Negli anni Trenta del secolo scorso, a Londra, un primatologo inglese di nome Solly Zuckerman, formulò la teoria della gerarchia della dominanza. 1 Zuckerman aveva studiato il comportamento dei babbuini e ne aveva dedotto una regola, quella appunto, della dominanza, che aveva poi esteso anche a scimpanzé e bonobo. Secondo questa teoria i babbuini vivono in tribù organizzate secondo rigide gerarchie nelle quali si trovano da una parte i dominati e, dall’altra, il maschio-alfa dominante. Anche quando il comportamento dominante non era così chiaro, i primatologi parlavano di dominanza latente. Insomma, la gerarchia c’era anche quando non si vedeva. Questa teoria rimase in piedi per diversi decenni, collimando, tra le altre cose, con un’epoca guerresca caratterizzata da violenze e dittature, ma rimase in voga anche successivamente, nel dopoguerra, sia nel mondo scientifico sia nell’opinione comune.
Occorre arrivare agli anni Settanta per trovare i primi ricercatori, e soprattutto ricercatrici, che si azzardano a criticare questa teoria e, in particolar modo, a mettere in dubbio le modalità di osservazione nelle quali la teoria era stata elaborata. Il primatologo inglese, infatti, aveva studiato i babbuini allo zoo di Londra, nel quale almeno un centinaio di esemplari provenienti da tutto il mondo era stato chiuso in una gabbia, osservato litigarsi il cibo e formare, in via delle circostanze diremmo oggi, una rigida gerarchia per la sopravvivenza in un ambiente nuovo e angusto. I nuovi ricercatori iniziarono così ad osservare le specie nel loro ambiente comune e scoprirono che non solo la teoria della dominanza non aveva nessun fondamento, ma che, all’opposto, le tribù di babbuini vivevano in sintonia creando legami e relazioni egualitarie anche tra i sessi.
Tuttavia, nonostante l’osservazione sul campo sia stato un decisivo passo avanti, anche questa generazione di studiosi non rinunciò alla ricerca insistente di un principio primo, di un quid specifico, un modo di essere proprio della specie osservata. Si continuava, insomma, a osservare animali relegandoli in questo termine che da tempo aveva perso il significato originario di essere animato, organismo vivente dotato di moto e di sensi, derivato del latino anima.2 Uno spostamento di significato che, almeno in occidente, inaugura quel ciclo maledetto di cui parlava Lévi-Strauss,3 ovvero quella netta separazione, quella frontiera tracciata per escludere gli altri dalla sfera dell’umanità. Da quel momento animali erano diventati tutti i non umani, ed erano tutti indistintamente racchiusi in un comodo termine che li rendeva indistinti, e che ha prodotto rapporti basati sulla violenza, l’esclusione, lo sfruttamento.
Se per lungo tempo il mondo degli animali non umani, come si dice più correttamente oggi, è stato ignorato dalla filosofia e dalla scienza, fino ad arrivare all’assolo cartesiano di un mondo animale che, non solo è dotato di una ragione inferiore rispetto a quella umana, ma di ragione è del tutto sprovvisto 4, quando la scienza prese ad interessarsi degli altri, dei non umani, lo fece con questo spirito di osservazione oggettiva che non produsse molti cambiamenti nel rapporto che gli animali umani intrattenevano con i non umani. Si continuò insomma, e si continua ancora, a sfruttare, a uccidere, anche su larga scala, considerata la sesta estinzione di massa che stiamo attraversando, o meglio, che moltissime specie di animali non umani stanno subendo: dal 1500 ad oggi, infatti, si sono estinte oltre 200.000 specie viventi.5
Oggi molti studiosi, provenienti da diverse discipline, stanno provando a ricucire lo strappo. Basti pensare, solo per citarne alcuni in ordine sparso e disparato, alle ricerche della filosofa francese Vinciane Despret, la quale negli anni ’80 scrive una tesi sul canto degli uccelli dalle conclusioni sorprendenti: il canto degli uccelli disegna territori di coabitazione e non è, come si pensava fino a non molto tempo prima, una forma di conquista o dominazione. Attraverso le sue indagini Despret prova a ridare dignità alla complessità del mondo degli animali non umani indagandone i comportamenti ed esaltandone il carattere multiforme e complesso. Non paga di un approccio da studiosa, la filosofia francese si è poi spostata sul terreno del racconto scrivendo una narrazione di anticipazione (Autobiographie d’un poulpe et autres récits d’anticipation, tradotto in italiano da Contrasto con il titolo Autobiografia di un polpo e altri racconti animali) in cui, prendendo spunto da un racconto di Ursula Le Guin, The Author of the Acacia Seeds (1974), immagina una comunità di specialisti del linguaggio animale, geolinguisti e terolinguisti, che traduce quello che i ragni gridano attraverso le loro onde, o decifra gli aforismi che i polpi tracciano con l’inchiostro sulla ceramica. Racconta di come i Vombatidi, appartenenti alla famiglia dei marsupiali australiani, abbiano ospitato nei loro territori scavati nella terra le specie che fuggivano dai mega-incendi che hanno devastato l’Australia nel 2019. La narrazione qui si spinge oltre le soglie della ricerca scientifica per farsi immaginario di mondi viventi e produrre effetti di sensibilizzazione, di convivenza, di gioia. Sono squarci sul dopo, immaginazioni come cassette degli attrezzi e utilità presenti e future.
