[Alcune considerazioni critiche su reincantamento e realismo magico, in cerca di una nuova metodologia ibrida, al contempo filosofica e narrativa, in grado di render conto del soprannaturale e dei “fenomeni di frontiera”].
Operando nella cabala temporanea denominata Gruppo di Nun – collaborazione sfociata nel grimorio collettaneo Demonologia Rivoluzionaria (Nero 2019, Urbanomic 2022) – ho avuto modo di confermare (soprattutto in sede di alcune interviste) certe supposizioni maturate nel corso degli anni. In breve, ritengo che la magia, nonché il “soprannaturale” e le varie metodologie a essa collegate, possano essere viste come parte integrante dell’architettura ontometafisica della realtà ‒ o, se si preferisce, della “natura”.
Mi rendo conto, tuttavia, di come le considerazioni “in breve” siano sempre le più complicate.
È interessante notare che gran parte delle posizioni “realiste” possono essere suddivise in due macro-categorie: quella del realismo fisiologista (termine coniato dal filosofo Iain Hamilton Grant), fondato sul dogma secondo cui i fenomeni “inspiegabili” sarebbero semplicemente inesistenti o non ancora accessibili al sapere scientifico; e quella del realismo magico (da non confondere con la ben nota corrente artistica e letteraria), il quale ritiene che la realtà non possieda un fondamento solido, o che non vi sia alcuna realtà. Il pregio di entrambe le spiegazioni è, di fatto, di ridurre notevolmente la complessità, offrendo scenari al contempo accessibili e intellegibili (per lo meno sul piano del linguaggio comune).
Vari esponenti di entrambe le fazioni hanno di recente proposto un nuovo tipo di approccio filosofico alla realtà, il cosiddetto “reincantamento”: una prassi che consentirebbe di ripristinare una certa meraviglia, costitutiva dell’essere umano, nei confronti del mondo, bandendo il nichilismo, il disincanto e la disillusione generati e alimentati dall’Illuminismo e dalle successive rivoluzioni scientifico-tecnoeconomiche.1
È in questa “fessura” post-metafisica che il realismo magico (inteso, stavolta, come corrente artistica, filosofica e letteraria), si inserisce con sorprendente agilità, segnando una convergenza ideologica e di intenti delle due opposte fazioni. Un fenomeno che colpisce senza dubbio per la capacità di mettere tutti d’accordo: i realisti fisiologisti in nome di un pizzico di magia che non guasta mai e che non fa male a nessuno; e i realisti magici per via della preziosa occasione di penetrare all’interno del discorso egemonico senza passare per le forche caudine dell’argomentazione ipotetico-deduttiva.
Il realismo magico ‒ condotto al livello del costume, dell’esperienza intellettuale, della visione del mondo e del lifestyle ‒ è la giustificazione o, forse, l’alibi, per una vera e propria invasione di mercato che comprende temi tanto lontani tra loro, quanto vicini nella testa di chi li accorpa: insetti magici, animali parlanti, foreste che pensano, funghi meravigliosi, rinascimenti psichedelici ayahuascatici, cyborg dal cuore d’oro, intelligenze artificiali, metafisiche cannibali, new weird theory e via dicendo.
Risultato di tale tempestiva diffusione ‒ detto in tutta cattiveria ‒ è un imbambolamento generico, ancor prima che generale.
Parafrasando i commentari e gli scolii di Adorno riguardanti il Jazz, tale libertà assoluta e psichedelica dalle condizioni materiali, non è che una replica scolorita del vecchio argomento sul libero arbitrio ‒ o quello ancor più recente della “libera impresa”. Un’illusione squisitamente ideologica, atta a produrre il simulacro di un’innocenza perduta e di una potenza pratico-immaginativa senza limiti.
Ma in che modo questa nuova vulgata favorisce la classe dominante? Non è poi così difficile arrivarci: nel corso del tempo, tutta una serie di schemi mentali parossisticamente riduzionisti o totalmente avulsi dalla realtà divengono visceralmente pop, inibendo qualsiasi comprensione profonda o mutamento radicale. Questo, da sempre, è il gioco del potere.
