[Questa recensione è uscita su il lavoro culturale in occasione della pubblicazione di TINA. Storie della grande estinzione, a cura di Matteo Meschiari e Antonio Vena, coordinamento degli illustratori di Rocco Lombardi. (Aguaplano, 2020). La riproponiamo oggi in una versione lievemente modificata, in occasione della scadenza della chiamata per TINA Due, il secondo volume del progetto].
Di scrittura collettiva in Italia si parla dal 1999, quando sulla scena letteraria italiana e internazionale comparve Q del collettivo Luther Blissett. Da allora la riflessione sulla funzione-autore e sui soggetti collettivi dell’enunciazione ha trovato un terreno fertile specialmente fra gli studiosi di impostazione foucaultiana (si veda ad esempio il seminario La sottrazione dell’autore: nuove narrazioni in rete, organizzato a Venezia nel 2009. Delle molte esperienze di scrittura collettiva che hanno suscitato interesse accademico, importante è stata quella di Scrittura Industriale Collettiva, dalla cui fucina è uscito il fortunato romanzo In territorio nemico (minimum fax, 2013). Sulla scrittura collettiva come risposta ai dispositivi di potere e come pratica liberatoria dai vincoli imposti dal mercato è stato detto molto: a partire da Don Milani, che collaudò la scrittura collettiva a Barbiana (si vedano gli scritti in cui lui stesso parla del suo metodo), fino a Henry Jenkins, che all’inizio degli anni 2000 ha teorizzato la cultura partecipativa attraverso i media in diversi saggi, di cui possiamo ricordare Fans, Bloggers, and Gamers. Exploring Participatory Culture (NYUP, 2006), apparso in italiano solo di recente. La scrittura collettiva prevede che i materiali prodotti da tutti i partecipanti vengano fusi tramite un metodo di lavoro a staffetta, cioè la circolazione di schede di partenza su cui ognuno apporta modifiche proprie. È quindi un lavoro di revisione collettivo, cosicché il risultato finale è un testo di cui non si riconosce la voce autoriale. Con l’emergere dei social media e la nascita della cultura partecipativa, come discusso da Jenkins, il testo in rete si espande in una serie di pratiche collaborative che portano alla costruzione di senso dal basso, in direzione quindi opposta al consumo di cultura prodotta dall’alto per il mercato.
Di certo si tratta di una modalità di resistenza narrativa ancora molto vitale. Lo dimostra la recente uscita di TINA. Storie della Grande Estinzione, a cura di Matteo Meschiari e Antonio Vena (Aguaplano), volume corredato di un corpus di illustrazioni con il coordinamento di Rocco Lombardi. Il libro è l’esito di una call pubblicata sul blog La grande estinzione nel settembre del 2019, a cui hanno risposto oltre cento partecipanti. Si tratta quindi di un caso di cultura partecipativa e di comunità in rete nata attorno a un progetto diffuso sui social media. Tuttavia, per TINA sarebbe più opportuno parlare di opera corale, poiché la struttura interna del testo è costituita da molte storie giustapposte e collegate fra loro da cerniere narrative, e non di schede fuse con un lavoro di riscrittura e revisione collettiva. La funzione delle cerniere testuali, segnalate in corsivo, è di riportare il narrato a un filo conduttore, ovvero la presa di coscienza che può derivare dal collasso di un sistema produttivo e il conseguente adattamento della specie umana davanti a situazioni inedite. In TINA è, così, possibile distinguere le voci che compongono l’opera, a differenza di ciò che accade nella scrittura collettiva. Si avverte la presenza dei curatori-narratori, divenuta peraltro riconoscibile in rete grazie al blog La grande estinzione, e si percepiscono chiaramente diversi stili, interessi, registri, che spaziano dalla saggistica alla narrativa di fantascienza nel senso più classico.
Attraverso la narrazione dei momenti più rilevanti in cui le civiltà hanno rischiato l’estinzione e di scenari futuri dove comunità umane si riorganizzano adattandosi a nuovi fattori ambientali e geopolitici, quest’opera assembla un atlante dell’Antropocene – definizione molto discussa della quale non è qui il caso di fornire una cronistoria, ma che viene usata oggi dagli scrittori più stimati nel panorama internazionale, iniziando dal riferimento principale di questo filone, cioè La grande cecità di Amitav Ghosh (Neri Pozza, 2017) e ripresa, ad esempio, da Magnason ne Il tempo e l’acqua (Iperborea, 2020).
L’opera si suddivide in sette giornate – Collasso, Schock cognitivo, Spettri (del futuro, del ripetibile), Il problema di Grendel, Archeologie dell’orrore, Estinzione, Il fato delle forme –, dotate di una cornice, con riferimento al modello del Decameron, citato in esergo. Tuttavia, non ha una ambientazione così precisa nello spazio e nel tempo, ma si tratta piuttosto di un totale di 153 scenari, ognuno dei quali è collocato nel passato, nel presente o nel futuro, e che descrive situazioni storiche reali delle civiltà umane, circostanze attuali con i loro possibili sviluppi, o che richiamano in modo perturbante sia il presente sia il passato anche remoto.
È un tentativo di contestualizzare il collasso del sistema economico e sociale di cui abbiamo avuto un esempio durante la crisi pandemica dell’ultimo anno e mezzo in una prospettiva storica e antropologica, tenendo conto di fenomeni simili già accaduti, oppure di possibili adattamenti della specie davanti a un ipotizzabile crollo cognitivo e all’inservibilità dei saperi che hanno garantito la tenuta del tardo-capitalismo.
