[Questa riflessione prende le mosse dalla relazione dal titolo “Genealogia del femminino: il percorso del corpo femminile” di Rossana Sisana nell’ambito degli incontri del Collettivo Guaranì. La registrazione si trova nel canale del seminario Bateson Deleuze Foucault].
«Riuscire a rendere la complessità propria del movimento delle donne e del pensiero femminista in pochi tratti è effettivamente un’operazione difficile e che presuppone una serie di generalizzazioni e omissioni che possono essere giustificate solo allo scopo di cominciare a fornire alcune definizioni iniziali che, una volta approfondite, sprigionino tutta la propria ricchezza».1
Nel contributo della serata del 13 Aprile, che ha visto come relatrice Rossana Sisana, membro del Collettivo, si è deciso di dedicare la serata alla donna, ma non solamente a una donna: a tutte le donne, nella loro infinita e complessa unicità. L’assunto di partenza con cui dobbiamo fare i conti è che tracciare una genealogia del femminino rappresenta una sfida ardua, «per molti versi un’operazione controversa e, in qualche modo, anche azzardata. Non bisogna pensare, dal mio punto di vista, di avere una visione totale e completa di quella che può essere una genealogia di qualcosa di così profondo e importante: soprattutto quando il percorso dell’evoluzione del femminile e del femminino è un percorso sicuramente non lineare, che ha avuto inciampi, ribaltamenti, intrecci e interruzioni che hanno talvolta completamente rivoluzionato il modo di sentire e di pensare».2 Il corpo femminile, dice Rossana, è multidisciplinare: per definirne confini, storie e definizioni, occorre considerare la religione, l’antropologia, la filosofia, la psicoanalisi e, ultima ma non meno importante, la letteratura. In questo senso, è impossibile non riconoscere l’estrema complessità e l’estrema ibridazione che è necessaria per riuscire in questo intento. Ecco perché, per usare le parole della nostra relatrice, «riuscire a tessere una genealogia del femminile significa riuscire a raccogliere ed accogliere queste dimensioni in un’idea di profonda contaminazione».3
Dunque, come ricostruire una genealogia del femminino se non partendo proprio dal rapporto (tanto vituperato e contaminato) con il corpo? Un argomento difficile, quello del corpo della donna, forse proprio per il suo essere costantemente nascosto, reificato, sessualizzato e connotato. Un vaso di Pandora (non a caso, anche lei donna) ben difficile da aprire. Per Rossana, dischiudere questa porta significa entrare in quella delicata, complessa e talvolta paradossale dimensione, che è quella dell’arte. Una dimensione che affonda le radici nel suo vissuto e nella sua vita, quindi sentita profondamente. Il corpo, difatti, in questa dimensione specialmente si riconosce come “corpo che parla”, come “corpo che desidera”: attraverso il gesto, il movimento, la voce il corpo si incarna, disincarna, reincarna, ampliando il proprio significato materico attraverso la metafora dell’arte.
