordon commenta: “Certamente, dalla prospettiva dei Khoi, la loro volontà di esporre i genitali, spesso riportata dagli europei in cerca di conferme, prende una nuova connotazione. Ciò che i nostri intrepidi esploratori non capivano era che l’insulto più feroce che un Khoi può rivolgere a qualcuno è mostrargli i genitali!” (Gordon, 1992, 193).
Il terzo attrattore sessuale delle popolazioni del Capo è all’origine del fascino di Saartjie, la steatopigia, ciò che Lombroso chiamò il cuscino posteriore delle ottentotte (Lombroso, 1892).2
Saartjie Baartman deve molta della sua notorietà postuma a Georges Cuvier e a Henri Marie Ducrotay de Blainville che ne sezionarono il corpo, dopo avere tratto dal cadavere un calco funebre, conservando lo scheletro scarnificato, il cervello e i genitali. Altri scienziati si accaniranno per tutto il diciannovesimo secolo sui suoi resti, seguiamo gli esami del suo corpo spezzettato, partendo dall’articolo di Cuvier del 1817.
Apron-Aprire
Eragli ancora due ninphe con panni sottili svolazzanti (Plinio tradotto dal Filarete – cit. Warburg, 1999).
Se si sollevano queste due appendici, insieme formano la figura di un cuore (G. Cuvier).
L’apologetica contemporanea su Saartjie Baartman stigmatizza lo scienziato bianco che la sventra alla ricerca di soddisfazione alle sue pruriggini sessuali, goffamente ammantate di finalità di ricerca scientifica. Semplificazioni simili non rendono giustizia al ruolo di Cuvier nello sviluppo dell’anatomia comparata come modello per la classificazione del vivente, e la fascinazione per l’osceno esotico del tablier non è individuale ma culturale. Seguiamo dunque le sue osservazioni senza farci coinvolgere dalla riprovazione morale di cui è oggetto, nella convinzione che non aiuti la comprensione degli eventi.
«Non c’è nulla di più celebre nella storia naturale che il grembiule (tablier) delle ottentotte, e ad un tempo non c’è niente che sia stato oggetto di più numerose contestazioni. A lungo gli uni ne hanno completamente negato l’esistenza, gli altri hanno preteso che fosse un prodotto dell’arte e del capriccio, e tra quanti l’hanno considerato come una conformazione naturale, vi son state tante opinioni quanti autori rispetto a quale organo della femmina fossero lo sviluppo» (Cuvier, 1817, p. 259).
Questo è l’esordio del referto autoptico di Cuvier su cadavere di Saartjie. Fin dal principio, l’attenzione è volta al tablier. Riporta Péron, per cui non si tratta di una peculiarità delle ottentotte ma delle boscimane (se Saartjie fosse ottentotta o boscimane, o un ibrido tra le due etnie, è un discorso ricorrente ancorato alle diverse caratterizzazioni dei due gruppi), e sostiene essere un organo specifico, a sé, altrove viene paragonato alla caruncola sul becco dei tacchini. Riepiloga quindi la vita di Saartjie per quanto l’ha conosciuta. Riporto un passo lungo, perché mi sembra saturo dell’ambivalenza di uno sguardo.
«Quando l’abbiamo conosciuta per la prima volta, pensava di avere circa ventisette anni, e diceva di essere stata sposata a un negro da cui ha avuto due figli. Un inglese le aveva fatto sperare in grandi fortune se si fosse offerta alla curiosità degli europei, ma aveva finito per abbandonarla a un ammaestratore di animali di Parigi, presso cui è morta d’una malattia infiammatoria ed eruttiva. Chiunque ha potuto vederla nei diciotto mesi del suo soggiorno nella nostra capitale, e verificare l’enorme protuberanza dei suoi glutei, e l’apparenza brutale della sua figura. I suoi movimenti avevano qualcosa di brusco e di capriccioso che ricorda quello delle scimmie. Aveva soprattutto un modo di sporgere le labbra assolutamente simile a quello che abbiamo osservato negli orang-outang. Il suo carattere era gaio, la sua memoria buona, e riconosceva a distanza di settimane una persona che aveva visto una sola volta. Parlava abbastanza bene l’olandese che aveva appreso al Capo, conosceva anche un poco di inglese e cominciava a dire qualche parola in francese. Ballava secondo l’uso del suo paese e suonava con buon orecchio quel piccolo strumento che viene chiamato scacciapensieri (guimbarde). Le piacevano le collane, le cinture, la bigiotteria, ma ciò che più era di suo gusto era l’acquavite. Si può attribuire la sua morte a un eccesso nel bere a cui si è abbandonata durante la sua ultima malattia.