Si tratta di un’opera composita, dotata di picchi narrativi di intensità notevole, ad esempio La fine delle api – 2073 d.C., oppure InnerWelt – 2024 d.C., riflessione sulla fantascienza e sul concetto di spazio interiore di Ballard, ma con riferimento anche a Primavera silenziosa di Rachel Carson (Feltrinelli, 2016 – 1° ed. italiana 1966), capostipite della letteratura ambientalista, e a Il problema dei tre corpi di Cixin Liu (Mondadori, 2017).
Non è casuale il discorso sull’eteronimo che vi si incontra, tanto che questo scenario si può leggere anche come mise en abîme dell’opera. La citazione di un finto tweet di Jeff VanderMeer dichiara inoltre il debito con il massimo autore di fantascienza vivente. Di particolare interesse è lo scenario dedicato al 1816, l’anno senza estate – già citato da Ghosh – in cui nasce una letteratura del clima a opera del gruppo di scrittori e poeti inglesi che ripararono in Svizzera, fra cui i non ancora coniugi Shelley e il loro amico Byron.
Trattandosi di un’opera al crocevia fra enciclopedismo e finzione, TINA si configura come un manuale di sopravvivenza, fra rievocazione di un passato globale e ipotesi future. Quest’opera ha dunque una natura ibrida: alcuni scenari sono trattati in forma di racconto breve (soprattutto di argomento storico o fantascientifico), altri sono saggi o articoli; la giustapposizione fra testi di natura diversa lascia l’impressione che fra i vari modelli possa comparire anche lo zibaldone leopardiano, e allo stesso tempo costituisce un interessante crossover fra generi e registri (catalogabile, volendo, anche come oggetto narrativo, secondo la definizione usata da Wu Ming per Asce di guerra, Einaudi, 2005).
La definizione di ibrido – preferita di solito dalla critica ufficiale – è limitativa rispetto alla portata del narrato e agli obiettivi che si manifestano via via nelle sezioni di raccordo degli scenari. Ogni scenario è, infatti, seguito da un commento segnalato dal carattere corsivo. Spesso questo commento contiene un esercizio da praticare, anche di tipo spirituale, tanto che l’opera può assumere l’aspetto di una meditazione sul collasso, allo scopo di lasciarne penetrare l’idea stessa nella coscienza, come accade quando si acquista consapevolezza nella pratica dello Yoga o delle arti marziali.
L’ambizione è quella di spostare l’iperoggetto – secondo la definizione di Timothy Morton – dallo scenario dove è tradizionalmente confinato dalla letteratura e trasformarlo in protagonista della narrazione. In TINA mancano un protagonista e una trama, manca dunque una struttura unitaria che tenga assieme il filo del racconto. Manca perché il racconto ruota attorno all’iperoggetto-collasso che, tolto dallo sfondo, diviene il protagonista e viene colto nei momenti più rilevanti della storia della civiltà umana in cui si è manifestato (parte documentaria) e immaginato in scenari futuribili in cui potrebbe manifestarsi (parte finzionale).
Il tema della sopravvivenza, dell’adattamento ambientale, della resistenza ecologica è inteso qui non come militanza ecologista, ma come un divenire antifragile (concetto introdotto da Nassim Nicholas Taleb) davanti al punto di arrivo dell’attuale sistema economico e alle ripercussioni ambientali che questo disastro sta causando. Tramite questo collegamento fra brevi testi si costruisce un’epica del tardo capitalismo in cui compaiono tutti gli scenari del crollo di più sistemi, attraverso guerre mondiali, genocidi, atti di terrorismo e molteplici fenomeni atmosferici e ambientali che caratterizzano il macrofenomeno (o iperoggetto) del cambiamento climatico. Il ritmo narrativo risulta serrato, poiché ogni scenario apre una questione nuova procedendo per grandi temi.
Il finale riprende l’epilogo di La strada di Cormac McCarthy (Einaudi, 2007); in TINA però non vi è un bambino che raggiunge il mare, ma una bambina che esce dalle macerie. Soluzione che fa leva su più livelli di significato: da un lato, il nome del collettivo ribalta l’acronimo thatcheriano richiamando la figura di Tina Fontaine, la bambina aborigena canadese il cui omicidio ha innescato le proteste contro il razzismo sistemico nei servizi sociali canadesi, portando a un riconoscimento delle diseguaglianze socio-economiche alla radice della violenza. Dall’altro lato, l’immagine delle macerie costituisce una metafora del collasso e quella della bambina che riemerge rappresenta la capacità umana di ripartire a seguito di ogni cambio di paradigma. Si immagina una comunità in grado di accogliere i superstiti con un gesto semplice – offrire acqua –, e di traghettarli dalle macerie verso un futuro carico di possibilità.
Si tratta di un’opera elegante, calibrata, che permette al lettore di situare le condizioni sociali ed economiche attuali in una cronistoria, completando il quadro con l’immaginazione del futuro. Fornisce senza dubbio al lettore gli strumenti per ripensare il presente in senso diacronico, attraversando i generi, facendo leva su molteplici stili e registri, per ipotizzare forme di resistenza e adattamento plastico alle nuove questioni imposte dall’esaurimento di un sistema biopolitico. Il corredo di illustrazioni – coordinato da Rocco Lombardi – intensifica l’esperienza di lettura e dimostra la vitalità dell’editoria di ricerca italiana, verso cui forse si può guardare con ottimismo, nonostante i tempi siano critici.
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Immagine di copertina:
Guerre preistoriche, illustrazione di Federico Manzone (particolare)