Il corpo allora è statico, e tuttavia dinamico; il corpo è fluido che scorre, ma è altresì solida carne. Questo mi fa venire in mente alcune mie riflessioni sorte leggendo i contributi di Natalie Depraz nell’imponente volume curato da Barbara Cassin (2014). A tal proposito, è curioso rilevare come, in tedesco, possa essere d’interesse considerare la distinzione sussistente tra Leib, Körper e Fleisch, diversificazioni che si riflettono in certa misura anche sulle versioni francesi di chair, corps e viande. In qualche modo, è a mio modo di vedere innegabile che esistano delle dimensioni di vissuto nel corpo, che si dipartono inesorabilmente dal mero aspetto anatomico, assumendo un’intimità che solo il legame con il sangue e con la carne, con la più recondita visceralità possono restituire. Infatti, il corpo si configura nella sua duplice natura di corpo-come-oggetto e di corpo-come-soggetto, incarnandosi in ciò che ciascuno di noi possiede corps propre – che non è solamente il corps organique, il corpo-oggetto, ma la risultante dell’unione con la dimensione del corps animé e del corps vivant, pertanto in interazione con il mondo in maniera dinamica e soggettiva. Noi non possediamo solamente un corpo, ma siamo corpi, e la nostra storia è parallela a quella del nostro corpo. Chiaro dunque perché il corpo, come dice Rossana Sisana, può anche essere letto dalla prospettiva figurativa/espressiva, come una metafora dell’arte. Nella sua storia personale, Sisana ha spesso calcato le scene. Proprio lì, in quella penombra davanti a tutti gli spettatori, eppure così intima, accade che il Mondo Interno in qualche modo emerga, portando nel Mondo Esterno ciò che è sottostante: ed ecco, allora, affiorare un corpo che parla, desidera, esprime, un corpo che trascina quello che ha dentro, la sua storia, verso la superficie. «Come se il corpo fosse una sorta di pellicola osmotica tra il Mondo Interno ed il Mondo Esterno», permettendo scambi in base alle sue proprie disponibilità e volontà, eppure non avendone un controllo cosciente – così come non si può avere il controllo sull’Inconscio o sulla visceralità. Come asserisce Beatrice Zuffi nel corso della serata (riprendendo il suo seminario del mese scorso), «il corpo ha la prerogativa di sfuggire: si può tentare di educarlo, ma non lo si può controllare». Attraverso la metafora dell’arte, sostiene Sisana, il corpo diventa allora significante e mezzo di significazione, diventa un vettore portatore di senso e significato. Il suo valore diventa quindi simbolico, non solo fisico, e incarna tutto il portato rappresentativo e allegorico.
Il sesso del corpo in questa prospettiva, dunque, è certamente un tratto identitario, ma esso deve inevitabilmente fare i conti con una componente simbolica – co-costruita tramite una interrelazione con il mondo e con l’esperienza di vita in cui l’individuo è calato. Se è vero che il corpo e il sesso del corpo sono dati biologici, l’esperienza soggettiva del singolo nel corpo è una questione ben più complessa, e che ha a che fare con il vissuto personale di cosa sia il femminile e il maschile più che l’essere banalmente uomo o donna. Tutti noi siamo consapevoli della rivoluzione cartesiana e del portato delle sue istanze; la scissione operata tra mente e corpo, res cogitans e res extensa può essere vista anche nel sesso, tra sesso osservato (biologia) e sesso vissuto (genere), diversi e irriducibili. Ecco, quindi, come «questa sessualità, questa fisicità, questa contingenza che genera il sesso crea anche una serie di norme di leggibilità e di intelligibilità del sesso», in modo che la biologia e la anatomia siano un punto di partenza, un dato di conto, non un destino – né una condanna, o una prigione. Per tale ragione Sisana nel corso del seminario sostiene che questa leggibilità ed intelligibilità sono «due aspetti che in qualche modo si compongono e l’uno prevede l’esistenza dell’altro».
E come ignorare queste due dimensioni, se teniamo conto che la costruzione e strutturazione della femminilità e della donna non è solo un passaggio avulso dalla società e dalla realtà anche politica e giurisprudenziale: difatti, «gli studi storici hanno ampiamente mostrato il faticoso e conflittuale maturare […] delle condizioni che hanno consentito alle donne di “diventare cittadine”, frantumando un paradigma […] che separa le sfere privata e pubblica in base al genere e costruisce […] proprietà, quali l’autonomia e la disponibilità del proprio corpo, originariamente negate alle donne» (Pezzini, 2012, p. 20). Invero, «la costruzione dei generi maschile e femminile […] si compie anche nella forma di una costruzione giuridica» (Ibid., pp. 16-17). Questo pone non poche questioni relative alla genealogia del femminino, che rappresenta sia una linearità ontogenetica dell’individuo, sia un percorso filogenetico di ricostruzione dei percorsi di nascita, sviluppo, oppressione ed emancipazione del corpo femminile e della donna. Tale duplice sviluppo corre in parallelo a un altro “duplice processo”, quello «di interiorizzazione dell’esteriorità e di esteriorizzazione dell’interiorità, processo attraverso cui i soggetti incorporano il mondo e a loro volta agiscono in esso proprio attraverso le forme simboliche che hanno incorporato» (Matera, 2015, p. 123). Questa incorporazione social-culturale, nonché politica e storica, contribuisce (forse in maniera profonda, a tratti esclusiva) alla costruzione della donna e del genere nella contemporaneità.
