Battiato è un linguaggio comune, e dirne sull’onda della sua sparizione è come inoltrarsi ai fondamenti del nostro essere insieme, della nostra comune immaginazione, di un tra-vedere e tra-guardare – avanti e indietro nello stesso momento. Sparizione, mi è venuto da dire: come non fosse affatto casuale che il suo percorso fisico individuale sia stato una sparizione progressiva, un lento svanimento, una dissoluzione – come polvere di luce. Una memoria che si frantuma fino ai suoi elementi ultimi, fino a che questi ultimi elementi si dissolvono essi stessi in un oceano di silenzio.
Ma questo, poi, pertiene alla nostra immaginazione – che però, in un circolo (vizioso o virtuoso? In ogni caso eterno) è contagiata dalla sua. E la sua – quella messa in musica – era, appunto, memoria: memoria di un passato che riemergeva per frammenti, memoria di un presente che era tensione e passione, memoria di un futuro ignoto che poi, in fine, è lo stesso di quel passato che torna eternamente.
Tutta la poetica di Battiato, come il suo percorso fisico, si muove tra memoria e svanimento. Cosa sono quei frammenti che compongono le sue canzoni se non i frammenti stessi della sua (nostra) identità che si forma e che si sforma? L’istituto magistrale nell’ora di ginnastica o di religione è quello dove chiunque di noi è stato nella sua infanzia, e da quei cassetti pieni di mare riemergono le mille bolle blu del nostro essere, quelle parti di noi che abbiamo dimenticato, e che tornano, tornano perché devono tornare, tornano in un canto, in una danza sghemba, in una eccentrica buffezza senza senso come senza senso sono i sogni: che però sono sintomi, sintomi di quell’essere che torna, che non cessa di tornare – torna come mille bolle blu che, una volta tornate, devono essere lasciate libere di volare nel vento dell’Eterno, e come bolle scoppiare, e non esserci più, in un oceano di silenzio.
Quando cominci a praticare meditazione, ti insegnano che i pensieri affiorano continuamente, e tu sei loro preda. Ti metti lì a meditare, a cercare il silenzio, e non lo trovi, perché ti trovi a pensare malgrado te: i pensieri riempiono la tua mente senza che tu lo voglia, affollano la tua immaginazione quando tu non vorresti immaginare niente. Il punto, ovviamente, è quel “volere”. Giacché, perché il silenzio ti trovi, è necessario che tu non voglia niente. Che tu non voglia. Si tratta invece, è questo che ti insegnano, di osservare (vipassana) quella schiera di pensieri che ingombrano la tua mente, osservarli senza attaccamento, lasciandoli scivolare come nuvole nel cielo. Falli sfilare via come nuvole (o come bolle che esplodono). Osservare, senza aggrapparsi alle forme, mantenendo la distanza da esse. Lasciar andare, lasciar andare, con lo sguardo attento e lucido. Finché, a (non)forza di lasciar andare, allo sguardo attento e lucido accade di cogliere uno schermo vuoto e omogeneo, come un imbrunire. In cui potrebbe accadere di trovare l’alba.
Quale alba abbia trovato Battiato non è dato sapere. Ma quel che ci riguarda tutti è il suo aver messo in scena, in tutti questi anni, in tutte le fasi del suo itinerario artistico, la sua ricerca. È la ricerca l’unica cosa che conta.
Qualche anno fa ho visto un concerto del suo ultimo tour, quello con Alice. E notai che non ricordava più le parole, aveva bisogna di leggerle, a volte mancava gli attacchi (lui!) delle canzoni. Sentii una stretta al cuore, capendo che erano i primi segni del suo svanimento. Ma li ripenso con tenerezza, perché ero proprio sotto il palco e notai dei suoi gesti infantili, come se l’alba dell’uomo stesse riaffiorando in lui. Ricordo un sorriso struggente, ingenuo, infantile, quando, durante una delle ultime canzoni, due ragazzi si baciarono con passione proprio ai suoi piedi: lui abbassò lo sguardo, e li guardò con la stupefazione felice di un bambino.
Quella stupefazione me la porto dietro. È la stessa del resto che mi prende quando, periodicamente, metto su le sue canzoni e canto, ché lui è il musicista italiano di cui conosco più canzoni a memoria (la memoria!), e replico i suoi balletti sghembi sulla mia terrazza, e canto e ballo, e non penso, connesso alla terra e all’oblio, e si fa vero, come scrivevano Breton e Soupault, il «dimenticare, l’ardore più bello». È l’ardore di un oceano di silenzio.
Quando mia madre svaniva, e il respiro le veniva meno, ero accanto al suo letto, e le cantavo canzoni, che l’accompagnassero in quell’imbrunire, o in quell’alba. Quando il respiro le venne meno per sempre, le stavo cantando E ti vengo a cercare.
We’ll never die, we were never born.
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Immagine di copertina:
fotogramma dal video de La cura, 1996