Ben pochi intellettuali (o presunti tali), oggi, sarebbero disposti a giurare sulle proprie madri di credere negli gnomi, negli UFO, nella magia nera o nell’anima delle piante. Parecchi, tuttavia, parrebbero proprio impossibilitati a fare a meno di riempirsene la bocca. Si tratta di un atteggiamento che ha investito in pieno il dibattito sul cambiamento climatico, sull’Antropocene e sulle menti “altre” rispetto all’umano, innescando un regresso di proporzioni epocali ‒ e del quale si cominciano fin da subito a percepire gli effetti. L’idea secondo la quale sarebbe impossibile capire, o anche solo immaginare, il cambiamento climatico (si veda l’opera di Timothy Morton) fa parte di quello che potremmo ribattezzare “canone surnaturalista”, presentandosi come un’aberrazione riduzionista di tesi epistemologiche e psicologiche di gran lunga più interessanti.
Rispetto alle due correnti delineate nel precedente paragrafo, vi è nondimeno una terza possibilità ‒ l’ipotesi della quale, in tal sede, vorrei offrire solo uno scorcio, e che ha influenzato buona parte del mio lavoro. Tale “terza posizione” stabilisce che l’“inspiegabile” e il “soprannaturale” siano parte integrante dell’architettura stessa del reale o, per quel che vale, della natura. In tal senso, il cosiddetto “disincanto” rappresenterebbe la chiave di volta di un progetto mirato a sospendere la credulità e la meraviglia inebetita, in favore di un tentativo di analizzare, modellizzare e comprendere anche i suddetti fenomeni di frontiera. Un autentico “nuovo realismo”, insomma, al quale non conferiremo, per comodità, alcun nome se non quello di “realismo di frontiera”.
Se il realismo magico si configura come uno scatenamento del magico nel quotidiano (seguito, a volte, da una “banalizzazione” e assimilazione del primo all’interno del secondo), il nostro “realismo di frontiera” sostiene l’inesistenza del quotidiano stesso ‒ se non come epifenomeno di un’esperienza cosmologica e metafisica più ampia e più complessa. La dimensione abitudinaria e innocua della quotidianità, dell’ordinario e del banale, rappresenta, di fatto, una conquista fondata su milioni, anzi, miliardi di anni di vita organica e inorganica ‒ un taglio ordinato all’interno del disordine, o una deviazione funzionale dal caos. In quanto tale, essa non è mai scontata, giacché la sua medesima esistenza testimonia della natura singolare (o, meglio ancora, di “singolarità”) della vita, della coscienza e del pensiero. Fenomeni dei quali, non a caso, non abbiamo nessun altro esempio se non gli ecosistemi terrestri, le creature che ci circondano e noi stessi.
Per dirla con Deleuze e Guattari, la vita quotidiana è un “caosmo”, un setting metastabile, costantemente in procinto di cedere, ma a partire dal quale è possibile costituire un’esperienza riconoscibile, delle teorie e delle tecniche.2
Ciò non toglie, tuttavia, che il caos, il weird 3 e l’unexpected, costituiscano buona parte del nucleo fondamentale del reale ‒ senza che sia necessario andare a caccia di gnomi o votarsi al vodun.
Non è un caso che gli stessi Deleuze e Guattari ‒ come i diversi esponenti del realismo magico ‒ prendano le mosse da un autore quale E. T. A. Hoffmann. Fu Sigmund Freud il primo a porre sotto esame l’opera di Hoffmann, ricavandone uno dei principi fondamentali della sua tarda opera: l’idea che l’inorganico e la ripetizione siano legati all’insegna di una non-vita primordiale, capace di proliferare come un parassita all’interno della vita quotidiana. Qual è il confine tra vita e non-vita, si chiede Freud in Il perturbante? In che modo l’illusoria sensazione di poter controllare noi stessi e il mondo viene corrosa da forze (seppur non coscienti e prive di volontà e intenzioni) in grado di manipolarci a nostra insaputa e condannarci alla rovina?
