Bridgerton, targata Shondaland e basata sui romanzi di Julia Quinn, è una delle serie tv più apprezzate degli ultimi tempi. Nonostante sia difettosa, proceda per incoerenze, buchi di trama, forzature e dialoghi affettati, con la sua seconda stagione ha battuto ogni record. In meno di un mese è diventata la serie in lingua inglese più guardata di sempre.
Ambientata durante gli anni della Reggenza inglese, narra la vita dei fratelli e delle sorelle Bridgerton, impegnati a garantirsi un matrimonio e una posizione privilegiata nell’alta società. Sembrerebbe una trovata poco originale, più che mai abusata. Ma è proprio questa cornice narrativa ad affascinare e intrattenere. La sua estetica pop è efficace, strizza l’occhio al Marie Antoinette di Sofia Coppola. Sfarzosità, prelibatezze, abiti alla moda, parrucche pastello, il tutto accompagnato da un pop orchestrale, ammaliano lo spettatore.
Allo sfarzo si aggiunge l’espediente del pettegolezzo. Il gossip accompagna da sempre le società umane, svolgendo una funzione di controllo sociale, di prevenzione del conflitto e della violenza.1 Questa pratica così importante per l’evoluzione umana è stata ben incanalata in Bridgerton attraverso l’anonima ma centrale Lady Whisteldown. Le sue cronache scandalistiche condensano i pettegolezzi in seno al microcosmo della corte della regina Charlotte, esponendone al pubblico ludibrio le componenti più esecrabili, secondo il sentire comune del tempo. Lady Whisteldown è invisa ai regnanti e stigmatizzata dagli uomini, che la accusano di ridicolo e superficialità. È invece apprezzata dalle donne, specie le più giovani e anticonformiste. Come osserva Rosaria Conte in Le virtù del pettegolezzo, questa pratica, nella storia, è sempre stata in mano alle donne. Non si tratterebbe di un mero luogo comune: il potere che deriva dal gossip consente di scardinare le gerarchie del potere. Si tratta di un’«aggressione protetta»:2 gli attori che ne fanno uso non detengono il potere né i mezzi per ottenerlo, partono da una condizione di svantaggio. Ma nel diffondere delle voci, in modo impersonale e anonimo, protetto appunto, riescono a ottenere una rivalsa senza ricorrere al conflitto aperto. Il gossip in Bridgerton s’inserisce agevolmente in un’ottica di emancipazione. E quest’impostazione è ancor più plateale nella messa in scena dei personaggi femminili.
Le autrici e le pensatrici femministe dell’epoca sono rivisitate in chiave pop e trasfuse nelle protagoniste della serie. Se in Penelope Featherington scorgiamo la Woolf di Una stanza tutta per sé, in Eloise Bridgerton individuiamo un proto-femminismo più sfacciato: la ragazza cita a più riprese Mary Wollstonecraft per poi spingersi verso un pensiero più radicale e sperimentare lo scontro di classe, una volta varcati i confini dell’alta società e instaurata una relazione fallimentare con un ragazzo della working class londinese. Infine, Kate Sharma, al centro della seconda stagione, è, nella sua forza e dignità, calcata sul modello janeaustiano di Elizabeth Bennet ed evoca quello shakespeariano di Caterina da Padova, la bisbetica irreprensibile già ben attualizzata nella commedia anni Novanta Dieci cose che odio di te. A proposito di Kate Sharma, occorre ricordare che la ragazza (e l’attrice che la interpreta) è indiana: come già accadde per Troy: Fall of a City della BBC e il musical Hamilton, Bridgerton si caratterizza per il color-blind casting: diversi interpreti hanno origini africane e asiatiche, senza che questo vada a creare occasione di conflitto o di critica sociale, con degli effetti contraddittori. Se da una parte vi è un’elevata rappresentazione etnica, dall’altra le questioni razziali e coloniali dell’epoca sono taciute.
I personaggi maschili non godono invece di un trattamento generoso: imbrigliati nelle gerarchie di classe e di genere del tempo, appaiono calcolatori, cinici, costretti a aderire al ruolo del maschio egemone, pena la perdita di una buona reputazione, sia come esponenti della nobiltà, sia come uomini. La carenza di empatia che ne deriva viene palesata nel rito del corteggiamento: cercare moglie, per duchi, visconti e nobili a vario titolo, è come puntare su un cavallo. Di conseguenza, le uniche relazioni che riescono a instaurare finiscono per mostrare dinamiche tossiche. Ciò accade sia a Simon, il Duca di Hastings, ripudiato da un padre che lo considera inadeguato al suo ruolo, e ad Anthony Bridgerton, a cui la seconda stagione è dedicata. Il visconte è orfano di padre, perciò costretto a tenere le redini della famiglia e unirsi, a tutti i costi, a una donna perfetta: un diamante. Per far ciò è obbligato a mettere da parte le proprie aspirazioni individuali nonché a estirpare tutto ciò che appartiene alla vita interiore e sentimentale, traportando le eventuali consorti entro un circolo vizioso e malsano.
Sarà ormai chiaro che Brigderton, provenendo dal genere letterario del romanzo rosa, è un prodotto votato al disimpegno. Si tratta di un genere che «nasce con lo scopo ben preciso di far evadere le lettrici dalla vita di tutti i giorni»: in un momento storico incupito da drammatici eventi storici, prodotti culturali di questo tipo permettono al pubblico di sperimentare leggerezza. Senza dimenticare l’effetto immedesimazione nelle dinamiche sociali narrate, che tendono all’universalità. È proprio questa capacità di suscitare stati di vicinanza e spensieratezza che potrebbe spiegare, in maniera quasi certa, la fortuna di Bridgerton.
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Note:
1) Rosaria Conte, Mario Paolucci, Reputation in artificial societies. Social beliefs for social order, Springer, 2002; Giuseppe Labianca, Daniel J. Brass, Exploring the social ledger. Negative relationships and negative asymmetry in social networks in organizations, «Academy of Management review», 31, 2006, n. 3, pp. 596-614.
2) Conte, R. (2011), Le virtù del pettegolezzo. Storia Delle Donne, 6(7), 31-45.
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Immagine di copertina:
fotogramma da Chris Van Dusen, Bridgerton, Netflix, stagione 2, 2022.