A tal proposito, vale la pena citare – sebbene solo tangenzialmente – la questione del genere nel linguaggio. Come giustamente sottolinea Fabiana Fusco (2016, p. 118), «i significati che ruotano attorno al “femminile” si sostanziano in una serie di forme deputate nel tempo a mediare e diffondere, in modo non neutro, ritratti, valori, categorie, giudizi e pregiudizi ben consolidati». Molto scalpore hanno suscitato le recenti istanze, ampiamente condivise dalla prestigiosa Accademia della Crusca, sulla questione del genere nel nominare professioni e caratterizzazioni che purtuttavia hanno a che fare con entrambi i sessi. E se per alcuni l’uso e il costume della lingua come fatto immutabile deve avere la precedenza sugli interrogativi democratici del genere femminile sull’inclusività della lingua, ebbene nonostante sia una posizione rispettabile è importante quantomeno interrogarsi sulle radici che hanno portato la lingua a consolidarsi con il maschile collettivo generico e non il femminile. D’altronde, dietro ogni rivendicazione c’è un portato storico che non possiamo semplicemente fingere non sia mai esistito: facendo partire la storia delle donne in politica il 1 febbraio 1945 e considerandolo effettivo nel 1946 con il primo reale voto (nonché con il Decreto Luogotenenziale n. 74 del 1946, Norme per l’elezione dei deputati all’Assemblea Costituente, che al Capo II, Art. 7 che chiariva l’eleggibilità delle donne), resta il fatto che nella Costituente le donne rappresentavano una minoranza, «molto combattiva, piuttosto qualificata, abbastanza unita trasversalmente, ma pur sempre esigua minoranza» (Pezzini, 2012, p. 22). Sufficienti per manifestare l’esigenza rappresentativa e problematizzare la questione, ma comunque il 3,7% dell’Assemblea. L’Articolo 3 della Costituzione incarna difatti questo cambiamento di prospettiva, ma che viene poi a sbiadirsi nella sostanza concreta nel tessuto sociale: un esempio molto significativo ha a che fare con la permanenza della patria potestà fino al 1975, rimossa con la legge n. 151 in favore della potestà genitoriale. Quel pater grava molto, e non solamente per un trascinamento storico. Il linguaggio ha un suo peso, anche genealogico ed etimologico.
Nonostante possiamo avere la percezione che queste questioni restino relegate in un passato superato, i continui attacchi alla figura della donna scissa al suo ruolo generativo di madre racchiudono ancora certi pregiudizi, che vedono da un lato la donna come in possesso di “naturali” e tenere virtù incompatibili con la forte razionalità necessaria alla politica e alle cariche istituzionali (Pezzini, 2012, p. 38), così come anche delle branche scientifiche dure, particolarmente asettiche e squadrate. Voglio a tal proposito sottolineare due ulteriori tappe significative nella storia della solidificazione della figura femminile: dall’Art. 51 comma 1 della Costituzione,4 lo sdoganamento della presenza femminile nelle cariche pubbliche (Magistratura inclusa) avviene solamente nel 1963;5 infine, un altro evento che per me è significativo ricordare per quanto riguarda la lentezza di recepimento di questioni relative alla donna deriva dall’abrogazione degli articoli del Codice Penale relativi al matrimonio riparatore 6 e al delitto d’onore 7 ottenuti tramite la Legge 442 del 1981. Tale legge fu faticosamente ottenuta dopo lo storico rifiuto di Franca Viola, ragazza siciliana stuprata nel 1965 da un giovane malavitoso, ma la dilatazione temporale ha un suo peso specifico.