La sua altezza era di quattro piedi e sei pollici, cosa che, secondo ciò che si dice dei compatrioti, nel suo paese doveva essere una bella statura, ma ella la doveva forse all’abbondanza di nutrimento di cui aveva goduto al Capo.
La sua conformazione colpisce al primo impatto per l’enorme larghezza delle sue anche, che passavano i diciotto pollici, e per la proiezione dei suoi glutei, che superava il mezzo piede. Per il resto non aveva nulla di difforme nelle proporzioni del corpo e delle membra: le sue spalle, la sua schiena e il suo petto avevano della grazia. La prominenza del ventre non era eccessiva. Le sue braccia, un poco esili, erano ben fatte, la sua mano graziosa. Anche il suo piede era bello, ma il ginocchio sembrava grosso e contorto, ciò che si è poi scoperto essere dovuto a una cospicua massa di grasso situata sotto pelle nella parte interna» (Cuvier, 1817, pp. 262-263).
Salta all’occhio la curiosa mescolanza tra il rilievo di tratti animali, le labbra atteggiate come quelle dell’orango (Tuvel, 2011), e la fascinazione per alcuni graziosi aspetti del fisico, tra comportamenti scimmieschi e abilità linguistiche e musicali. Dopo una breve ricognizione dei caratteri fisici generali, giunge, attesa e auspicata, la scoperta:
«Ma in questa prima ispezione, non è minimamente percepita la particolarità più notevole della sua organizzazione; ella teneva accuratamente il suo tablier pudicamente nascosto, vuoi tra le cosce, vuoi più profondamente, e fu solo dopo la sua morte che si venne a sapere che lo possedeva. […] Le prime ricerche dovranno avere per oggetto questa appendice straordinaria la cui natura ha fatto, diciamo, un attributo speciale della sua razza» (Cuvier, 1817, p. 265).
Finalmente l’oggetto delle fantasticazioni dei viaggiatori si offre all’analisi della scienza, la scoperta di tale tesoro nascosto permette una sua descrizione definitiva, eccola:
«Ho avuto l’onore di presentare all’Accademia gli organi genitali di questa donna, preparati in modo da non lasciare alcun dubbio sulla natura del suo grembiule. La grandi labbra, poco pronunciate, intercettano un ovale di quattro pollici di lunghezza. Dall’angolo superiore scendeva tra queste una prominenza di circa diciotto linee di lunghezza e di sei linee di spessore, la cui estremità inferiore si allarga, si biforca e si estende come due petali carnosi e rugosi di due pollici e mezzo di lunghezza e circa un pollice di larghezza. Ognuno di essi è arrotondato sulla punta; la loro base si allarga e scende lungo il bordo interno della grande labbra sul suo lato e si trasforma in una cresta carnosa che termina nell’angolo inferiore del labbro. Se si sollevano queste due appendici, insieme formano la figura di un cuore, i cui lobi sono stretti e lunghi, e il cui centro sarebbe occupato dall’apertura della vulva. Guardando più da vicino, vediamo che ciascuno di questi due lobi presenta, sulla sua faccia anteriore, vicino al suo bordo interno, una scanalatura più marcata delle altre rughe, che sale, diventando più profonda, fino al di sopra della loro biforcazione. Là le due scanalature si incontrano, in modo che vi sia nella posizione della biforcazione una doppia flangia che circonda una fossetta a forma di V rovesciata. In questa fossetta vi è una piccola protuberanza, che termina con un piccolo punto in cui i due bordi interni si incontrano» (Cuvier, 1817, pp. 266-267).
