[Proseguiamo nella ripubblicazione, con cadenza settimanale, del libro collettivo “A sé e agli altri. Storia della manicomializzazione dell’autismo e delle altre disabilità relazionali nelle cartelle cliniche di S. Servolo”. Qui per altri dettagli e per la Prefazione al volume].

A Beatrice, musa isterica

Senza avere alcun obiettivo di tipo statistico, questo lavoro si basa sullo studio di materiali provenienti dagli archivi manicomiali veneziani: in particolare, di una trentina di cartelle cliniche, compilate per i ricoveri di donne, avvenuti dagli anni Settanta dell’Ottocento e fino agli anni Venti del secolo scorso. Donne che avevano in comune un comportamento “sregolato”, una “vita dissoluta” (ci sono anche le cartelle di diverse prostitute), fino a un vero e proprio “pervertimento morale”. Siamo nel campo della follia morale e, ancora più precisamente, in quello dell’isteria.
Nella pluralità di scritture che ritroviamo nelle cartelle, qui ci soffermeremo su quella medica, sul modo in cui gli psichiatri hanno reso, scrivendo, il loro sguardo su quelle donne. E la scrittura psichiatrica delle cartelle è tutt’altro che univoca – e ciò vale anche e soprattutto per gli anni della psichiatria dominata dal positivismo,1 dall’antropologia di Lombroso,2 dalle misure e dai pesi, e così via. Le cartelle sono luoghi di una scrittura quanto mai sincretica: accanto alle cifre e ai tecnicismi, c’è tutta una costruzione retorico-narrativa: il racconto, a volte davvero sommario, di una esistenza. Ogni tanto, anzi raramente, era vinta la routine manicomiale, la quale, al contrario, portava di solito i medici ad abbandonare presto i diari clinici: infatti le cartelle rimanevano il più spesso, al di là della compilazione dei dati anagrafici e anamnestici, moduli inutilizzati. Ricoveri anche molto lunghi, che duravano parecchi anni – anche qualche decennio a volte – sono rimasti privi della scrittura dei medici, se non perché un altro tipo di malattia (una febbre, un’infezione) ha comportato all’improvviso il trasferimento in infermeria, rendendo di nuovo necessario l’utilizzo delle cartelle.
È come se ci si trovasse quindi di fronte a delle griglie vuote. Eppure, in alcuni casi e per diverse ragioni, uno psichiatra riportava le sue osservazioni. Ed è proprio da quelle note, seppur a volte frettolose, che emergono anche oggi tutti i limiti della pretesa “scientificità” della psichiatria. Cosa se ne ricava infatti? Una raccolta, spesso molto ripetitiva, piena anche di giudizi superficiali e di impressioni estemporanee. Una raccolta fatta anche di pregiudizi, di tanti luoghi comuni, e che rivela un’attenzione scarsa o nulla verso le parole o persino i volti dei malati.
Le cartelle cliniche, lo vedremo fra poco, devono anche essere sempre considerate come depositi di una mentalità collettiva, e di pregiudizi appunto. Da quei materiali d’archivio, o da alcuni fra essi soprattutto, emerge bene il tentativo di rinchiudere delle donne nell’isteria o nella follia morale, negli stereotipi di comportamenti pericolosi o scandalosi. Comportamenti che venivano letti come sintomi, come la manifestazione di una alterazione, di una malattia. In questo senso, il vocabolario usato dai medici è tutt’altro che asettico e distaccato. Spesso si giunge anzi all’insulto, o all’indifferenza alternativamente. Gli psichiatri appaiono talvolta come uomini infastiditi o anche soltanto annoiati dalle malate. E, ancora più spesso, troviamo pagine intere di “nulla di nuovo”, “idem, idem”, formule ripetute per settimane, per mesi.
La scrittura medica ha seguito registri diversi e paralleli: da una parte, ecco i risultati degli esami obiettivi sui corpi, frutto di manipolazioni, misurazioni, e così via 3 – e nella stessa logica sono comparse le fotografie dei malati, realizzate con l’intento di rendere sempre visibili i segni della malattia mentale: tentativi per identificare meglio, non per comprendere. Dall’altra parte, ecco il racconto (anzi: il non-racconto) di un incontro quasi sempre mancato fra medico e malato.

Chi erano le donne di cui qui ci occupiamo? Erano donne alle quali è stata attribuita, dentro o fuori il manicomio, una diagnosi di isteria 4 (frenosi isterica, soprattutto) o per le quali l’isterismo è stato considerato una causa determinante nell’insorgenza dell’alienazione mentale (di norma la follia morale).5 Vedremo con quanta superficialità parole come “isteria” o “isterismo” venissero utilizzate, anche e soprattutto rispetto a ciò che a partire dall’ultimo quarto dell’Ottocento si scriveva sul tema anche in Italia.6 Di queste donne, la grande maggioranza erano donne giovani – tre su quattro avevano attorno ai 20 anni al momento del ricovero.7 Ragazze quasi sempre nubili, alcune con già con figli – figli nati fuori dal matrimonio –, alcune prostitute, quasi tutte di condizione povera o miserabile. La maggior parte delle malate è entrata (o rientrata) in manicomio negli anni Settanta o Ottanta dell’Ottocento. I ricoveri, pur senza affidarsi a un calcolo preciso, solitamente non sono stati lunghissimi: un paio di anni in media. Certamente, non sono mancate “permanenze” durate 10 o 15 anni o, per converso, solo poche settimane. È interessante notare che normalmente le malate uscivano dal manicomio come “migliorate”, e, più raramente, come “guarite”.
Erano donne che avevano a che fare con l’isteria, più che altro a causa del loro “stile di vita”, o del loro mestiere, da cui i medici desumevano un “pervertimento morale e affettivo” più o meno spiccato e più o meno irrimediabile. Ma erano prima di tutto donne. Gli anni dell’ultima parte dell’Ottocento, e dell’inizio del Novecento, sono stati, anche in Italia, quelli dell’inizio della “questione femminile” e del problema rappresentato dalle pretese di emancipazione.