Non dobbiamo sottovalutare quanto «la lingua nomina ciò che siamo e rappresentiamo, giudica lo straniero, il diverso, l’“altro”, testimonia la distanza culturale e la diversità di opinione. Ogni scelta linguistica […] continua a trasmettere nel presente immagini e pareri condivisi e stratificati nei modelli sociali e culturali del passato» (Fusco, 2016, p. 118). Questo si riflette sia nel linguaggio comune – che potrebbe senza un eccessivo sforzo trasformarsi in un topos di parificazione – ma anche e soprattutto c’è un invito a renderlo una costante nel linguaggio amministrativo (definito dalla ex Presidentessa dell’Accademia della Crusca Nicoletta Maraschio come «un’operazione coraggiosa, tesa a dare visibilità alle donne nelle nuove professioni e nei nuovi ruoli pubblici che sempre più spesso sono chiamate a ricoprire»).8 Cecilia Robustelli, linguista dell’Accademia della Crusca, pone numerose questioni relative all’adattamento della donna al “modello maschile” e alla difficoltà della costruzione di una autonomia semantica nella strutturazione di un paradigma del femminile libero dall’assetto androcentrico dato e avvallato anche dalle istituzioni (Robustelli, 2012).
I «terremoti morfosintattici» (Robustelli, 2014, p. 34) sono importanti segnali figli dell’esigenza di una necessaria e ormai non rimandabile revisione sociale. Tutto questo, senza dimenticare l’assunto di base che «con i loro atti comunicativi, donne e uomini recitano il proprio ruolo sociale, delineando nel contempo la visione del mondo di cui sono protagonisti» (Fusco, 2016, p. 118).
Prendere consapevolezza del lungo e difficoltoso cammino storico e personale della donna, nel corso della propria esistenza sia individuale sia di emancipazione dalle aspettative di ruolo, è in questo senso l’unico viatico percorribile per arrivare a una comprensione profonda delle necessità di revisione e di analisi della figura della donna nel mondo contemporaneo – al di là di facili opposizioni a tratti nostalgico-romantiche pseudoconservatrici da ambo i sessi. «Quando si considera il difficile cammino delle donne verso la conquista dei diritti e della parità», scrive Lidia Pupilli nella sua introduzione al libro Uomini dalla parte delle donne fra Otto e Novecento, «il pensiero corre, spontaneamente, a relazioni di genere antagonistiche e contrastate, irte di difficoltà e incomprensioni, gravate da atavici squilibri».9
Ma la sessualità ha anche molto a che fare con la clinica, non solo con la figura della donna in sé: parlando di Anna O. e del suo caso, è proprio Silvia Vegetti Finzi (1986) che riconosce come «è solo in una esperienza di accettazione della propria sessualità che colui che intende curare può condurre l’altro a risalire ai propri traumi sessuali, a riconoscerli, ad accettarli inserendoli, a pari titolo di altri contenuti psichici, nella sfera cosciente» (p. 32). Il fatto che la sessualità sia una dimensione composita non inficia in alcun modo, semmai incentiva, il bisogno di approfondirla e capirla profondamente anche nelle sue radici storiche, politiche e sociali. Senza questo passaggio fondamentale, e ancora purtroppo latitante da molti punti di vista, sarà sempre difficile poter parlare di una clinica della sessualità che non sia in qualche modo subordinata a una specifica visione della sessualità stessa: depurarsi dalle soggettività non è metodologicamente possibile, ma tentare in qualche modo di comprenderle genealogicamente ed oggettivarle è indispensabile per capire – e capirsi – nel vero senso della parola. In questa direzione, e solo a titolo esemplificativo, condizioni come il non-binarismo o la relazione poliamorosa pongono al clinico una sfida che non è solo interna al setting, ma che riguarda anche la sfera privata, forse la più privata, che ciascuno di noi possiede. Oltre a ciò, il corpo come mezzo per esprimere un desiderio che non è solamente sessuale, ma, come sottolineavo prima, frutto di una vera e propria incorporazione delle molteplici dimensioni individuali, sociali, e culturali.