Si tratta di uno dei punti chiave della letteratura gotica e weird (si pensi al racconto Rivelazione mesmerica, di E. A. Poe, o all’Arthur Jermyn di H. P. Lovecraft), ma anche una delle componenti più evidenti del folklore soprannaturale (come nel caso dei classici racconti di fantasmi, o delle superstizioni riguardanti il malocchio). Al contempo, tale nozione è alla base di alcune delle più interessanti formulazioni materialiste, fisiologiste e naturalistiche contemporanee (lungo una traiettoria a zig-zag che da Kant, Marx, Schelling e Schopenhauer, giunge fino a Deleuze, Land e Negarestani).
Nel campo della fiction, Thomas Ligotti è uno dei pochi autori che è stato in grado di applicare con estrema minuzia tale approccio, fondendo con grande successo l’essay criticista e il racconto dell’orrore. Il mondo ligottiano abbonda di orrori, tanto banali quanto straordinari, che paiono staccarsi dal nucleo stesso del reale per ghermire i personaggi. Tuttavia, è Ligotti stesso (nell’introduzione al suo Nottuario), a ricordarci che il punto del racconto meraviglioso non è farci meravigliare, o sorprenderci, o farci rabbrividire al cospetto di forze soprannaturali; il nucleo della letteratura weird, per Ligotti, è la desolazione del reale, la banalità della natura, lo stare in bilico su un precipizio della vita stessa. In questo senso, se non vi è un reale, è proprio perché non vi è un quotidiano, né uno straordinario, né un meraviglioso. L’intera esistenza, l’ontologia stessa delle cose è tsalal (adombramento, inconsistenza; un termine biblico mutuato dal “Pym” di Poe e, sorprendentemente, dalla Sfinge dei ghiacci di Verne). Il vero mistero, da tale punto di vista, è come si sia anche solo riusciti a ricavare una quotidianità dall’abisso; la risposta di Ligotti è che la quotidianità stessa, la ripetizione, l’abitudine, il destino e l’istinto, sono le modalità attraverso le quali lo tsalal prospera e si riproduce, in una spirale di insensatezza.
Lo iato tra realismo fisiologista e realismo magico è oggetto degli studi preparatori di un importante testo di chaos magick,4 SSOTBME, di Lionel Snell (in arte Ramsey Duke).
In primo luogo, tuttavia, è importante precisare in che modo i due realismi interagiscono con il mondo e con l’ambiente. Il realismo fisiologista è l’equivalente del realismo scientifico ‒ fondato sulla irriducibilità delle teorie scientifiche a costrutti sociali, storici o culturali ‒, con un importante debito nei confronti del materialismo detto “volgare” (l’idea che le cose siano tali e quali a come le percepiamo, un concetto sintetizzato dalla cosiddetta “teoria corrispondentista debole”). Per il realista fisiologista, tutto è spiegabile secondo i dettami delle scienze esatte o naturali ‒ senza che tali categorie siano sottoposte a ulteriori ricerche o problematizzazioni. Quello del debunking 5 è senza dubbio uno dei settori più devoti a tale visione del mondo ‒ secondo solo all’ateismo militante.
Per il realista magico, all’inverso, il mondo è un campo di battaglia tra forze squinternate, prive di limiti e confini precisi: dall’olismo alla magia rituale, dalla psichedelia alla legge d’attrazione, dall’angelologia agli archetipi, dallo spiritismo all’omeopatia. Nulla sfugge alla sete di “conoscenze proibite” del realista magico. Un sogno a occhi aperti che sfocia, in modo piuttosto scontato, in pratiche fallimentari e di breve durata.
Nell’opera di Lionel Snell/Ramsey Duke ‒ matematico e mago del caos, protagonista di un’interessante debacle riguardante i meme e Richard Dawkins ‒ queste due dimensioni, all’apparenza del tutto incompatibili, convergono all’interno di un organon teorico-operativo. Per Duke, l’esperienza gnoseologica e le pratiche umane sono il prodotto della stratificazione di più istanze metodologiche, strettamente correlate alla sostanza materiale e immateriale del mondo (sostanza la cui assenza renderebbe del tutto inefficace le stesse pratiche magiche). In primo luogo, vi è il regno delle leggi e delle cause (per quanto instabili e impermanenti), che può essere descritto e formalizzato sotto forma di formule matematiche, dimostrazioni, teorie, sillogismi e assiomi; la modalità di pensiero corrispondente a questo primo regno è la deduzione. In secondo luogo, vi è il regno delle correlazioni, che comprende abitudini, associazioni mentali e cicli soggetti a mutamento (come, ad esempio, l’associazione tra il semaforo verde e la sicurezza stradale); ci approcciamo a tali semi-regolarità per mezzo dell’induzione, dell’alea e della probabilistica. Ma vi è un terzo ambito, quello delle associazioni inusuali, acausali e contingenti, dei sogni, delle intuizioni, dell’arte, delle metafore e delle allegorie; questo ulteriore campo d’azione è per Duke il territorio di riferimento della magia, governato dai procedimenti mentali di abduzione (quel “non so che” che ci fa intuire che, forse, un singolo fagiolo nero potrebbe essere finito sul nostro pavimento cadendo una confezione di fagioli bianchi).