Verso la fine del XIX secolo l’isteria segnala la stessa essenza mendace dell’anima femminile; la donna, come prospetta Cesare Lombroso in La donna delinquente, prostituta e amorale, segnala sul piano biologico un uomo riuscito male, ossia un essere degradato nel suo sviluppo biologico: «la donna è un uomo che si è arrestato nel suo sviluppo», come di già aveva sostenuto Aristotele. L’isteria è quindi il simbolo stesso della ribellione della donna e del malessere e della decadenza del XIX secolo, come si evince anche dall’esame dell’opera Sesso e Carattere di Weininger; come scrive Freud in diversi suoi saggi, fra cui Storia di una nevrosi infantile, Erotismo anale e complesso di evirazione e Tabù della verginità, la donna in sé e per sé rappresenta l’elemento naturalmente “passivo”, paragonabile a un “uomo evirato”: da ciò origina, per invidia, l’innata “ostilità e animosità dell’anima femminile verso l’uomo” che si dimostra clamorosamente proprio nelle cosiddette “donne emancipate”, ossia in quelle donne che rifiutano l’identificazione del ruolo femminile come suggerito dalla stessa fisiologia del loro apparato femminile.8
Che cosa rappresentavano le donne per le “scienze dell’uomo”, e per la psichiatria in particolare?9 Erano come grandi bambini, degli eterni adolescenti: deboli, emotive, infantili, anormali (rispetto alla norma, l’uomo), vanitose, immature, in una parola (e, senza esagerare, parola razzista)10: inferiori. La gerarchia uomo/donna era “scientificamente” assunta come dato di fatto. Le virtù femminili erano immodificabili, naturali. Di più, sembrava che dovessero essere proprio le donne a subire i danni prodotti dalla civiltà moderna in declino, tempo rappresentato pessimisticamente come il tempo della degenerazione:

«La civiltà moderna per gli psichiatri produce intrinseci veleni, coltiva all’interno nemici inesorabili nati dalla dissoluzione dei tradizionali valori morali stabilizzanti: le malattie psichiatriche, l’alcoolismo, la sifilide, la tubercolosi e soprattutto l’isteria sono il segno delle deteriori condizioni create dall’industrializzazione e del conseguente decadimento dei costumi; l’isteria è malattia che indica il distacco della donna dalle norme che, per secoli, ne hanno controllato l’interiore iper-sessualità, la mendacità e l’aggressività».11

Un’inferiorità, quella femminile, che era debolezza (anche nel senso, proprio dell’isteria, di debolezza di nervi),12 e che era, radicalmente, irrazionalità. E ciò perché si è continuato con ostinazione a inchiodare le donne al loro corpo, e prima di tutto al loro sesso, enigmatico, incomprensibile.

«L’isteria esplicita, infatti, una ricognizione generale e profonda sull’essere femminile; essa condensa tutto ciò che la società ottocentesca ha espresso sulle donne e lo fa ponendosi all’interno di una polarità […] che necessariamente va oltre il sapere psichiatrico, cogliendo uno dei pilastri della cultura moderna. La drammatizzazione dell’attacco isterico si sofferma, infatti, su due iperboli contrapposte che hanno accompagnato la rappresentazione del femminile nell’Ottocento: da un lato un corpo smodato, espressione della più esacerbata voluttà, dall’altro la rappresentazione della più squisita elevazione spirituale con un corpo che sommamente riesce ad esprimere l’estasi mistica».13

Le donne erano pensate come persone dominate dal sesso e da una gerarchia fra gli organi (il dominio dell’utero…): da ciò derivava appunto quel mistero e quell’alterità che rendevano le donne seduttive, ma anche infide, e sempre da temere.14 L’anormalità femminile (o la normale-anormalità per così dire) poteva esplodere, manifestarsi ogni volta in cui una donna non si adattava al ruolo sociale (sessuale, familiare, morale, sociale) considerato necessario, anzi naturale – e al silenzio che di solito doveva accompagnarlo. La follia femminile, e l’isteria in particolare, non era però letta che come un di più di irrazionalità rispetto alla normale irrazionalità femminile.
Anche la psichiatria italiana ha partecipato, e senza peraltro particolare originalità, a questa patologizzazione del femminile, legandola appunto soprattutto alla sfera degli affetti, dell’amore, del sesso: e fino agli estremi della ninfomania, dell’inversione sessuale, e della prostituzione.15 Davvero un Leitmotiv: le donne erano viste come fanciulli, con una esagerata, e potenzialmente pericolosa, vitalità emotiva. La donna veniva allora relegata alla passività; portatrice di una trasgressione da tenere sotto controllo, andava sempre limitata o ricondotta al suo ruolo naturale (il matrimonio, la maternità). Una concezione dispotica, un determinismo che condannava la donna in fin dei conti alla biologia, e ai tempi biologici della sua sessualità: la specie che sovrasta l’individuo. La donna era anzitutto la sua funzione riproduttiva (una sorta di incubatrice), segnata dal ritorno mensile della mestruazione, e che rischiava di più in particolari periodi “critici” (la pubertà, il puerperio, la menopausa).
Una ragazza che non voleva sposarsi o che non voleva figli, non era normale;16 così come una madre illegittima.17 Ma il parto stesso era un momento al tempo stesso naturale e pericoloso: si pensi appunto alla frenosi puerperale,18 diagnosi psichiatrica che, come l’isteria, non faceva che mettere in rilievo la contraddizione, tipicamente femminile, fra egoismo e altruismo, fra sensibilità e insensibilità, fra bisogno di autonomia (vanità) e bisogno di dipendere comunque dall’uomo. E, lo ripetiamo, fino al punto critico della prostituzione, forma tipica della criminalità femminile. Le prostitute erano considerate donne che, avendo fatto del sesso il proprio mestiere, anzi la propria stessa vita, non facevano che manifestare oziosità, immoralità, assenza di sentimenti e di pudore. E non si dimentichi che fino ai primi anni del Novecento non è mai diminuita una terribile angoscia sifilitica, una paura di massa per il contagio da prostitute (soprattutto clandestine): donne anormali, da reprimere, pur dovendole tollerare.19 Erano gli anni della Donna delinquente di Lombroso e Ferrero (1893), e della Psycopathia sexualis di Krafft-Ebing (1886).20 Ed erano gli anni in cui anche e soprattutto i medici intendevano partecipare a una campagna per una moralizzazione di massa:

«Sono gli anni in cui Krafft-Ebing, Mantegazza, Nordau, scrivono trattati sulla sessualità degenerata e condannano l’arte e la letteratura contemporanea come frutto di un degrado che comincia con la masturbazione e finisce con il declino della società occidentale. I medici sentivano il bisogno di moralizzare il mondo. Troviamo trattati e trattatelli su madri snaturate che non allattano i bambini al seno, bambini perversi, che si masturbano, perdendo la vista e sviluppando il rammollimento del cervello, omosessuali contro natura, e, via via, feticisti, masochisti, sadici, zoofili, gerontofili.21

In pratica, nei manicomi poche prostitute venivano ricoverate con la diagnosi di frenosi isterica o simili. Piuttosto era la sifilide a contare: e allora, ecco le demenze o la paralisi progressiva.22 Ovviamente era fin troppo facile vedere nelle prostitute i soggetti più riusciti di una “immoralità isterica”: donne cattive, sempre a cavallo fra isteria e follia morale:

«Le categorie nosografiche di isteria e di follia morale si mantengono separate, nonostante le caratteristiche comuni: perversione del senso morale, anaffettività, mania di attirare su di sé l’attenzione, attitudine alla frode e alla menzogna. Se inoltre i pazzi morali cinicamente fanno apologia del vizio, per citare una frase di Tamassia, le isteriche non sono considerate in modo diverso. Si leggono infatti descrizioni come questa: ‘È una donna volgare, ha la mosse libere, lo sguardo sfrontato. È assai loquace e […] ricca di inflessioni maliziose e d’allusioni oscene. […] L’affetto per la sua famiglia, i sentimenti morali e religiosi impallidiscono di fronte a questo istinto’».23

Nelle cartelle veneziane di alcune prostitute della fine dell’Ottocento, ammesse con una diagnosi di follia morale, c’è un quadro molto simile a quello delle isteriche: menzogna, avidità, egoismo, instabilità, volubilità, astuzia, viziosità… L’isteria (o il “fondo isterico”) era allora come il segno (paradossale) del normale carattere femminile – mentre non era certamente considerata la maniera usata per esprimere un disagio, anche attraverso il corpo.

«Le isteriche si muovono sul confine fra quotidiano e straordinario, precarie permanenti della alienazione, sulla frontiera della ragione e della follia. Il quotidiano, la ragione sono caratterizzati da un corpo ordinato, che segue leggi sociali di rapporto e di movimento equilibrato, un corpo composto che rimanda ad un linguaggio decoroso. Il mondo dello straordinario, della follia, del “merveilleux” è segnato dal disordine del linguaggio, dei movimenti, da un corpo che vuole fuoriuscire dai propri confini, un corpo “grottesco”. […] Il canone corporeo e il linguaggio decoroso che succedono al corpo grottesco e al suo linguaggio sono, nell’800, il corpo sano, riproduttivo della borghesia, osservato e tutelato dalla medicina, il corpo dell’individuo, del non-diviso, omogeneo ed espressivo di personalità, ruoli e funzioni. L’isterica ne mina la facciata massiccia, apre il corpo chiuso nell’arco di cerchio, in un impossibile capovolgimento».24

Alla sessualità femminile si negava con ostinazione il campo libero del desiderio. Le isteriche erano donne in cui dominava un’attrazione prepotente o esclusiva per l’erotismo, fino al parossismo. Nelle isteriche vincevano l’istinto e la violenza degli affetti.
Se l’isteria non compariva nella diagnosi, essa poteva essere indicata come la causa dell’alienazione. Ho trovato nella cartella di Maria P. un caso davvero “esemplare”: entrata in manicomio l’11 febbraio 1877, a 24 anni, era una domestica, nubile, di Udine, di condizione miserabile. Proveniva dall’ospedale friulano, con un certificato medico di ninfomania, ed era considerata pericolosa a se stessa e agli altri.
A 22 anni ha avuto una figlia, “frutto di illegittimo amore”. La diagnosi prescelta è stata inizialmente quella di follia morale, in seguito messa in dubbio e affiancata da quella di mania. Più precisione sulle cause: «eredità, isterismo, vita dissoluta». Un circuito davvero temibile: il medico racconta di una ragazza con «abitudini girovaghe» malata tranquilla, che lavora. Maria P. è uscita «migliorata» 128 giorni dopo il suo ingresso, il 18 giugno del 1877.
I giudizi espressi dai medici per Maria P. tornano inevitabilmente in tanti altri casi. Prima di tutto tornano le parole, più o meno sempre le stesse. Ecco di seguito gli aggettivi e le formule più sintetiche (ed efficaci) che gli psichiatri veneziani hanno utilizzato per descrivere le loro malate – esempi di una sorta di vocabolario medico:

Oscena, bestemmiatrice, inquieta, irritabile, irritante, turpiloquiante, insolentissima, pervertita moralmente e affettivamente, dispettosa, bugiarda, inclinata a stravizi, carattere morale leggero, stato affettivo volubile e esagerato, stato affettivo nullo, egoista, vanitosa, abile simulatrice, astuta, civetteria, mitomane, capricciosa, avventata nei giudizi, indisciplinata, impulsiva, ladra, violenta, oziosa, permalosa, sprezzante, caparbia, intollerante, attaccabrighe, sciocca, stupida, volubile, dissoluta, disoccupata, parla in modo sboccato, provocatoria, maldicente, logica ma triviale, perversa, sconcia, girovaga, debosciata, come una belva, cocciuta, insolente, manesca, ladra, intollerabile di freno, petulante, mutabilissima di propositi, inclinata al mal fare, sempre erotica, inclinata alla malavita, ciarliera, inopportuna, pericolosa, intrigante, ingannatrice, rimestatrice perversa, bigotta, ipocrita, morbosa, poco sincera, esagerata, calunniatrice, fa discorsi coerenti ma osceni, infingarda, si finge innocente, sobillatrice, disobbediente, ha desideri eccessivi.

Sta qui l’essenza di quello sguardo medico sulle isteriche. Ed è qui piuttosto che negli accessi isterici, nelle convulsioni, su cui si trovano comunque pochi riferimenti nelle cartelle esaminate.25 Tutto chiaro e semplice, o almeno all’apparenza. Sempre lo stesso quadro: donne pervertite, viziose, oziose, i cui affetti era come se non esistessero, anche se le loro facoltà intellettive potevano essersi comunque conservate.26
Storie di vizi o di capricci, talvolta. Ma le cose possono anche complicarsi e dalle cartelle è possibile ricostruire vicende dolorose di disagio o emarginazione: un amore deluso, problemi familiari, miseria ecc. Ma questi guai non erano, per i medici, che le occasioni, per così dire, con cui si manifestavano delle cattive inclinazioni. Si cercavano, e si vedevano, i segni, in primo luogo fisici, di una degenerazione ereditaria (un ascendente folle, beone o suicida, la madre pure isterica, ad esempio): ecco allora che in tutte le cartelle non mancano pagine compilate con i risultati di indagini e misurazioni per cogliere le anomalie di conformazione e di sviluppo del cranio e di tutto il corpo, la presenza e la distribuzione di peli, e così via. Il corpo doveva rivelare, anche nel tempo. Era importante, non soltanto per le isteriche ricoverate in manicomio, ma più in generale per tutte le donne, sottolineare la comparsa, all’epoca della pubertà, e poi la regolarità delle mestruazioni, momento critico per eccellenza, che si ripete ogni mese.
Il rapporto tra le frenopatie delle donne e gli stati fisiologici e patologici dell’apparato sessuale è oggetto di tutti i trattati ottocenteschi di psichiatria: si ritiene comunemente che l’aggravamento dei fenomeni psichici dipenda da un’irritazione del cervello avente il suo punto di partenza negli organi genitali, irritati per l’appunto nel periodo mestruale. Alcuni sostengono che le mestruazioni, oltre ad essere significativamente irregolari nelle malate di mente, provocano un maggiore aggravamento. Altri si spingono persino a pensare che il periodo mestruale influisca notevolmente nella produzione delle nevrosi e della pazzia fino a parlare di «frenopatia mestruale».27
Nei diari clinici delle cartelle cliniche che abbiamo studiato, non mancano mai alcune parole su questo aspetto, anche solo per registrare un «nuovamente mestruata» e sottolineare eventuali variazioni nel comportamento o nell’umore. Così, ad esempio, del lunghissimo ricovero (dal 1888 al 1910, per frenosi puerperale) di Maria P., emergono in sostanza due tipi di notazioni: «nulla di nuovo» e «mestruata».
Molti cliché in questa scrittura medica, come si accennava più sopra. E davvero dalle cartelle veneziane, ma è una impressione confermata anche altrove, sembra che medici e malate non parlassero fra loro. Si trovano piuttosto frequenti rimandi alla incredibilità (ad litteram) delle isteriche, alla loro radicale non attendibilità. Le isteriche spesso usavano un linguaggio da trivio, bestemmiavano. Le isteriche, come le folli morali, erano inevitabilmente delle bugiarde, non ci si poteva fidare di loro. Le isteriche mentivano: nelle isteriche realtà e fantasia si confondevano sempre. Di più, non perdevano occasione per usare tutte le loro capacità “retoriche” per scusarsi di tutto ciò che facevano di male, per convincere il medico della loro innocenza, e non perdendo occasione semmai per calunniare le compagne o le infermiere. Intelligenza al servizio della menzogna, capacità infinita di simulare.

