Mentre galleggiavo in mare aperto quest’estate con il viso rivolto all’insù mi sono spesso domandato se non stessi in realtà galleggiando con la faccia immersa nel cielo. Alla fine, come i pesci vivono nel mare, noi terrestri non viviamo nella terra ma nell’aria. Immaginate appunto di lasciarvi trascinare dalle onde del mare mentre galleggiate a pancia in su, guardando intensamente il cielo limpido in una giornata d’estate. La sottile linea che bagna il vostro profilo, che separa il blu del mare dall’azzurro del cielo terso, è ciò che segna la divisione nel vostro corpo tra l’aria tiepida e l’acqua salata. Eppure, se i pensieri vengono meno in quel dondolìo tra cielo e mare, nel momento in cui si è assorbiti da questo galleggiamento, si ha la sensazione di fluttuare con la faccia dentro l’aria esattamente come quando si fa snorkeling lungo il profilo dell’acqua. Le scie lasciate dagli aerei e i gabbiani che nuotano nel cielo appaiono allora come immersi in un fluido che ci permette di vivere.
La sensazione di non comprendere più dove si è immersi la si prova costantemente leggendo Corrispondenze, l’ultimo libro dell’antropologo Tim Ingold. Il libro si presenta come una raccolta di saggi, poesie, dialoghi e risposte sollecitate da artisti, attivisti, cineasti, alpinisti e colleghi che domandano a Ingold che cosa ne pensa del mondo che ci circonda. Il testo si presenta come una raccolta poetica e allo stesso tempo una consecuzione teorica del libro Siamo linee, nel quale scriveva che «la vita delle linee è un processo di corrispondenza».1 Così come Umberto Eco sosteneva che “su ciò su cui non si può teorizzare si deve narrare”, allo stesso modo Ingold afferma che «narrare è trovare, non descrivere ciò che è già stato trovato».2
È fuori dubbio che l’antropologia abbia attivato una svolta particolare nelle sue ricerche che trascendono l’umano e che iniziano, come ci segnala Ingold, dagli alberi, le pietre, la schiumosa saliva di un cavallo. Kohn, Morizot, Despret, Descola, Latour, Viveiros de Castro mostrano propriamente questa nuova contemplazione del mondo che merge dall’intrinseco mutualismo di umano e non umano, vivente e non vivente, in una costante e ramificata relazionalità pressoché inscindibile, la quale non dev’essere in nessun modo sottratta alle nuove ed evidenti reti di parentela sottolineate dall’antropologia. In questo affasciante racconto di percezioni rovesciate, in cui viene tracciata una teoria delle corrispondenze quale «teoria generale dell’evoluzione che possa comprendere la storia umana come caso specifico»,3 Ingold ci fa respirare dentro la terra, l’acqua, le pietre, le parole, rendendo il lettore incapace di stabilire dove la propria esistenza effettivamente si inserisce. Le linee tracciate dall’autore, le quali esprimono la sua stessa esperienza esistenziale, si intersecano creando delle corrispondenze inscindibili tra l’antropologia, la filosofia, l’arte e la vita.