Ciononostante, il corpo non è solo la sede, ma, come sosteneva Sisana nel corso della serata, il mezzo di comunicazione e di espressione (vettore) dei significati. Il desiderio tradito che si esprime attraverso il corpo – tramite l’isteria o, come sottolinea Pietro Barbetta nel suo libro,10 la depressione – o con l’ascetismo, o addirittura, con la lussuria. L’isteria come protesta sociale femminile che affonda le radici nel clima social-politico che le relegava nell’impotenza e nella repressione (o, per usare un termine caro a una certa psichiatria, nella contenzione). Non a caso “isteria” deriva dal greco hysterikós, da hystéra (utero). L’errore fondamentale, non certamente avulso dall’androcentrismo storico occidentale, è stato attribuire la causa esclusiva di tali isterie a una insoddisfazione sessuale; il problema è che tale insoddisfazione non derivava dalle “prestazioni”, ma dal contesto di immobilismo e di inedia sociale della figura femminile. L’estasi ascetica, restando nel campo religioso ma in qualche modo distaccandosi e avvicinandosi alla “liberazione” delle forze ritenute e contenute, assume allora un tono diverso, di centralizzazione e di riassunzione di ruolo con una forza in grado di ribaltare le catene e gli schemi fissi e ineluttabili. E allora «la donna posseduta, dunque, non è una strega, prima di tutto perché non è un soggetto giuridico ma piuttosto un soggetto pastorale» (Policante, 2012, p. 254). Questa differenza pare intangibile, ma alla luce di tutte le riflessioni fatte finora è tutt’altro che risibile: difatti, «se la strega rappresenta la mostruosa inversione del “soggetto timoroso” che stabilisce un patto con Dio e con il potere politico del sovrano, la donna posseduta è essenzialmente […] un soggetto vulnerabile, una vittima esposta al pericolo che giace malevolmente nel suo stesso corpo. L’indemoniata non ha volontà giuridica, ma piuttosto un corpo che continuamente si frammenta, in un radicale movimento di forze che non sembrano trovare equilibrio» (Ibid., p. 255). In ogni caso, la donna in contrapposizione con il mondo sociale, l’isterica, la posseduta, come la strega ha un corpo in continua palpitazione; un corpo in cui ricostituisce in qualche modo la morfologia e la semantica del femminino, per giungere a produrre quello che Policante definisce «l’illusione di una stabile identità» (Ivi).
(In)stabile identità che, sospesa in realtà nella dimensione giuridica del soggetto femminile, diventa un “principio anti-subordinazione” in cui «porre l’accento sulla esigenza fondativa e fondante di riconoscere le condizioni di genere come un assetto di potere» (Pezzini, 2012, p. 16). E in quella dimensione giuridica (e storica) che abbiamo seppur tangenzialmente esplorato, si palesa come «sospeso tra questi due mondi, il corpo posseduto mostra tutti i sintomi di un’aperta battaglia: non ha forma “ma solo luoghi, punti di forza, regioni dell’esistente”. […] La convulsione è la forma plastica e visibile della lotta che ha luogo nel corpo del posseduto» (Policante, 2012, p. 255). Una lotta fra istanze, fra Interno ed Esterno, tra libertà e contenimento.
Avviandomi alla conclusione, vorrei solo consegnare un’ultima riflessione: durante la serata, Rossana Sisana si domandava se avesse senso fissare l’identità di genere tra due codici affettivi. L’interrogativo che mi sorge di conseguenza è: ha veramente senso fissare l’identità di genere tra due polarità mutualmente esclusive, quando già il corpo ha così tanto da dire e da dare in quanto entità biologica? È una domanda che non ha una risposta univoca e nemmeno semplice.
