Mai come oggi è fondamentale saper leggere la Terra, visto che «ci ritroviamo come degli analfabeti davanti a un testo scritto. Non è colpa nostra, non ce lo insegna più nessuno» (p. 9). Così scrive Davide Mazzocco nel suo recente saggio, Geomanzia. Sappiamo ancora leggere i segni della terra? (Palermo University Press, 2021), dove offre una panoramica esaustiva dell’insieme delle questioni ambientali più urgenti, indicandone la causa e gli effetti più gravi sia sull’ecosistema sia sulla vita umana.
Il saggio ha una impostazione derivata dal giornalismo di inchiesta ed è strutturato in quattro capitoli, con una prefazione in cui si introducono le grandi questioni del momento, e una conclusione di registro riflessivo in cui l’autore evidenzia le criticità relative alle soluzioni di queste problematiche. L’epilogo è aggiornato con considerazioni relative alla pandemia globale, alla sua relazione con i disastri ambientali, anche quelli di vecchia data, e un invito a ripensare il nostro rapporto con il tempo. Mazzocco è infatti anche autore del saggio Cronofagia. Come il capitalismo depreda il nostro tempo (D Editore, 2019), in cui aveva già analizzato le modalità attraverso cui avviene la predazione del nostro tempo spacciata per intrattenimento, su cui pochi colossi economici capitalizzano inducendo una dipendenza dalla tecnologia.
I quattro capitoli centrali di Geomanzia affrontano la questione ambientale a partire dagli elementi fondamentali per la vita umana sul pianeta: acqua, aria, terra e fuoco. Paradossalmente gli elementi vitali si trasformano anche nei fattori di maggior pericolo; ad esempio, nella sezione sul fuoco Mazzocco tratta gli incendi, avendo diretto in precedenza lui stesso il documentario Deserto Verde incentrato sull’incendio di Pedrógão Grande in Portogallo, che nel giugno del 2017 causò 65 vittime e la distruzione di 53.000 ettari di area boschiva. Il capitolo sull’acqua affronta invece in dettaglio la mercificazione delle risorse idriche, uno degli aspetti più inquietanti dello sfruttamento del pianeta, poiché il suo impatto sulla collettività è determinante. Le crisi idriche sulle aree rurali e cittadine causano diseguaglianze intollerabili, ma questo non è l’unico aspetto, in quanto ad essa sono legati problemi igienico-sanitari nei paesi in via di sviluppo. Di pari gravità è anche l’inquinamento delle falde freatiche causato dall’attività estrattiva e agricola, e le conseguenze mediche che ha sulla popolazione e in generale sull’ecosistema.
Qui presentiamo un estratto dalla sezione dedicata al quarto elemento, la terra, e riguarda la violenza predatoria esercitata contro il pianeta. Violenza che si riverbera in tutto l’habitat, rendendolo sempre più inospitale. Se da un lato per gli ambientalisti di vecchio corso tutte le criticità e le potenziali conseguenze dello sfruttamento delle risorse ambientali sono cosa nota da tempo, è anche vero che si è raggiunto ora un momento apicale nella lotta ecologista. Questa fase particolare riguarda tutti, perché se anche il sistema economico corrente appare proficuo per tutti, in realtà la distruzione del nostro ecosistema è pagata da tutti in termini di salute e di conflitti globali, diseguaglianze e annullamento della biodiversità. Le questioni sono tante e tutte di estrema gravità, per questo motivo la lettura di Geomanzia è importante per mettere ordine, classificare, costruire una gerarchia interiore dei problemi e formarsi una visione di insieme, non tanto dei comportamenti individuali – e questo è di fondamentale importanza – quanto delle responsabilità politiche nel concedere a pochi individui il diritto di ledere i fondamenti di tutte le forme di vita sul pianeta danneggiando alla radice quella umana. Si tratta quindi di questioni che spesso combaciano con i diritti umani e con quelli dell’ambiente, come si vede dal sempre più frequente utilizzo del termine ecocidio e dalla discussione sulla personalità giuridica del pianeta, ormai ineludibile. Per citare Ursula Le Guin, «viviamo nel capitalismo. Il suo potere sembra inevitabile. Così sembrava il diritto divino dei re. Ogni potere umano può essere contrastato e cambiato dagli esseri umani».