Il tablier non ha più segreti, e l’anatomia comparata permette di dirimere finalmente e definitivamente le ipotesi precedenti, di criticare quella di Péron, per cui si trattava di un organo specifico, e l’altra secondo cui era generato attraverso manipolazioni, Cuvier nota del resto che, se fosse stato creato intenzionalmente, non si spiegherebbe perché Sartjie Baartman lo tenesse nascosto con tanto pudore. Sembra comunque seccato per il fatto che
«[L]a vela delle boscimane non è una di quelle particolarità dell’organizzazione che potrebbero stabilire un rapporto tra le femmine e le scimmie; in quanto queste, lungi dall’avere ninfe prolungate, le hanno in generale appena distinguibili» (Cuvier, 1817, p. 268).
L’altra particolarità in esame, la steatopigia, rimanda invece direttamente a mandrilli e babbuini. Cuvier non approfondisce ulteriormente l’analisi dei glutei, che pure erano stati la ragione della straordinaria fama di Saartjie. L’analisi prosegue col bacino, che richiama, in negri e ottentoti, quello delle scimmie. Anche le caratteristiche dei femori avvicinano all’animale. Gli omeri erano al contrario esili e aggraziati, anche in questo caso l’anatomia comparata è spietata, approssimandoli a quelli di alcune tipologie di scimmie e cani.3
Ho premesso che Cuvier era uno scienziato di prima grandezza nel suo tempo, seguirlo ci ha permesso di cogliere quanto la scienza grondi ideologia, in questo caso razzista, ed è pienamente comprensibile come ora possa apparire ripugnante, ma mi sembra un livello di lettura abbastanza banale, la questione posta del riconoscimento dell’animalità dell’altro come specchio osceno della propria, forse lo è meno.4 Ma passiamo al culo.
Venere Callipigia: Il cuscino posteriore delle ottentotte
La vignetta satirica ritrae Lord Grenville, politico britannico del tempo, già primo ministro, in un raffronto fisico con Saartjie, molte sono le immagini da rotocalco omologhe centrate sul suo posteriore. In effetti Rachel Holmes ha piena ragione nel segnalare la centralità simbolica del culo ipertrofico nell’età georgiana, la Venere ottentotta è entrata in risonanza oscena col suo tempo, col tempo della società in cui si è trovata proiettata. Bisogna senz’altro riconoscere al podice una capacità di fascinazione specie-specifica considerevole, lo spazio per l’integrazione della Breve storia delle natiche di Jean-Luc Henning è infinito. Moltissimo è stato scritto sulla steatopigia, limiterò la mia analisi all’interpretazione funzionalista di Lombroso, che al cuscino posteriore delle Ottentotte ha dedicato un articolo in L’uomo bianco e l’uomo di colore (Lombroso, 1892). La dimensione razzista è decisamente esplicita nel discorso lombrosiano, l’antropologia criminale si regge su nozioni come atavismo e regressione, che prevedono un modello superiore, l’uomo europeo civilizzato, e uno inferiore, il selvaggio, rimasto a stadi evolutivi anteriori e verso cui il deviante può tornare, secondo il paradigma morelliano della degenerazione. La forma pura del selvaggio è per lui l’Ottentotto, vero “fossile vivente”: “Ma l’Ottentotto forma una varietà ancor più singolare della razza umana. L’Ottentotto è, si può dire, l’Ornitorinco dell’umanità, perché riunisce insieme le forme più disparate delle razze negre e gialle ad alcune tutte sue proprie, le quali egli ha communi con pochi animali, che brulicano vicino a lui” (Lombroso, 1892, 29). La peculiarità della lettura lombrosiana della steatopigia sta nel suo tentativo di dare una giustificazione funzionale alle masse di grasso depositate sui glutei.