Soltanto qualche considerazione, in conclusione: anzitutto, è importante ricordare che l’isteria, a partire dall’ultimo quarto dell’Ottocento soprattutto, si è rivelata anche per la psichiatria una etichetta efficace da utilizzare per donne irregolari, riconducendo a una malattia, pure così proteiforme e così misteriosa, i loro comportamenti e le loro inclinazioni. L’isteria era ambigua perché le donne erano considerate essenzialmente ambigue; malattia difficilmente definibile e difficilmente curabile (per cui le isteriche entravano e uscivano dai manicomi), l’isteria rappresentava la negazione del “giusto mezzo”, della moderazione. Malattia adattissima per donne, quasi sempre giovani e nubili, che tendevano a incarnare eccessi opposti: troppo sensibili e troppo insensibili a un tempo, bigotte e blasfeme a un tempo. Donne teatrali, bugiarde, simulatrici,28 intriganti, ma anche suggestionabili, impressionabili. E poi esagerate, vanitose, egoiste soprattutto. Donne troppo donne, per così dire.
L’isteria aveva sempre a che fare con la sessualità femminile, lo abbiamo visto anche qui. Donne che esprimevano i propri desideri, in senso lato, anche mostrando talvolta quello che era giudicato dai medici come “sfrenato erotismo”, parlando di sesso esplicitamente e in modo sempre provocatorio, trasgressive fino alla ninfomania, refrattarie al dominio del pudore, del matrimonio, della maternità.
Le isteriche erano allora pericolose – e non soltanto per la cosiddetta (e allora tanto discussa, anche in ambito giuridico) “delinquenza isterica”.
Se la trasgressione è un gesto che concerne il limite, l’economia trasgressiva delle azioni isteriche oltrepassa sempre provocatoriamente col comportamento o col corpo, i confini segnati della “missione” della donna nella società. Ma c’è una sottile ambivalenza nella strategia che stigmatizza come “devianti” tali azioni: da un lato tale strategia compie una effettiva operazione di controllo e di “criminalizzazione” – dura o morbida – delle isteriche, ma dall’altro è costretta ad amplificare le loro azioni e dovere pubblicamente ammettere che esistono nella società comportamenti da parte delle donne che sono rifiuto, trasgressione, spregio, oltraggio a ciò che si assume come naturale: la famiglia, il matrimonio, la parentela, i figli, le istituzioni.29
L’isteria aveva in sé la connotazione morale negativa propria della follia morale.30 Ecco allora la stretta analogia con la follia morale, ecco l’analogia, fino alla piena sovrapponibilità, con la prostituzione. A caratterizzare le isteriche più di tutto era la cattiva condotta. Anche se le isteriche potevano essere giovani illibate, essere molto devote, avere tendenze mistiche, era pur sempre nella cattiva condotta che si trovava l’essenza (paradossale) dell’isteria. La sessualità isterica era vista come istinto aumentato, come una sorta di “straripamento” del desiderio. Il corpo isterico era un corpo ricolmo di sessualità. Michel Foucault, ne La volontà di sapere, parlando di una «isterizzazione del corpo della donna», avvenuta a partire dal XVIII secolo, si riferisce a un

«triplice processo con il quale il corpo della donna è stato analizzato – qualificato e squalificato – come corpo integralmente saturo di sessualità; con il quale questo corpo è stato integrato, per effetto di una patologia che gli sarebbe intrinseca, al campo delle pratiche mediche; con il quale infine è stato messo in comunicazione organica con il corpo sociale (di cui deve assicurare la fecondità regolata), lo spazio familiare (di cui deve essere un elemento essenziale e funzionale) e la vita dei figli (che produce e che deve garantire grazie ad una responsabilità biologico-morale che dura per tutto il periodo dell’educazione): la Madre, con la sua immagine in negativo che è la “donna nervosa”, costituisce la forma più visibile di questa isterizzazione».31

Una questione è oggi quella di continuare ad approfondire come questo modo provocatorio, teatrale, esagerato di esprimersi, di parlare, di gestire il corpo da parte delle isteriche, è stato visto e spiegato dagli psichiatri. Le parole isteriche erano sintomi. Le parole isteriche erano perdenti a priori, e per questo rimanevano inascoltate e non credute, e anche per questo spesso non venivano trascritte sulle cartelle cliniche.
Dovendo poi scegliere una sorta di caso esemplare fra le cartelle studiate, spicca senza dubbio quella di Maria G., ricoverata più di una volta a Venezia. Anch’essa prostituta, è entrata a 32 anni, per pazzia morale, nel 1876. Proveniva da un reparto ospedaliero, dove era in cura per la sifilide (e non per la prima volta). Ecco come appariva all’ingresso: dal carattere esagerato, esaltata, leggera, fatua, ride e canta. Facilmente irritabile, è una donna dalla «grande mobilità nervosa» e il cui senso morale fa difetto. Fa discorsi osceni. Ha «uno sguardo e un sorriso procaci». Ed ecco un giudizio sintetico del medico: «Ecco un altro di quegli individui che fu sempre e resterà sempre mezzo folle. Intollerabile di freno, caparbia, petulante, bugiarda, mutabilissima di propositi. Amante dell’ozio ed inclinata al mal fare fin dalla prima giovinezza, essa finì come dovea finire, meretrice». Più di una condanna. Eppure la donna uscirà «guarita», a novembre dello stesso 1876. L’anno successivo, in aprile del 1877, questa meretrice “miserabile” rientra, sempre con una diagnosi di follia morale (e di mania con delirio caotico), per un accesso di furore. Fra le cause della malattia: «isterismo e dispiaceri». Uscirà 11 anni dopo.