[Estratto da Davide Mazzocco, “Geomanzia. Sappiamo ancora leggere i segni della terra?”, Elemento IV: 3. Violenza, Palermo University Press, 2021, pp. 163-169].
Terra da antropizzare e terra da coltivare. Finora il racconto è rimasto in superficie, ha descritto violenze che avvengono alla luce del giorno, ma cosa succede sottoterra? Che ripercussioni ha l’attività estrattiva sulla salute delle persone, degli animali e delle persone? Quanta violenza scaturisce dalle attività dell’industria estrattiva?
Secondo recenti studi l’avvelenamento da mercurio nell’estrazione dell’oro a livello “artigianale” costa 1,8 milioni di anni all’anno di cattiva salute, disabilità e morte precoce. In Bolivia un minatore impegnato nelle miniere di stagno del Potosì vive in media trentacinque-quarant’anni, una vita di venticinque anni inferiore alla media nazionale. A La Oroya, in Perù, quasi tutti i bambini hanno livelli pericolosamente alti di piombo, arsenico e tossine nel sangue. La causa è l’inquinamento diffuso nella città a causa dell’estrazione di piombo, zinco e rame. Ma l’estrazione mineraria provoca anche l’innalzamento dell’inquinamento atmosferico, in particolar modo l’estrazione del carbone che ha come conseguenza emissioni di particolato e di gas tra cui metano e anidride solforosa. Le vittime di incidenti durante l’attività estrattiva sono circa 15mila all’anno, mentre non ci sono stime sul numero di persone che rimangono ferite. Nonostante l’evoluzione tecnologica permetta di estrarre quantitativi sempre maggiori di materie prime, nelle miniere si continua a morire: le sessantacinque vittime di Pasta de Conchos (Messico, 2006), le ventinove della Upper Big Branch Mine (Stati Uniti, 2010), le ventinove di Pike River (Nuova Zelanda, 2010), le 301 di Soma (Turchia, 2014), le trenta di Kohistan (Afghanistan, 2019) sono solamente i casi più noti delle migliaia di morti sommerse di chi rifornisce di materie prime l’economia circolare.
Gli hard disk dei nostri computer, gli schermi dei nostri smartphone e tablet, gli strumenti di bordo dei satelliti, le macchine fotografiche digitali, le lampade fluorescenti e le fibre ottiche, insomma un’infinità di tecnologie che utilizziamo quotidianamente funzionano grazie alle terre rare, 1 diciassette elementi così chiamati a causa della loro scarsità e della difficoltà di estrazione e raffinazione. Il 90% della lavorazione delle terre rare avviene in Cina, Paese entro i cui confini si estrae il 40% delle terre rare di tutto il mondo. Contestualmente, la superpotenza asiatica controlla numerosi giacimenti in altri continenti, in particolar modo in Africa.
Fra i paesi maggiormente depredati delle proprie risorse vi è la Repubblica Democratica del Congo, che possiede l’80% delle riserve mondiali di coltan, la sabbia di colore scuro formata da columbite e tantalite utilizzata nella fabbricazione di smartphone, televisori al plasma, notebook, giocattoli elettronici e armi. L’estrazione del coltan consente a un minatore di guadagnare fra i 10 e i 50 dollari la settimana, quando il guadagno medio di un lavoratore congolese è di 10 dollari al mese. L’arrivo dell’industria estrattiva del coltan ha avuto un impatto socio-ambientale devastante: allevatori e agricoltori hanno abbandonato i campi, le malattie infettive si sono diffuse a causa della carenza d’acqua, le miniere sono sotto sorveglianza di gruppi armati spesso in guerra fra di loro. La seconda guerra del Congo, svoltasi tra il 1998 e il 2004, la più grande guerra della storia recente dell’Africa, 2 è stata causata anche dalla contesa per i giacimenti di coltan. A vent’anni dalle prime denunce dell’ONU, l’attività estrattiva nella Repubblica Democratica del Congo non si arresta. L’industria dell’hi tech, come Ponzio Pilato, se ne lava le mani. Estrarre, trasportare, produrre, consumare e buttare, qualsiasi alternativa all’economia lineare deve essere marginalizzata attraverso la mitologia del nuovo, il culto del brand, il marketing identitario e, ultima ma non meno importante, l’obsolescenza programmata.