Il libro spinge a riconsiderare ogni luogo e dimensione, ogni struttura e contenuto di ciò che il paesaggio fisico e mentale offre alla nostra specie. Le corrispondenze, pervasive e spesso ingarbugliate, sono una grande lezione sull’inutilità concepita attraverso un grande sforzo di volontà. Infatti, rendere conto delle corrispondenze che esistono tra le cose del mondo e divenirne parte sono due processi che ripropongono la vita come un’opera d’arte, una vita dalle linee fragili e delicate che corrispondono ad esistenze dagli appoggi incerti. «Ma non è facile. Galleggiare – cioè evitare di essere catturati dalle strutture fisiche, sociali e istituzionali che minacciano sia di imbrigliare la vita sia di assoggettare la libertà alla legge e alla ragione – richiede un grande sforzo di volontà».4
Per Ingold le corrispondenze rimandano a una stratificazione costante di superfici differenti, le quali non si mescolano ma si intercambiano poiché necessarie le une alle altre. Infatti, ciò che ci mostra l’autore è che non esistono punti di origine, ma solo un continuo originare sé stessi a partire dagli incontri, gli scontri, modalità di crescita tracciata da un percorso del tempo che passa sulle nostre esistenze meticciate. In fondo, la pietra e l’albero, divenuti statua e tavolo, non sono altro che forme del tempo, momenti passeggeri nelle vite senza fine. La domanda “chi sono?”, in relazione a un’antropologia della vita, si trasforma rapidamente in “cosa sono?”, lasciando poi spazio a qualcosa di assai più ovvio, ma nascosto alla vista nella sua completa esposizione: “cosa siamo?”. Guardarci dentro e allo stesso tempo attorno, pensare le cose nel loro statuto, significa infine cercare di disfare il lavoro del tempo; un lavoro saggio, costante, una profonda composizione cinematografica in cui la nostra vita non è che un fotogramma immerso nel film della storia del mondo. Ecco che allora materiali ed esperienza sembrano corrispondersi in momenti stratificati l’uno sull’altro, l’uno grazie all’altro. Le superfici della città e altresì del bosco come della vita stessa, dell’acqua come della terra e dell’aria, l’arte ed il tempo, l’umano e il non-umano; inseparabili e parti di un infinito piano in costante dissolvenza. Le corrispondenze allora sono pieghe di un unico piano, pieghe che sulla superficie formano delle linee, come un percorso tracciato lungo la cima di una montagna che separa i due versanti che l’hanno formata. Seguire le corrispondenze significa camminare come funamboli su una linea tesa non tra un punto di partenza e un obiettivo, ma tra la nostra fragile forma di vita e il brivido dell’insensatezza.
«È ciò che ho chiamato corrispondenza non nel senso di un abbinamento esatto, o un simulacro, con le cose e con gli eventi, ma nel senso di un nostro rispondere a ciò che accade intervenendo, domandando e replicando, come se fossimo impegnati in una corrispondenza postale. Per me “incontriamo il mondo” è un invito – un’esortazione, persino un ordine – a unirsi a questa corrispondenza».5
Spesso ci troviamo di fronte a quest’impossibilità di capire, quando ci fermiamo a guardare un paesaggio sulla cresta di una montagna, se ciò che sta dietro la nostra nuca sia davvero il retro del mondo; se la lunga ombra che ci segue non sia in realtà il nostro corpo che si immerge e si estende ramificandosi nel suolo come la traccia di una corrispondenza con il mondo impossibile da cancellare. Siamo quell’ombra così come «gli alberi decidui lasciano cadere le foglie, le quali formano uno spesso tappeto sul terreno circostante. Il tappeto, potremmo dire, è l’ombra materiale dell’albero come fascio. Eppure, anche quando sono separate da rami e rametti su cui un tempo crebbero, le foglie non perdono mai la loro connessione vitale con l’essere-albero. Come le orme di tanti piedi, così le foglie di innumerevoli alberi si mescolano, formando un palinsesto d’ombre sulla superficie della terra».6 Nel momento in cui scorgo le corrispondenze del mondo mi chiedo allora se in quelle giornate d’estate, dove galleggiando il mio corpo privava dei raggi del sole un pezzo di mare, ho vissuto dentro il mare con la mia ombra o nel cielo con il mio respiro e il mio sguardo.
Riferimenti bibliografici
Tim Ingold, Siamo linee. Per una ecologia delle relazioni sociali, Treccani, 2015
Tim Ingold, Corrispondenze, Raffaello Cortina, 2021
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Note:
2) T. Ingold, Corrispondenze, Raffaello Cortina, 2021, p. 141.
3) T. Ingold, Siamo linee, cit., p. 253.
4) T. Ingold, Corrispondenze, cit., p. 125.
5) Ibid. p. 218.
6) Ibid. p. 41.
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Immagine di copertina:
Toni Frissell, Weeki Wachee Spring (particolare), Florida, 1947.