[Riprendiamo le pubblicazioni dopo la pausa estiva con una recensione a Sergio Benvenuto, Lo psichiatra e il sesso. Un critica radicale della psichiatria del DSM-5. Con introduzione di Pietro Barbetta (Mimesis, 2021)].
Gli attacchi al DSM da parte del mondo psichiatrico e psicoterapeutico in generale non sono certo nuovi, come nota l’autore di questo agile ma al tempo stesso rigoroso esercizio di smascheramento delle filosofie implicite che innervano quella che, nonostante tutto, resta la Bibbia di buona parte della psichiatria occidentale – specie delle nuove generazioni di terapeuti sempre più di indirizzo comportamentista e cognitivista. Tuttavia, osserva Benvenuto, le ragioni per le quali il DSM viene solitamente criticato, persino da chi è stato tra i suoi estensori, sono spesso sterili o, quanto meno, non sostanziali. Un paio di esempi per intenderci: l’accusa più diffusa è che il DSM sia al servizio di Big Pharma che ha aumentato le vendite; ma, fa notare l’autore, il DSM non indica quali farmaci utilizzare di fronte a determinate patologie e «di fatto lo si può adottare pur facendo a meno dei farmaci» (p. 51); l’altra osservazione, secondo Benvenuto ideologica e non sufficientemente suffragata, è che contribuisca a progressiva medicalizzazione della vita che deriverebbe da un abuso del paradigma clinico e terapeutico per la comprensione dei comportamenti e degli stili di vita umani, ma se questa tendenza è incontestabile, appare realmente difficile stabilire se sia nato prima l’uovo o la gallina, ossia se il DSM sia il portato del clima del proprio tempo o se abbia contribuito a determinarlo. La critica sostanziale che Benvenuto muove a questo strumento diagnostico, che si compiace di autodefinirsi “ateorico”, riguarda invece la sua pretesa scientificità che non può mai darsi indipendentemente da un orizzonte teorico chiaro e dichiarato e che risulta pertanto infondata e inconsapevolmente imbevuta di due filosofie implicite e incompatibili tra loro: l’utilitarismo, secondo i principio del massimo piacere possibile, e il funzionalismo, che si vorrebbe basato su solidi presupposti di empirismo naturalistico, ma che in realtà è adottato semplicemente perché risulta l’unico funzionale alla dicotomia ordine-disordine.
Il libro dimostra ripetutamente non solo come il DSM oscilli costantemente tra questi due paradigmi di riferimento – «come uno che giocasse con lo stesso mazzo di carte a un tempo a poker e a bridge», p. 50 –, ma anche quanto le sue prese di posizione non siano affatto scientifiche ma derivino da considerazioni etico-politiche (alcune decisioni vengono messe a voti, altre, quelle relative ai cosiddetti “disordini” dello spettro sessuale, tengono conto delle pressioni dei movimenti civili per i diritti, ad esempio LGBT, ecc.) e tendano a seguire, come detto, una filosofia edonistica, basata cioè sul binomio piacere-dispiacere, all’interno di un più generale ideale di cibernetizzazione della vita (dal greco kybernetiké, ossia governo, controllo, p. 154). In questa cornice di senso tutti i comportamenti che falliscono tale scopo, o vengono vissuti come non adeguatamente gratificanti, vengono classificati come disordini. E qui Benvenuto ci fa notare uno dei cambi di paradigma semantico più interessanti del DSM rispetto ai precedenti manuali: sin dalla sua prima versione (1952), questo manuale sceglie infatti di sostituire il termine disagio (disease) psichiatrico con disorder, che l’autore giustamente preferisce tradurre con disordine piuttosto che con disturbo, come invece fa la traduzione italiana. Ordine e disordine, fa notare Benvenuto, rimandano all’orizzonte di senso etico-politico più che medico-scientifico, a dimostrazione che molti comportamenti ritenuti insani – un tempo si sarebbe detto devianti o persino innaturali – sono innanzitutto vissuti come dissonanti rispetto a una presunta normalità ordinata e ordinaria. In questo modo il DSM confonde ripetutamente fatti e valori, essere e dover essere (che riecheggiano i Sein e Sollen di kantiana memoria, p. 62).
Uno scollamento epistemologico che appare particolarmente evidente per quanto riguarda le parafilie sessuali e la disforia di genere, ai quali Benvenuto dedica alcune delle sue argomentazioni critiche più stringenti nei capitoli terzo e quarto, ma che investe anche lutti che diventerebbero patologici se superano una determinata durata di elaborazione, indipendentemente dalle cause della morte e dalla cultura di appartenenza. Più in generale, dunque, è il concetto di essere umano ridotto a un «cervello rotto» da riparare (pp. 112-116) a essere smontato: come se potessimo ridurre l’irriducibile eccedenza di complessità della psyche a questo organo, e pensarla slegata dal contesto che la innerva (sogno illusorio di alcune derive neuropsichiatriche) e riparare un organo anziché relazionarci a questioni di senso fondamentali per il soggetto che abbiamo davanti, imprescindibili dalla nostra cultura di appartenenza. Un tema che emerge con estrema chiarezza nel capitolo dedicato alla disforia di genere, ossia al disagio che può derivare dall’assegnazione di una condizione sessuale biologica vissuta con disagio, secondo la teoria del gender. L’idea di soggettività di questa psichiatria riduzionista cozza, in particolare, con quella psicoanalitica nella quale, ad esempio, «per determinare una posizione sessuale occorre chiarire in che posto sono almeno cinque elementi: l’oggetto di attrazione erotica, il suo rapporto all’ideale, ciò o chi a cui il soggetto s’identifica, il tipo di libido in gioco, e la sua posizione rispetto al fallo» (p. 107), tutti fattori cioè relazionali, sistemici, irriducibili all’idea di un’identità monadica e autoreferenzialmente chiusa in sé.
Ne nasce un gran pasticcio di cui Benvenuto ha il merito di evidenziare le principali contraddizioni: «non è che gli autori del DSM scrivano cose non chiare perché mancherebbero di lucidità e rigore. Diciamo che essi cercando di risolvere rigorosamente – arrampicandosi sui vetri – una contraddizione tra le due filosofie che dilaniano la task force del DSM, e gran parte della psichiatria di oggi. Da una parte il principio utilitarista per cui il patologico deve coincidere con i sentimenti di afflizione e menomazione del soggetto o degli altri; dall’altra il principio cognitivista per cui certe incongruenze sarebbero di per sé patologiche» (p. 100), non meno dello slittamento tra il paradigma categoriale, che si gioca sui binari sano-malato, e quello dimensionale che articola invece le variazioni di quantità all’interno di un’unica condizione che elimina le polarità assolute (p. 161).
Sullo sfondo un dubbio etico, e oggi sempre più politico, davvero preoccupante che l’autore sintetizza nella frase che conclude il libro: «etichettiamo come patologico un comportamento quando non ci piace».
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Immagine di copertina:
Diego Velázquez, Venere e Cupido (Venere Rokeby), 1648 ca., olio su tela, National Gallery, Londra.