Mentre l’industria mineraria saccheggia senza alcun tipo di scrupolo la terra e, da qualche tempo, anche i fondali marini, i big del settore petrolifero all’inizio del nuovo secolo hanno reso sempre più aggressive le tecniche estrattive. Barack Obama, il presidente “buono” che nel 2007 si era candidato alla Casa Bianca cavalcando la promessa di una rivoluzione verde, una volta sedutosi nello Studio Ovale, ha portato gli Stati Uniti d’America a produrre più petrolio di quello importato. Come? Semplice. Grazie al fracking, la tecnica di fratturazione idraulica che prevede lo sfruttamento della pressione di un fluido per creare e poi propagare una frattura nel sottosuolo, la permeabilità del suolo viene incrementata, migliorando la produzione di petrolio o gas. Sebbene il primo utilizzo di acqua in pressione per fratturare le rocce risalga al 1903, è soltanto dall’inizio degli anni Dieci del nuovo secolo che la tecnica viene utilizzata in maniera sistematica per garantire una maggiore autonomia energetica ai Paesi che la praticano. Indipendentemente dal fatto che il fracking sia una tecnica di avanguardia in grado di perpetuare l’“accanimento terapeutico” nei confronti delle scorte petrolifere in esaurimento, sono gli effetti collaterali a preoccupare gli ambientalisti e coloro che risiedono nei siti di estrazione di petrolio e gas. Per rendere più efficace la fratturazione idraulica, infatti, il liquido immesso nel sottosuolo viene arricchito con circa settecento additivi chimici. Secondo gli studi compiuti dall’Agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti (EPA), i prodotti chimici rappresentano il 2% della quantità di liquido sparata a forte pressione nel sottosuolo. Una delle conseguenze di questa pratica è l’inquinamento delle falde freatiche. Secondo uno studio condotto dalla Duke University e pubblicato su Environmental Science & Technology, 3 la diffusione del fracking in Pennsylvania e West Virginia ha provocato una diffusa contaminazione da ammonio e ioduro nei due stati. Nel corso della loro indagine i ricercatori hanno rilevato livelli di ammonio cinquanta volte superiori alla soglia di qualità dell’acqua fissata dall’EPA. Una volta disciolto in acqua, l’ammonio può diventare ammoniaca, una sostanza che gli impianti di trattamento non sono in grado di potabilizzare. Lo ioduro, invece, diventa tossico se entra in contatto con il cloro utilizzato per la potabilizzazione. Ogni pozzo del fracking produce tra 4 e 8 milioni di litri di acque reflue che vengono immesse nel sottosuolo e possono raggiungere le falde idropotabili portando con sé i succitati additivi chimici. Un altro studio pubblicato dalla rivista Endocrinology, sulla base di rilevamenti compiuti nelle acque di Garfield County, in Colorado, ha rilevato la presenza di sostanze in grado di alterare il funzionamento degli ormoni provocando infertilità, cancro e danni alla nascita. Il prezzo da pagare per una maggiore redditività dei pozzi, dunque, è la salute delle persone che abitano nelle aree interessate all’estrazione.