«Dalla regione posteriore, pelvica, delle loro donne sporge un piccolo baule di grasso, sul quale commodamente s’adagia il bambino che poppa, stirando dietro le spalle le lunghissime mammelle della madre. Se dopo tutto ciò si volesse ancora fare una specie sola dell’Ottentotto e del Bianco, converrebbe allora comprendere in una sola specie pur anche il lupo ed il cane, l’asino ed il cavallo, il capro e la pecora» (Lombroso, 1892, p. 33).
Non risulta da nessuna raffigurazione o racconto che le popolazioni Khoekhoe allattassero i figli in un modo tanto ingegnoso, né altri autori lo hanno affermato. L’antropologia criminale si rivela scienza creativa.
«È naturalissimo che in una razza dove il grasso tende a formarsi più rapidamente per tutto il corpo, la continuata pressione in una data regione ve l’abbia fatto accumulare maggiormente, così da foggiarsi quasi ad organo nuovo, vero organo della maternità, e trasmettersi coll’eredità, grazie ai vantaggi pedagogici (mi si scusi la nuova e più letterale applicazione della parola) che ne ricavano le povere madri. Ne è causa in parte anche la selezione sessuale, perché gli Ottentotti maschi ammirano queste masse di grasso e i Somali per scegliere la moglie mettono in fila le donne e prendono quella che sporge di più» (Lombroso, Ferrero, 1903, p. 102).
La scienza ottocentesca, ancora attraverso alcuni tra i suoi più illustri luminari, si è occupata di altri pezzi di Saartjie Baartman. Non più del tablier o della steatopigia, ma dello scheletro, del cervello e del cranio. Non riesco a trovare meno oscene queste altre analisi, piuttosto qualcosa di complementare, funzionale alla definizione dell’altro osceno dall’uomo bianco europeo.
Aprire la mente: Broca
Con maestria e garbo Stephen Jay Gould (Gould, 2004) racconta del suo incontro con i resti venerei di Saartjie Baartman, erano stati collocati in alto nello stesso armadio in cui, a livello del terreno, si trovava il cervello di Paul Broca, il più grande neurofisiologo della seconda metà del diciannovesimo secolo. La gerarchia che vede al vertice il cervello dello scienziato bianco e al gradino più basso i genitali della donna ottentotta, è qui per una volta ribaltata. A sua volta di passaggio al Musée de l’homme, Carl Sagan aveva scorto il cervello di Broca e scritto un testo in cui ne ricorda la figura e l’importanza (Sagan, 1974). L’articolo dedicato da Stephen Jay Gould alla Venere ottentotta ha riportato all’attenzione collettiva la presenza inquietante degli esiti della dissezione di Cuvier del corpo di Saartjie Baartman a Parigi, e forse è stato all’origine della Baartman renaissance contemporanea di cui diremo poi.
Broca si era direttamente occupato di Saartjie, del suo cervello, trascurato dagli anatomisti. Come i suoi illustri colleghi, era saturo dello Zeitgeist razzista, come del resto lo era un allievo di Blainville, Louis Pierre Gratiolet (Parent, 2014). Pioniere nello studio delle circonvoluzioni cerebrali, s’è assunto l’onere di raffrontare il cervello di Saartjie a quello dell’Uomo bianco:
«Comparando così la forma dell’interno del cranio nella Venere ottentotta e degli individui adulti appartenenti alla razza bianca, si può constatare che il volume del cervello della Venere ottentotta non raggiunge affatto la grandezza media comune nella razza bianca. La curva antero-superiore è meno convessa che nell’Uomo bianco; infine le fosse orbitarie sono più concave, e si osserva, a livello dell’estremità anteriore del lobo tempreo-sfenoidale, uno strangolamento molto marcato che risulta d’una predominanza rimarchevole rispetto alla piega sopraciliare. Questa disposizione sembra risultare da un minore sviluppo degli stadi superiori. Il cervello dei feti di razza bianca lo presenta al massimo grado, quando l’opercolo della scissura di Sylvius non incontra ancora il lobo centrale, è presente al momento della nascita, ma scompare nel progredire dello sviluppo, e nell’età adulta è completamente svanita.