Per il mago del caos, l’ordine è una deviazione, un epifenomeno del caos stesso, ottenuto col sudore della fronte ‒ ma che può anche essere abdicato in favore di nuove configurazioni. In tal senso, l’opera di Duke offre al mago una “analitica del caos”, capace di fornire un’impostazione metodologica prossima (per quanto remota) a quelle delle pratiche scientifiche ‒ dimostrando, in modo originale e brillante, che la magia non è un dato, ma una serie di pratiche messe in atto in rapporto all’immane macchinario cosmico.
Ma in cosa consistono, in definitiva, i fenomeni di frontiera?
Questa categoria di avvenimenti comprende sia fenomeni comuni, sia veri e propri miracoli, lambendo anche eventualità così anomale e tuttavia così diffuse da risultare vicine all’esperienza quotidiana. Basti pensare che, ai suoi inizi, anche la meccanica quantistica fu bollata da alcuni detrattori come “scienza di frontiera”, per via dell’ineluttabile incertezza descrittiva e sperimentale. Un suggestivo esempio della potenza immaginifica di questa branca della fisica è senza dubbio il quasi-modello dell’“universo a un solo elettrone”, secondo il quale non vi sarebbe che un solo e unico elettrone e positrone, perennemente intento a viaggiare avanti e indietro nel tempo a velocità superluminale. Un’ipotesi (rielaborata nel 1949 da Richard Feynman all’interno di un paper) che, per quanto fantasiosa, non fa che evidenziare la carica suggestiva della fisica teorica e della cosmologia ‒ un appeal al quale, in fondo, dobbiamo l’esistenza della fantascienza.
Tra la meccanica quantistica e l’ipotesi cosmo-temporale dell’unico elettrone vi è senz’altro di mezzo l’abisso del magico, del weird e dell’inaspettato ‒ eppure, a pensarci bene, la distanza non è poi così marcata, come notato da centinaia e centinaia di maghi, filosofi, cialtroni e imbonitori nel corso degli ultimi cento anni.
Tuttavia, non è solo la scienza a informare i fenomeni di frontiera. A volte, capita esattamente l’inverso, come nel caso di Kekulé, che individuò la struttura chimica del benzene dopo aver visualizzato un uroboro durante un sogno a occhi aperti.
Vi sono, infine, diverse zone d’ombra, nelle quali scienza, magia e paranormale si fondono, dando forma a una vaga nebbia indistinta. È il caso del “Philip experiment”, una serie di sedute medianiche effettuate all’interno di un laboratorio di psicologia ‒ seppur nel totale rispetto della tradizione spiritista. Oggetto delle sedute fu un’entità spiritica fittizia, dotata di una biografia costruita a tavolino e disseminata di contraddizioni più o meno palesi (tale Philip Aylesford). Scopo dell’esperimento fu quello di esaminare gli effetti della suggestione su un campione di partecipanti scelti tra l’upper class canadese (professionisti, insegnanti e ricercatori). Nessuno si sarebbe mai aspettato di vedere il tavolo della seduta lievitare, né che l’entità fittizia si manifestasse in modo chiaro ed evidente per mezzo della tavola oujia ‒ né, tanto meno, che tali risultati potessero essere replicati di fronte a una telecamera.
The Philip Experiment non è stato unicamente un importante conseguimento nel campo degli studi sulla suggestione collettiva, ma anche una vera e propria miniera a cielo aperto per la letteratura e la cinematografia horror.