Infine, Sisana afferma che per definire il corpo femminile bisogna considerare molte discipline; tra di esse vi è certamente la letteratura. E come non potrebbe? La sua attenta analisi solo in superficie pare non soffermarsi su di essa, ma al contrario non prescinde da quelle fonti: pensiamo a figure eterne di femminilità espressa, tradita, forte, fragile, indistruttibile, stoica. Pensiamo a Medusa, ad Armida, a Penelope, a Elena (alla cui vituperata memoria, forse, un Encomio solo non basta 11); ma pensiamo anche a Gaspara Stampa, Ada Lovelace, Virginia Woolf, Elisabetta I, a Mary Wollstonecraft e alla sua celebre figlia, Mary Wollstonecraft Godwin – più nota col cognome maritale di Mary Shelley. Sono solo pochi nomi, una goccia nell’oceano della storia delle donne.
Per concludere, la sessualità, come una nouvelle Sophie Volland per Diderot, è «la complice, con cui è possibile mettere spregiudicatamente sul tappeto spinose questioni di carattere etico, vissuti giocosi, di carattere erotico e trasgressivo, dimensioni interiori, con forti valenze culturali e filosofiche» (Galzigna, 2013, p. 113-114); in quanto tale, non può essere oggettiva né reificata, può solo essere accettata e compresa.
Bibliografia
P. Barbetta, La follia rivisitata. Umori, demenze, isterie (Mimesis, 2014)
B. Cassin, Dictionary of the Untranslatables. A philosophical lexicon (Princeton UP, 2014)
Decreto Luogotenenziale n. 23 del 1945, Estensione alle donne del diritto di voto
Decreto Luogotenenziale n. 74 del 1946, Norme per l’elezione dei deputati all’Assemblea Costituente
F. Fusco, “Le parole sono femmine, i fatti sono maschi”: stereotipi e discriminazione nella lessicografia italiana, in Le parole della parità, a cura di F. Corbisiero e P. Maturo (Edizioni Scientifiche e Artistiche, 2016)
Legge n. 66/1963, Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni
Legge n. 151/1975, Riforma del diritto di famiglia
V. Matera, La scrittura etnografica. Esperienza e rappresentazione nella produzione di conoscenze antropologiche (Elèuthera, 2015)
B. Pezzini (a cura di), La costruzione del genere. Norme e regole, vol. I, (Bergamo UP, 2012)
A. Policante, Foucault e le Streghe. Soggettività confessionali e resistenza della carne, in AAVV. Materiali foucaultiani, 1(1) gennaio-giugno (2012)
L. Pupilli, (a cura di), Uomini dalla parte delle donne fra Otto e Novecento (Marsilio, 2020)
C. Robustelli, Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo (Crusca, 2012)
C. Robustelli, Donne, grammatica e media. Suggerimenti per l’uso dell’italiano (Crusca, 2014)
S. Vegetti Finzi, Storia della psicoanalisi. Autori opere teorie 1895-1985 (Mondadori, 1986)
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Note:
2) Questa citazione è estratta dall’intervento di Rossana Sisana nell’apertura della serata.
3) Ibid.
4) «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge».
5) Legge 66 del 1963, Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni.
6) Art. 544, Causa speciale di estinzione del reato: «Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali».
7) Art. 587, Omicidio e lesione personale a causa di onore: «Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella. Se il colpevole cagiona, nelle stesse circostanze, alle dette persone, una lesione personale, le pene stabilite negli articoli 582 e 583 sono ridotte a un terzo; se dalla lesione personale deriva la morte, la pena è della reclusione da due a cinque anni. Non è punibile chi, nelle stesse circostanze, commette contro le dette persone il fatto preveduto dall’articolo 581».
8) Prefazione a C. Robustelli, Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo (2012).
9) Uomini dalla parte delle donne fra Otto e Novecento, a cura L. Pupilli (Marsilio, 2020).
10) P. Barbetta, La follia rivisitata. Umori, demenze, isterie (Mimesis, 2014).
11) Gorgia, Encomio di Elena, a cura di G. Paduano (Liguori, 2007).
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Immagine di copertina:
Giacomo Balla, Il dubbio, 1907-1908, olio su carta (particolare), Galleria d’Arte Moderna, Roma