Il cervello della Venere Ottentotta è pertanto, sotto ogni aspetto, inferiore a quello dei bianchi giunti al termine del loro sviluppo cerebrale.
Ben inteso, la Venere ottentotta non era affatto idiota. Quel cervello poco sviluppato era in armonia con la sua organizzazione, e il risultato di tale armonia era una intelligenza sufficiente, benché debole. Un cervello simile, nell’Uomo bianco, al contrario, sarebbe un fallimento, il termine forzato di uno sviluppo anormale. Quel cervello, nella Donna boscimane, non è che un segno di inferiorità, in un Uomo bianco sarebbe segno di degradazione. […] Il cervello della Venere ottentotta le bastava, lungi dall’essere idiota, non era nemmeno imbecille. Un bianco, con un simile cervello, sarebbe stato inevitabilmente affetto da idiotismo.
Si può dunque formulare la proposizione seguente:
“Due cervelli appartenenti a due uomini di razze differenti sono ugualmente sviluppati. Il più intelligente dei due cervelli è quello che appartiene alla razza inferiore”» (Gratiolet, 1854, pp. 66-67).
Questa versione è più sofisticata di altre, che limitavano la comparazione alla capacità cranica (Broca aveva escogitato un espediente per misurare il volume dei crani mediante pallini di piombo), non di meno è ancora più marcatamente razzista. Broca riprende nelle Mémoires d’anthropologie (Broca, 1871) le tesi di Gratiolet, riconoscendone la rilevanza ma ribadendo l’importanza delle dimensioni craniche, in omologia alle dimensioni fisiche, essendo boscimani e ottentotti raccontati come gracili e minuti. Anche in L’Ordre des primates, parallèle anatomique de l’homme et des singes Broca ritorna su Saartjie Baartman,
«È pertanto pressoché senza transizione che si arriva allo scimpanzè e all’orango, e vediamo apparire il tipo superiore. Per la complicazione del loro cervello, la profondità dei loro solchi, il numero delle circonvoluzioni secondarie, l’estensione relativa della loro superfice, questi due antropoidi si separano decisamente dai pitechi, e si approssimano talmente all’uomo, che bisogna avere l’occhio allenato di un anatomista per distinguere i loro cervelli dai cervelli umani su disegni riportati alla stessa grandezza, — soprattutto se si prende a termine di comparazione dei cervelli di negri o di ottentotti, che sono più semplici di quelli dei bianchi (si veda oltre fig. 10 p. 164 [in cui è disegnato il cervello di Saartjie, nella pagina successiva quello di uno scimpanzè])» (Broca, 1870, pp. 156-157).
Sullo scheletro di Saartjie Baartman ha posto attenzione Félix Regnault che, in La spondylolisthésis de la Vénus hottentote (Regnault, 1900), sostiene che la protuberanza posteriore di Saartjie Baartman non fosse steatopigia ma una deformazione delle ossa del bacino, la spondilolistesi appunto. Al cranio infine si è dedicato Jean Louis Armand de Quatrefages de Bréau. Il suo progetto di mappatura delle razze umane insegue un intento più enciclopedico che razzista, non di meno ricorre nei suoi libri il teschio di Saartjie (Quatrefages, 1887, Quatrefages, Hamy, 1882).
Concludiamo così la ricognizione degli studi sul corpo della Venere ottentotta, che verso fine ottocento venne quasi completamente dimenticata. Ma le tracce riemergono, seguiamone una particolarmente lurida.