Infine, vi sono centinaia di fenomeni di frontiera ai quali è capitato quasi a tutt* di assistere: manifestazioni spiritiche, sogni e intuizioni premonitori, eventi sincronici, strane sensazioni, paralisi notturne, esperienze pre-morte ed extracorporee. Attraverso tali evenienze, il bizzarro si insinua nella vita quotidiana, rivelandone l’inconsistenza ‒ eppure, non vi è traccia alcuna di magia, nessuna prova dell’esistenza di una dimensione soprannaturale. Tutto quel che riusciamo ad afferrare è una nebbiolina sottile e impalpabile.
Non la grande letteratura, non il magico o il meraviglioso, ma la fantascienza, il weird horror e il fantasy, il folklore più basso e ignobile e, infine, la leggenda metropolitana. Ecco il punto di partenza per l’analisi dei fenomeni di frontiera: Due uomini a spasso nel bosco avvistano in lontananza una grande “U” rovesciata; l’entità è bianca e luminosa, ma non sembra proiettare alcuna luce visibile sull’ambiente circostante. Tutto attorno, il silenzio. Entrambi si sentono a disagio; in breve vengono soverchiati dalla sensazione che tutto stia per finire.
La creepypasta 6 ‒ e in particolar modo le elaborate e dispersive architetture paranoiche e interdimensionali, quali la SCP Foundation o il Black Tapes Podcast ‒ rappresentano la nuova vulgata del magico, del bizzarro e del perturbante. In tali immensi labirinti, l’essere umano diviene incapace di afferrare e manipolare il mondo, di proferire parola, di rispondere per mezzo delle emozioni, dei sentimenti e degli infantilismi. Qui, lo stupore significa morte e la meraviglia è solo un’anticipazione del terrore.
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Note:
2) Furono proprio Socrate e Platone, in Occidente, a definire una “tecnica” come un’insieme di saperi dotati di assiomi, costanti e applicazioni non contestuali (cfr. Platone, Gorgia), fortemente dipendenti dalla verosimiglianza di determinate proposizioni riguardanti il mondo, a loro volta derivate da esperienze individuali comunicabili e sintetizzabili (come non sono, ad esempio, quelle dei maghi e dei visionari).
3) Dall’antico inglese “Wyrd”, termine ambiguo che (come ricorda Thomas Ligotti nella prefazione al suo Nottuario) definisce sia qualcosa di fatidico, conclusivo o persino ‘apocalittico’, sia qualcosa di strano, bizzarro, sommamente perturbante. Per il critico e filosofo Mark Fisher il weird e l’eerie (ossia lo spettrale o raccapricciante) costituirebbero le due modalità attraverso le quali l’essere umano entrerebbe in contatto con potenze ‘esterne’, di fatto incomprensibili e inumane (The weird and the eerie, Minimum Fax 2018).
4) Termine con il quale si indica una determinata tipologia di ricerca e pratica magica slegata da qualsiasi tradizione ma che, al tempo stesso, si mostra pronta ad accogliere qualsiasi retaggio o novità in modo intuitivo, originale e disordinato. Tra i fondatori di tale non-metodologia ricordiamo A. O. Spare e Peter Carroll (l’autore che più ha contribuito alla diffusione del termine dopo Alan Moore).
5) Pratica consistente nel tentare con ogni mezzo a propria disposizione (dalla mera logica fino all’analisi digitale) di dimostrare l’inesistenza o la fallacia di tutta una serie di fenomeni magici e sovrannaturali, ma anche di complotti e leggende metropolitane (e che, pertanto, riguarda tanto l’Area 51 quanto gli esorcismi, tanto gli Illuminati di Baviera quanto lo spiritismo, i fantasmi, i rapimenti alieni e i guru-guaritori).
6) Particolare tendenza narrativa dell’epoca digitale, consistente nella stesura (spesso collettiva ed estemporanea) di brevi storie del terrore, spesso mutuate da leggende metropolitane, dicerie o immagini reperite online. Si potrebbe forse definire tale stile letterario come l’equivalente digitale delle storielle dell’orrore raccontate (e spesso inventate) attorno al fuoco.
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Immagine di copertina:
Robert Class, Eerie Walk (particolare), 2015.