Riferimenti bibliografici

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Note:

1) Cfr. almeno F. Giacanelli, G. Campoli, La costituzione positivistica della psichiatria italiana in “Psicoterapia e scienze umane”, 3, 1973.
2) Cfr. R. Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, Franco Angeli, Milano 1985, Cesare Lombroso centro anni dopo, a cura di Silvano Montaldo e Paolo Tappero, Utet, Torino 2009.
3) Cfr. F. Paolella, Lo sguardo sui corpi in Lo sguardo psichiatrico. Studi e materiali dalle cartelle cliniche tra Otto e Novecento, a cura di Riccardo Panattoni, Bruno Mondadori, Milano 2009.
4) Sulla storia dell’isteria nell’Ottocento, cfr. in particolare: G. Roccatagliata, L’isteria. Il mito del male del XIX secolo, Liguori, Napoli 2001 (a cui rinviamo per i riferimenti bibliografici), F. M. Ferro, G. Riefolo, Figure dell’isteria: dall’invenzione francese alla clinica psicoanalitica, Metis, Chieti 1996, I. Veith, Histoire de l’hystérie, Seghers, Paris 1973.
5) Cfr. F. Paolella, Pericoli di carta. Sulla cartella clinica di Aldo F. in Parole e immagini dal manicomio. Studi e materiali dalle cartelle cliniche tra Otto e Novecento, a cura di Riccardo Panattoni, Bruno Mondadori, Milano 2011.
6) Cfr. in particolare: V. Fiorino, L’isteria: una questione di “coscienza”. Esempi dal manicomio di San Lazzaro di Reggio Emilia in Lo sguardo psichiatrico, cit., S. Cremonini, Gli archivi dell’isteria. Teoria e pratica psichiatrica fra Otto e Novecento in “Annali dell’Istituto storico-germanico in Trento”, XXII, 1996.
7) L’età delle donne, di cui ci siamo occupati qui, andava, al momento del ricovero, dai 12 ai 52 anni.
8) G. Roccatagliata, L’isteria. Il mito del male del XIX secolo, cit., p. 256.
9) “Criminologi, demografi, sessuologi e altri ricercatori cominciarono in questo periodo a studiare con fervore varie questioni che in precedenza erano state in gran parte considerate private e morali. Questo movimento accademico ebbe importanti implicazioni per le donne, in quanto, diversamente dal clero che si richiamava alla volontà divina e alla semplice tradizione, questi studiosi ritenevano di formulare tesi ispirate alla “modernità” e suffragate dalla scienza. Tuttavia molto loro idee non erano altro che semplici pregiudizi ostentati come scienza. […] I medici spesso consideravano patologici i comportamenti femminili che si scostavano dalla condotta che reputavano “naturale” (la norma della moglie borghese, consacrata alla maternità) e li attribuivano a malattie, come l’isteria” (P. Willson, Italiane. Biografia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 7-8). Cfr. V. P. Babini, F. Minuz, A. Tagliavini, La donna nelle scienze dell’uomo, Franco Angeli, Milano, 1986, e A. Tagliavini, La “mente femminile” nella psichiatria italiana dell’Ottocento in L’età del positivismo, a cura di P. Rossi, Il Mulino, Bologna 1986.
10) «Nel momento in cui questa diversità naturale [fra uomo e donna] viene misurata quantitativamente e rapportata allo schema fisso rappresentato dall’uomo come termine di paragone e quindi come norma – senza prendere in esame il problema del potere – questa ricerca non può che tradursi nella conferma del pregiudizio che vuole l’inferiorità sociale della donna, per mantenere la quale occorre la conferma scientifica della sua inferiorità fisiologica. In questo caso l’intervento sulle cose del positivista, l’analisi della realtà concreta (ciò che Lombroso definisce ‘la cieca osservanza dei fatti’), la misurazione quantitativa dei fenomeni restano un fatto staccato, a sé, che non serve minimamente a scalfire il pregiudizio da cui inizialmente partono e che automaticamente riconfermano» (F. Ongaro Basaglia, Introduzione a P. J. Moebius, L’inferiorità mentale della donna, Einaudi, Torino 1978, p. IX, corsivi nel testo). Cfr. V. P. Babini, A proposito della inferiorità mentale della donna in “Rivista di filosofia”, 24, 1982.
11) G. Roccatagliata, L’isteria. Il mito del male nel XIX secolo, cit., pp. 324-325.
12) Nella sua ricerca sulla epidemia di istero-demonopatie a Verzegnis, in Friuli, avvenuta alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento, lo psichiatra Fernando Franzolini discute così della isteria come malattia in ultima analisi femminile: “Gli uomini bene educati e di forte volontà, quelli in cui l’attività cerebrale è giustamente proporzionata alla attività spinale, questi non ammalano di isterismo; questi valgono a commisurare la propria resistenza nervosa alle cause che la vorrebbero soverchiare. Le abitudini sociali concorrono a produrre nella donna un raffinamento nella sensibilità fisica e morale: il lato naturale e materiale della esistenza tendendo a disparire dinnanzi al lato poetico, sentimentale. Il sistema nervoso, tenuto solo in attività, procaccia a sé quasi esclusivamente gli elementi nutritivi che il sangue fornisce, ed aggiunge per tal guisa un certo predominio materiale alla propria predominanza funzionale: i centri senzienti rinforzano d’avvantaggio l’azione loro, reagendo con intensità morbosa sui centri motori ed intellettuali. Nelle donne delle classi sociali inferiori, l’assenza di molte fra codeste condizioni viene compensata dall’abuso dei piaceri e degli eccitanti sensorii; nelle donne di campagna, dal grossolano misticismo” (F. Franzolini, L’epidemia di ossesse (istero-demonopatie) in Verzegnis in “Rivista sperimentale di freniatria”, 5, 1879, p. 143).