Sempre sul terreno della filosofia troviamo Baptiste Morizot (in italiano è stato pubblicato Sulla pista animale da Nottetempo – si veda anche qui – ma i suoi scritti su nuove forme di un abitare diplomatico sono più numerosi), il quale attraverso pistage praticati in situazioni di inforestamento, ovvero di attraversamento di boschi e foreste dai quali siamo allo stesso tempo attraversati, rintraccia modalità di agire del lupo che sono forme di diplomazia abitativa. Qui l’osservazione si ribalta nel suo opposto, nel divenire osservati. Seguendo le tracce del lupo Morizot finisce per rendersi conto che è il lupo a seguire lui e a disegnare territori di coabitazione e reti diplomatiche con gli altri viventi che abitano quei territori. Il racconto di queste avventure nei boschi del Var, una regione nel sud della Francia, o nel parco di Yellowstone è il racconto di un’avventurosa esplorazione in territori inesplorati, nel tentativo di stabilire nuove e future forme di coabitazione, nuove relazioni tra animali umani e non umani in un mondo sempre più segnato da catastrofi, siccità, pandemie.
Su un fronte che coinvolge ancora di più il non umano e l’umano si iscrivono i monumentali lavori del biologo Carl Safina (Al di là delle parole e Animali non umani, entrambi pubblicati da Adelphi) i quali indagano il rapporto che lega, tramite l’evoluzione, gli animali umani ai non umani. In una serie di racconti immersi in paesaggi differenti, Safina ci accompagna in mondi dotati di intelligenze, coscienze e visioni con i quali condividiamo tratti evolutivi fondamentali, come quel cervello antico, magazzino di emozioni e reazioni, e allo stesso tempo questi sono mondi alieni, siderali, altri. Safina prova, e riesce, a liberarsi della diceria secondo la quale l’intelligenza, la cultura, il linguaggio, la tecnologia, sarebbero appannaggio del solo mondo umano e ci mostra, quanto, al contrario, animali non umani siano dotati di caratteri e intelligenze anche sofisticatissime, come sonar, linguaggi, colori, bellezza.
Considerato che fino a questo punto abbiamo parlato solo di narrazioni che nascono al di fuori del ristretto campo letterario, viene da chiedersi dove si posizioni, o se si posizioni in qualche modo, la letteratura negli approcci e nelle ricerche intorno all’animale non umano e al rapporto che questo intrattiene con l’umano. Perché, se, come abbiamo già detto, per secoli la filosofia e la scienza hanno escluso il mondo non umano dai loro interessi era stata proprio la letteratura ad interessarsene per prima e maggiormente. Da questo punto di vista le narrazioni in forma di favola di Esopo, Fedro, ma anche di La Fontaine, hanno avuto il merito di spostare l’attenzione dal solo mondo umano verso altri mondi, soprattutto mettendo in luce il fatto che l’umano non è il solo a possedere linguaggi. Certo questi autori lo hanno fatto come potevano, caratterizzando animali non umani come se fossero umani. Il tutto coronato da scopi didattici ed educativi che in Esopo, per esempio, culminavano nella celebre espressione o mythos deloi oti: la favola insegna che. E però qui la letteratura era stata comunque un passo avanti a tutti, andando a pescare in un crepa che fino a quel momento altri disdegnavano.