Salute e ambiente da una parte, profitto e occupazione dall’altra; questo dilemma è il filo rosso che lega tutti i capitoli del libro. Secondo alcuni studi fra gli effetti collaterali del fracking vi sarebbero anche scosse sismiche di magnitudo compresa fra 1 e 3 gradi della Scala Richter. 4
L’avvelenamento della terra è un processo irreversibile o qualcosa può essere fatto per rimediare ai danni fatti al suolo che ci dà nutrimento? Nella primavera del 2018, sono stato alla Micoteca dell’Università di Torino dove ho incontrato la professoressa Giovanna Cristina Varese, coordinatrice del pool di ricercatori dell’Ateneo piemontese che partecipa al progetto italo-franco-spagnolo Life Biorest. Sono venuto così a conoscenza di uno straordinario progetto europeo per il biorisanamento ambientale dei terreni inquinati da metalli pesanti, oli e idrocarburi attraverso i funghi. Scopo del progetto è dimostrare come, attraverso la selezione di microorganismi con spiccate capacità degradative e alla tecnica delle biopile, sia possibile essere più efficaci nella riduzione dei contaminanti rispetto ai trattamenti convenzionali e permettere, alla fine del processo di bonifica, la riconversione del suolo non solo per un utilizzo industriale, ma anche per un uso residenziale. Grazie a un utilizzo mirato delle muffe, insomma, è possibile recuperare un’area per utilizzarla per case, scuole, parchi e orti. Dopo una selezione durata circa un anno, i ricercatori impegnati nel progetto Life Biorest hanno ottenuto una collezione di batteri e di funghi con un’elevata capacità di degradazione degli inquinanti. Questi microrganismi sono stati scelti per la loro capacità di utilizzare gli inquinanti come unica fonte di carbonio, si è infatti scoperto che essi preferiscono nutrirsi degli inquinanti piuttosto che delle fonti di carbonio più semplici. Nel processo di disinquinamento, gli inquinanti vengono dati in pasto ai funghi per alcuni mesi, con la realizzazione di biopile, ovverosia blocchi di suolo lunghi qualche centinaio di metri e larghi 3-4 metri in cui il terreno viene mischiato con gli organismi deputati alla degradazione. Una volta concluso il processo di “pulitura”, il suolo viene rimesso al suo posto e si completa il biorisanamento piantando alberi che liberano nel suolo nutrienti che favoriscono l’ulteriore degradazione degli inquinanti. In Italia, per esempio, il comune di Fidenza ha acquisito alcuni terreni contaminati e, attraverso i finanziamenti europei e italiani, ha deciso di bonificare un’area di 150mila metri quadrati che si trova a lato della stazione ferroviaria. Qui il progetto Life Biorest sta cercando di eliminare sostanze inquinanti che sono state rilevate fino a una profondità di 28 metri. La vera sfida di questo ambizioso progetto europeo è quella di adattare questa metodologia agli inquinanti di più recente utilizzo. Esistono centinaia di migliaia di sostanze inquinanti per le quali, in futuro, si potrà trovare un antidoto naturale. Anche il suolo, insomma, può essere riportato alla vitalità primigenia, fermo restando che, come accade per l’aria, l’acqua e le foreste, la prevenzione è sempre migliore della cura e la buona pratica di “manutenzione” preferibile a qualsiasi atto riparatorio.
———
Note:
2) Le perdite umane del conflitto sono stimate in 5,4 milioni di persone, cifra alla quale si devono sommare i milioni di profughi fuggiti nei Paesi confinanti.
3) https://sites.nicholas.duke.edu/avnervengosh/files/2011/08/es504654n_iodide-and-ammonium.pdf
4) Fra i casi di sismicità indotta vi sarebbero due sismi di magnitudo 2.3 e 1.4 avvenuti nel Lancashire nell’aprile e nel maggio 2011. Si tratta di una limitata intensità sismica, non in grado di arrecare danni all’uomo e agli edifici, ma lo studio condotto da Christopher A. Green, Peter Styles e Brian J. Baptie confermerebbe il rapporto di causa-effetto fra fratturazione idraulica e terremoti.
———
Immagine di copertina:
foto di Davide Mazzocco.