13) V. Fiorino, L’isteria: una questione di “coscienza”, cit., p 232.
14) “L’uomo è per intero nel suo desiderio. Predatore, egli sceglie, cattura e porta via. La donna invece subisce il desiderio dell’altro quanto il proprio, o piuttosto quello che in lei si manifesta. Indifferente e fredda in quanto persona, e più ancora in quanto personaggio sociale, perché madre, è invece puttana per natura, imprevedibilmente votata a darsi al primo venuto, preda d’improvviso di un desiderio insaziabile che non emana da lei ma dal sesso medesimo e che viene soddisfatto senza andare troppo per il sottile. E’ un pericolo d’indifferenziazione vorace che una lunga tradizione di barbarie si è sforzata di scongiurare a colpi di mutilazioni su quegli organi che veicolano l’incontrollabile; e, in questi tempi permissivi, risorsa ostentata, monotona, sul cartellone dei nostri schermi pornografici. Ma il famoso “continente nero” della sessualità femminile, il “mistero” che ancora costituirebbe il desiderio della donna per la scienza più avanzata del desiderio, non avrà a che vedere con il vecchio fondo mitico? Perché fare un “mistero” del desiderio femminile, se non ragione dell’impersonalità d’essenza che lo sottrarrebbe infine all’ascolto in prima persona? Come se, soggettivamente indecifrabile, ci rimandasse continuamente, al di là di colei che lo incarna, all’enigma delle sorgenti della vita” (G. Swain, L’anima, la donna, il sesso e il corpo in “Sanità, scienza e storia”, 1, 1985, p. 222).
15) Cfr. ad esempio M. Gadebusch Bondio, La tipologizzazione della donna deviante nella seconda metà dell’Ottocento. La prostituta, la criminale, la pazza in Per una storia critica della scienza, a cura di M. Beretta, F. Mondella, M. T. Monti, Cisalpino, Bologna 1996, N. Milletti, Analoghe sconcezze. Tribadi, saffiste, invertite e omosessuali. Categorie e sistemi sesso/genere nella rivista di antropologia criminale fondata da Cesare Lombroso (1880-1949) in “DonnaWomanFemme”, 1994, L. Valenzi, Donne, medici e poliziotti a Napoli nell’Ottocento: la prostituzione tra repressione e tolleranza, Liguori, Napoli 2000.
16) “Non tutte si sposavano. Per una donna, rimanere nubile era considerato un fallimento. […] La vita solitaria era un’alternativa difficile, data l’inferiorità giuridica delle donne e la loro capacità limitata di guadagnarsi da vivere. Nella pratica, ovviamente, poche delle diverse categorie di donne “sole” erano veramente sole. Nel 1901 il 13 per centro era capofamiglia e le altre in gran parte vivevano presso famiglie altrui. Le donne che vivevano effettivamente da sole erano soltanto il 4,9 per cento. Molte si ritrovavano ai margini della vita familiare e, pur continuando a fornire il loro contributo a una famiglia, rimanevano priva di autorità o influenza al suo interno” (P. Willson, Italiane, cit., p. 16-17).
17) Cfr. G. Pomata, Madri illegittime tra Ottocento e Novecento: storie cliniche e storie di vita in “Quaderni storici”, 1980.
18) Cfr. G. Fiume, “Madri snaturate”. La mania puerperale nella letteratura medica e nella pratica clinica dell’Ottocento in Ead., Madri. Storia di un ruolo sociale, Marsilio, Venezia 1995.
19) Cfr. C. Antonini, M. Buscarini, La regolamentazione della prostituzione nell’Italia postunitaria in “Rivista di storia contemporanea”, 1985; M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia 1860-1915, Il Saggiatore, Milano 1995; R. Villa, Sul processo di criminalizzazione della prostituzione nell’Ottocento in “Movimento operaio e socialista”, 1981.
20) Cfr. R. von Krafft-Ebing, Psycopathia sexualis, Enke, Stuttgart 1893. “L’approccio di Lombroso alla sessualità assomiglia a quello di un altro pensatore di transizione, lo psichiatra tedesco Richard von Krafft-Ebing. Entrambi raccolsero e catalogarono informazioni sulle pratiche sessuali “devianti”, anche se Krafft-Ebing fu più sistematico nella sua famosa opera, Psycopathia sexualis, pubblicata per la prima volta nel 1886. Entrambi sostennero un approccio obiettivo e positivista alla sessualità, ma al tempo stesso proclamarono moralisticamente che la monogamia era la norma. Entrambi attribuirono le deviazioni da questa norma alla degenerazione, e le considerarono pericolose per il futuro della razza europea. Krafft-Ebing condivideva con Lombroso anche l’interesse per le implicazioni giuridiche delle “perversioni” sessuali, che gli parevano da curare, piuttosto che da processare nei tribunali. Nessuno dei due psichiatri riteneva gli individui responsabili della loro sessualità deviante, perché pensavano che l’ereditarietà avesse avuto la meglio sul libero arbitrio” (M. Gibson, N. Hahn Rafter, Introduzione a C. Lombroso, G. Ferrero, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, et al. Edizioni, Varese 2009, p. 23-24).
21) P. Barbetta, I linguaggi dell’isteria. Nove lezioni di psicologia dinamica, Mondadori, Milano 2010, p. 28-29.
