«Il controllo totale può essere la morte per un’opera d’arte. La pietra parla. Questo è il mio lavoro. Troppe incognite! […] Una delle cose che la mia arte sta cercando di fare è comprendere la pietra»

[Andy Goldsworthy, dal documentario Rivers and Tides].

 

Quando giunsi qui per la prima volta, sapevo già verso quale luogo mi sarei diretto. È sempre così. Arrivato in una terra straniera, per carpirne lo spirito e fondermi in esso non mi rivolgo alla gente che lo abita, ma a tutto ciò che lo circonda. E proprio come un gioioso ritorno alle origini, fu l’acqua a chiamarmi. E io risposi.

Marano sul Panaro, in provincia di Modena, conta soltanto 5.250 abitanti. Il fiume che lo attraversa, il Panaro, è un affluente del Po che scende dagli Appennini tosco-emiliani e scorre per circa 148 km, raggiungendo persino, seppur per una piccola parte, la città di Bologna.

Il parco che il fiume attraversa è una dimensione parallela a quella cittadina. Il contrasto tra la wilderness e la città vera e propria viene evidenziato non soltanto dal fiume stesso, ma anche da un breve tunnel che da una delle strade principali porta al percorso naturale, scendendo come all’interno di una tomba neolitica, nel grembo materno della terra.

Camminai a riva, una infinita spiaggia di milioni di sassi di qualsiasi tipo e dimensione, portati qui dal fiume, forse per milioni di anni. Ognuna di queste pietre ha una storia da raccontare, scolpita su di essa. Ognuna di queste pietre è viva.

Sebbene fossi giunto qui in completa solitudine, fui sorpreso dalle numerosissime presenze che abitano il luogo, presenze che almeno agli inizi faticai a verificare se fossero opera della natura o dell’uomo.

Mi ritrovai così in ciò che mi apparve come un giardino Zen, o il centro archeologico di un antico culto pagano, o ancora, un set disegnato da Miyazaki.

Gli spiriti della pietra emergono, sorprendono il camminatore, da ogni angolo, su ogni superficie, verso qualsiasi direzione. Se camminate attorno a essi avrete la stessa impressione che ebbi io, credendo di avere incontrato degli esseri leggendari, sospesi tra questo mondo e l’altro, come le fate e gli gnomi che da piccolo ammiravo nei libri di fiabe, esseri con una loro volontà e un loro scopo.

Essi vivono in un equilibrio precario, ma allo stesso tempo eterno, come quello delle nostre vite. A dispetto del loro aspetto, vivono nell’aria, con leggerezza. Si direbbe quasi che la roccia stia volando. Appoggiate l’una sull’altra, sopra tronchi, scogli, piante, immerse nell’acqua, sulla sabbia, legate a delle corde, queste creature disegnano il territorio seguendone le irregolari inclinazioni, sembrano voler sfidare le leggi della stessa natura, rimettendo in discussione la natura stessa e il rapporto che ha con la specie alla quale appartengo.

Ma tutto questo è opera di un uomo. Su una delle pietre trovo scritto “La cattedrale a cielo aperto”. Su un’altra, “Land Art”. Su un’altra ancora, “Il guardiano del fiume”. Poi, un messaggio molto chiaro: “Se non amate l’arte almeno rispettatela. Grazie.” Vedo anche dei messaggi di gratitudine lasciati da alcune persone. Qualcuno qui ama l’arte.

Chi è questo uomo? Qual è la sua storia? Cosa lo porta a fare tutto ciò, a curvarsi sulla terra, immergere i piedi nell’acqua fredda del fiume, a sollevare queste pietre, alla sua età, già avanzata, almeno dal suo aspetto, in questa cittadina sperduta, apparentemente ignorata dal mondo?

È ovvio che questo uomo non è uno scultore. Uno scultore lavora direttamente la pietra nel cuore della sua materia, sottoponendola alla sua immaginazione, tentando di manipolare la sostanza come fanno gli elementi naturali, che erodono con la loro azione scogli o montagne, sostituendosi dunque a essi. Questo uomo invece pare più interessato a lavorare non sulla pietra ma con la pietra, nel vero senso della comunione, assecondando le sue forme, i suoi movimenti e il suo peso, studiandola. E studiando la pietra è probabile che debba inevitabilmente interrogare anche sé stesso, poiché tra le mani la pietra medita e restaura la sua posizione nel paesaggio, e ciò si riflette nello stesso artista che la lavora. In tal senso, è quasi come se fosse la pietra a lavorare l’artista. Questo è un grande esempio di come un paesaggio possa essere manipolato e valorizzato senza venire distrutto o spietatamente sfruttato, utilizzando gli stessi mezzi che mette a disposizione.

Incontrerò mai questo uomo? Qualcosa mi dice che è proprio lì, di fronte a me, adesso. Forse l’ho già incontrato prima. Curvo sulle pietre, snello, energico nonostante l’età, le mani ai fianchi, si gratta la testa, si guarda attorno, medita, analizza, controlla la stabilità delle pietre. Non vi è traccia di inquietudine o entusiasmo alcuno nel suo volto. Interamente immerso nel suo lavoro, come un vero operaio, non ha bisogno di sapere, di pensare alla natura della sua missione. Mi pare l’ombra di un soggetto più grande di lui. Mani invisibili lo muovono ed egli poi muove le sue sulle pietre, che stanno lì attorno come dei bambini, i suoi bambini, le creature delle quali ha deciso di prendersi cura, alle quali dona il suo tempo e le sue energie. Ogni tanto lo sento borbottare tra sé, forse impreca, bestemmia. Il fiume non è sempre clemente con le sue creazioni. Quando tornerà, potrebbe non trovare quel che ha lasciato. Molte saranno portate via, altre resisteranno. Allora lui cercherà di capire cos’è andato storto. Dovrà perciò pensare come pensa il fiume, e agire di conseguenza. Trasportato dal suo stesso impulso, torno spesso qui a vedere cosa è rimasto e cosa no. Se vedo che qualcosa resiste ancora, sono felice anch’io. Egli deve lottare di volta in volta non solo con il fiume, ma pure con il vento, la tempesta, nonché con la stupidità e l’indifferenza degli uomini.

Lo osservo ancora, da lontano, lo studio coi miei occhi di falco, come fossi un piccolo Herzog, alle prime armi. Penso già a un possibile documentario. Lui non sa niente di tutto ciò. Ha di meglio da fare. Non può perdere tempo. Avrei voglia di fermarlo, chiedergli qualcosa. Ma preferisco vederlo all’opera. Del resto, non sono un giornalista, non sono neppure uno scrittore, non sono nessuno. Cosa mai potrei chiedergli? Qualsiasi domanda potrebbe essere inutile. E lui comunque sa molto più di me. Il fiume sa ancora di più. Egli lo ascolta, forse, ascolta la sua voce funambolica suggerirgli il segreto dell’equilibrio, della continuità e dell’attenzione. Amare forse non è altro che avere attenzione. Qui la pietra è innamorata del vuoto, come il vuoto è innamorato della pietra.