Saartjie e la propaganda nazifascista
L’immagine a fianco compare nel primo numero della rivista di propaganda nazifascista La difesa della razza, pubblicato nel 1938, anno delle infami leggi razziali. Barbara Sorgoni, in “Defending the race”: Italian reinvention of the Hottentot Venus during fascism, ripercorre questa curiosa riesumazione di Saartjie in relazione alle finalità del regime. Conosciamo ormai la sua storia, sappiamo che era stato dibattuto se fosse da considerare ottentotta o boscimane, Khoekhoe o San, ma nessuno aveva mai supposto che fosse l’esito di un accoppiamento tra boeri e ottentotti, per cui la didascalia e il contesto, un articolo sui “bastardi”, sembrano fuori luogo. Che la realtà dei fatti importasse poco ai giornalisti del regime (l’articolo in questione è di Guido Landra) traspare da tutta la didascalia, dicono l’immagine essere una fotografia, in verità è uno dei disegni del 1815 commissionati da Cuvier e Geoffroy Saint-Hilaire, essendo la fotografia stata scoperta decenni dopo. Vi si sostiene inoltre che questo “mostro di natura”, esito del meticciato, fosse parte di quella “minuscola società battezzata pomposamente dai suoi componenti come “nazione di bastardi”. Il riferimento è al testo di Eugen Fischer, antropologo, criminale nazista, mentore di Mengele, sulla comunità meticcia di Rehoboth (Fischer, 1913), ampiamente presentato nell’articolo. Si trattava di un gruppo di alcune centinaia di persone di sangue per metà olandese e per metà Khoekhoe, stabilitasi nell’Ottocento nella Namibia centrale, che aveva creato un sistema amministrativo autonomo. L’accento sulla stigmatizzazione del meticciato evidenzia le finalità reali dell’interpellazione di Saartjie. La recente annessione dell’Etiopia (alla nazione di bastardi pomposamente giusto allora chiamata dai suoi componenti “Impero”), aveva spinto migliaia di coloni nelle terre d’Africa, l’ideologia dichiaratamente e orgogliosamente razzista che permeava il fascismo vedeva come pericolo incombente la nascita di figli tra nativi e coloni, una delle finalità della rivista La difesa della razza, come organo di propaganda a grana grossa, era venire incontro alla volontà di marcare la distanza tra il tipo di razza italica (qualunque cosa con ciò si intendesse) e il negro e l’ebreo, e mettere in guardia dal meticciamento. Gli strumenti teorici, ormai fuori tempo massimo, erano i deliri antropometrici del razzismo scientifico del diciannovesimo secolo.
A parte questa ricooptazione ideologica straniata, e alcune ricerche cominciate negli anni quaranta ma mai uscite dagli ambiti accademici, lungo il Novecento Saartjie Baartman scomparve dallo sguardo pubblico, pur rimanendo, esposta prima, poi in magazzino dopo proteste di rappresentanti femministe, al Musée de l’Homme, fino all’articolo di Stephen Jay Gould. A segnare un capitolo fondamentale ulteriore della sua storia è di nuovo una contingenza storica peculiare, la fine del regime razzista dell’apartheid in Sud Africa. Saartjie torna a casa, e la Venere ottentotta torna al centro dell’attenzione collettiva.
La Sartjie-renaissance e l’ambivalenza di Venere
Se la storia ottocentesca di Saartjie Baartman è straordinariamente interessante, non lo è di meno la sua fortuna attuale, successiva alla ricoperta ad opera di Stephen Jay Gould (Gould, 2004) e di Sander Gilman (Gilman, 1985). Dalla metà degli anni Ottanta il discorso sulla Venere Nera è tornato a proliferare, di nuovo il corpo di Saartjie è diventato l’attrattore di coordinate culturali particolari, di nuovo si è trovata sul palco, questa volta in tutt’altro ruolo.
«La scoperta accidentale di Gould è coincisa non solo con la nascita della teoria postcoloniale, e in particolare del concetto dell’“Altro”, ma con la crisi del Sud Africa bianco, con lo stato di emergenza dell’anno seguente, che segnò (come sappiamo retrospettivamente) l’inizio della fine dell’apartheid. Questa congiuntura di circostanze, Zeitgeist e politiche internazionali ha prodotto il fiorire dei Baartman studies – storici culturali e medici, paleontologi, antropologi, scienziati e filosofi – hanno dato luogo a una seconda ondata di Saartjiemania» (Youé , 2007, p. 560).