22) Cfr. R. Gattei, La sifilide: medici e poliziotti intorno alla “Venere politica” in Storia d’Italia. Annali VII. Malattia e medicina, a cura di F. Della Peruta, Einaudi, Torino 1984.
23) S. Cremonini, Follia morale e delinquenza isterica nelle perizie psichiatriche della scuola di A. Tamburini rintracciate in lavori a stampa e nelle cartelle cliniche dell’ex-ospedale psichiatrico “San Lazzaro” di Reggio Emilia, dattiloscritto, Reggio Emilia 1996, p. 15-16.
24) M. A. Trasforini, Corpo isterico e sguardo medico. Storie di vita e storie di sguardi fra medici e isteriche nell’800 francese in “Aut Aut”, 1982, p. 202.
25) Merita comunque una citazione il caso di Agnese C., una ragazza di 12 anni, ricoverata, con una diagnosi di frenosi isterica, nel 1885, e rimasta in manicomio per 5 mesi. Anche se la cartella non offre molte informazioni, vediamo come avesse iniziato ad avere fenomeni convulsivi dall’anno precedente al ricovero, mostran dosi irrequieta e minacciosa. Di più: “Ha presentato in principio dalla sua degenza in manicomio tre accessi […] francamente isterici”.
26) “Nessun disordine evidente nelle facoltà intellettive. Gli affetti come non esistessero. Il senso morale è veramente pervertito. È cattiva con le compagne. Bugiarda, infingarda. I suoi discorsi sono sconcissimi, intramezzati da qualche bestemmia”: questi i risultati dell’esame psichico su Teresa P., una meretrice ammessa a 32 anni in manicomio con una diagnosi di pazzia morale.
27) V. Fiorino, Matti, indemoniate e vagabondi. Dinamiche di internamento manicomiale tra Otto e Novecento, Marsilio, Venezia 2002, p. 151-152. “Non deve sorprendere che in certi casi mettessero la camicia di forza alle donne durante il periodo mestruale o che in alternativa fossero ‘fissate alla sedia’. Krafft-Ebing stabilisce infatti uno stretto legame tra pazzia periodica e mestruazioni. Più precisamente le anomalie delle mestruazioni possono dare origine a vere e proprie psicosi. Le mestruazioni regolari invece ad una pazzia periodica. Inoltre secondo Krafft-Ebing anche le malattie sessuale nella donna predispongono alle psicosi. Ciò non è riscontrabile nell’uomo, dove invece ‘le malattie sessuali hanno un ruolo causale assai piccolo’ nella predisposizione alla pazzia. Da parte sua un altro psichiatra, Giovanni Algeri, assistente al frenocomio di Reggio Emilia, sostiene che ‘la pubertà, il ricorrere dei mestrui, la menopausa sono altrettanti ostacoli che la donna deve superare e spesso in questa lotta l’intelligenza soccombe’” (S. Cremonini, Isteria femminile, teoria e pratica psichiatrica fra Otto e Novecento, tesi di dottorato di ricerca in storia, Università degli studi di Venezia, anno accademico 1993-1994, p. 88). Cfr. G. Algeri, Le frenopatie in rapporto alla mestruazione in “Archivio italiano per le malattie nervose”, 1884, p. 321-345.
28) “L’isteria si presenta come una sfida radicale al discorso medico: nella sua forma classica mostra una negazione, un vuoto, una faglia nel discorso medico, non ci sono segni nel cervello, si manifesta come una sintomatologia del corpo, ma senza segni organici. L’isterica diventa per la medicina anglosassone e per la psichiatria tedesca una simulatrice, ma lo fa così bene da essere distinta da ciò che oggi viene chiamato in inglese malingering. Il malingering si riscontra quando una persona vuole farsi pagare dall’assicurazione facendo finta di avere una malattia, l’isteria è l’esercizio di quella malattia, non è far finta. Si consideri per esempio la sordità simulata del malingering: se si fanno esami di verifica la persona viene sorpresa a simulare. L’isterica invece, nel momento in cui diventa sorda, lo diventa proprio come un vero sordo, diventa cieca come un vero cieco. Per questo si sosteneva che l’isterica era una simulatrice particolare, ingannava anche se stessa” (P. Barbetta, I linguaggi dell’isteria, cit., p. 28, corsivi nel testo).
29) M. A. Trasforini, Il codice isterico in “Dei delitti e delle pene”, 1, 1983, p. 150. Cfr. R. Brugia, Follia morale e delinquenza isterica, Tip. Lit. Democratica, Forlì, 1901.
30) “Animi radicalmente o organicamente guasti e corrotti, malati di una pazzia che nasce con loro e che portano ‘nel sangue, per così dire, nei nervi e nel cervello fino dall’utero materno’, figli di genitori affetti da epilessia, isterismo, nervosismo o semplicemente malvagi e viziosi (venere, crapula, concepimento durante l’ubria chezza), individui dal ‘temperamento ordinariamente nervoso, schietto o misto al bilioso’, magri e asciutti nel corpo, con occhi e capelli scuri, lineamenti marcati, sguardo mobile e vivo, passo concitato: così i folli morali” (V. P. Babini, La responsabilità nelle malattie mentali in Tra sapere e potere. La psichiatria italiana nella seconda metà dell’Ottocento, a cura di V. P. Babini, M. Cotti, F. Minuz, A. Tagliavini, il Mulino, Bologna 1982, p. 167).
31) M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano 1988, pp. 92-93.

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Immagine di copertina:
Tony Robert-Fleury, Philippe Pinel alla Salpêtrière, 1876 (particolare) – Hôpital Pitié-Salpêtrière.