L’atto simbolico che marca questa Baartman-renaissance è il ritorno delle sue spoglie in Sud Africa e l’inumazione sulla collina di Vergaderingskop nella valle del fiume Gamtoos. Dalla liberazione di Nelson Mandela nel 1990 erano stati avviati contatti con la Francia per la restituzione del corpo, e si era resa necessaria la promulgazione di una legge apposita per permettere la dismissione dei reperti museali e la loro alienazione al Sud Africa, ciò avvenne nel maggio 2002, il 9 agosto dello stesso anno, giorno della donna in Sud Africa, sono stati celebrati i funerali ufficiali, alla presenza del capo dello Stato.
Ora Saartjie Baartman è un’icona della sua terra, di nuovo al centro di una produzione culturale che va dalla cinematografia (Kechiche di cui si è detto, ma anche due film di Zola Maseko, Life and times of Saartjie Baartman e The return of Saartjie Baartman, oltre a vari documentari ulteriori) alla poesia (Diana Ferrus, poetessa di etnia Khoekhoe, è stata tra le personalità più attive nel promuovere il ritorno dei resti in Sud Africa), all’arte (Willis, 2010, l’immagine a fianco è ‘Hot-en-tot’ di Renée Cox, 1994), fino a una produzione teorica straordinaria (per quantità, la qualità è decisamente variabile). La forma del suo fisico è stata trasvalutata, come le valenze dell’attributo “Ottentotta”. Se nell’Ottocento in “Venere ottentota” i due termini stridevano, essendo il secondo la negazione del primo, ora sono armonizzati.
La storia ci ha dato due Veneri ottentotte, quella della sua rinascita contemporanea, statuaria, iconica, idealizzata, Madre della Patria, che non può però che rinviare all’altra, la Venere aperta da Cuvier, esposta come freak of nature, oggetto prediletto della satira londinese e parigina di inizio Ottocento. Ritroviamo qui, in altra forma ma secondo le medesime coordinate, l’ambivalenza della Venere aperta di Didi-Huberman, tra la rappresentazione idealizzata e il suo doppio osceno.
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Note:
1) Julia Pastrana, la donna più brutta del mondo, la donna barbuta, la donna scimmia (pertanto ispiratrice del film di Marco Ferreri), affetta da irsutismo, si esibiva ballando nei side shows, quando, in tournée in Russia, morì di parto a ventisei anni (l’età presunta di Saartjie Baartman) nel 1860: il marito-manager vendette il suo corpo e quello del figlio a un taxidermista. La qualità del risultato dell’imbalsamazione lo spinse a ricomprare i corpi dei congiunti proseguendo la loro esposizione nelle fiere, e ciò proseguì per più di un secolo, fino a quando, negli anni settanta, diventarono una imbarazzante reliquia in un istituto scientifico di Oslo. In seguito alla sepoltura delle spoglie residue di Saartjie Baartman in Sud Africa, un movimento analogo ha promosso il ritorno in Messico di quelle di Julia Pastrana. Principale promotrice del rimpatrio dei resti, l’attrice visuale newyorkese Laura Anderson Barbata. Sui Freak studies in relazione a Saartjie Baartman si vedano anche Durbach, 2010 e Qureshi, 2011.
2) Un prezioso riepilogo della storia dell’individuazione delle peculiarità fisiche delle popolazioni del Capo è in Blanchard, 1883.
3) All’esame autoptico di Saartjie partecipò anche Henri Marie Ducrotay de Blainville, le sue osservazioni sul cuscino posteriore sono in Blainville, 1833.
4) Ancora una volta, il rimando è alla lettura di Saartjie Baartman di Rebecca Tuvel, 2011 dal titolo “Veil of Shame”: Derrida, Sarah Bartmann and Animality, che riprende le analisi di Derrida in L’Animal que donc je suis, L’animale che pertanto sono/seguo (Derrida, 2006).
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Immagine di copertina:
Abdellatif Kechiche, Vénus noire, 2010