Ora, se oggi la letteratura volesse riprendere la via della favola esopica, cosa che, come vedremo fra poco, è accaduta di recente, non ci sarebbe nulla di male, anzi, di materiale se ne troverebbe in abbondanza, andando poi a leggersi, a studiare e a vedere quello che accade negli altri ambiti, ma qui bisogna vedere quanto ognuno sia disposto a uscire dal proprio orto (di agricoltura tradizionale, perlopiù) e avventurarsi in terreni inesplorati, ma neppure tanto, perché, come già abbiamo visto, di studi e osservazioni oggi ce ne sono parecchi. Se anche solo volessimo limitarci alla questione del linguaggio, che è la materia prima della tradizione letteraria, basterebbe dare un’occhiata, anche veloce, all’interessantissimo libro di Eva Meijer, Linguaggi animali. Le conversazioni segrete del mondo vivente (Nottetempo), nel quale l’autrice ci accompagna attraverso i più recenti studi intorno ai linguaggi di diverse specie animali. Non si tratta di letteratura scientifica, poiché Meijer è di formazione filosofa, ma è proprio materia letteraria, nella quale i più recenti esperimenti linguistici vengono narrati uno dopo l’altro e raccolti in una specie di diario di viaggio e di osservazione. È materia che aspetta solo di essere utilizzata, viene da dire, offerta gratuitamente a una letteratura che, soprattutto in Italia, oggi è perlopiù dormiente, o, peggio, replicante dei fasti che furono.
Un recentissimo esempio di questi tempi andati, antichi fasti di una maestria virtuosa che, da sola, nell’epoca antropocenica che stiamo vivendo, è fuori tempo massimo, è il romanzo di Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti (Sellerio), vincitore dell’ultimo premio Campiello. Il romanzo racconta la storia di Archy, una faina, narratore e protagonista della storia, del quale seguiamo le vicende, insieme a quelle della sua famiglia e degli altri abitanti del bosco. Archy è zoppo e viene venduto dalla madre a Solomon, una vecchia volpe (usuraio che parla in ebraico, tanto per non uscire dai seminati) e da una vita fatta di freddo e privazioni incomincia pian piano la sua formazione al seguito di Solomon, il quale gli insegnerà a leggere, a scrivere e lo inizierà alla parola di Dio. Dall’incontro con la volpe in avanti si instaura una dicotomia sempre più netta tra umano e animale (torniamo per un momento alla vecchia terminologia, dovendo parlare di una vecchia dicotomia) che culminerà nella consapevolezza lirica (e un po’ ingenua) di Archy il quale, scrivendo, sente di essersi liberato dal peso della morte. Un romanzo di formazione insomma, o di emancipazione, senza che si capisca esattamente da che cosa ci si emancipa e soprattutto che cosa egli acquisisca. O meglio, è chiaro che l’emancipazione è quella da un mondo animale, quello degli abitanti del bosco, dipinto come un mondo crudele, freddo, fatto di fame e di violenza, mentre il mondo di Archy e di Solomon sarebbe un mondo per gli iniziati alla parola di Dio, per coloro che hanno acquisito pensiero, parola scritta e parola letta. Un mondo più umano, insomma. Quello di Zannoni è un romanzo che, come qualcuno ha già fatto notare, è ben costruito, molto ben scritto, anche ambizioso nei temi che tenta di indagare, ma che inciampa, non poco, nel voler restare chiuso dentro a un modello che pensavamo ormai superato, quello dell’antropomorfizzazione, quello degli animali che parlano la lingua degli uomini, dormono in letti, preparano da mangiare in cucina, vivono in tane illuminate da lampade e si indebitano dagli usurai. Senza parlare, poi, della scissione netta tra il mondo degli animali del bosco e quello emancipato dei due protagonisti. Gli uni assomigliano pericolosamente a une idée reçu di mondo animale che si trascina dietro tutta una serie di correlativi oggettivi ormai abusati e gli altri sono allegorie di un umano triste ma comunque pensante, illuminato.
Le caratteristiche antropomorfe non sono però un problema di per sé, perché, se prendiamo ad esempio il linguaggio e ci spostiamo su un altro testo pubblicato di recente ritroviamo più di un animale parlante nella favola in versi scritta da Matteo Meschiari e disegnata da Rocco Lombardi C’era la taiga c’era un incendio (Logos edizioni). E il linguaggio che vi ritroviamo è quello umano, certo, quello fatto di lettere parole e segni tracciati, ma qui l’elemento di novità è la visione pervasiva di una vitalità e agentività di tutti gli elementi del mondo che l’autore riesce ad infondere attraverso la narrazione favolistica. In questa ballata non ci sono gli altri, non ci sono realmente animali che parlano, c’è la Terra tutta che brucia e ciascuno si prodiga come può, c’è la Terra che sogna, alla fine, e che ci lascia sentori di vita in mezzo al puzzo di fumo, in mezzo al nero l’isola è là, coperta di cenere ma salva. Anche il modo qui è cruciale, la ripresa di una metrica che può essere fatta risalire all’Edda e una parola poetica e schiva che traccia schegge di movimento e azione, le quali vogliono rimandare a reali modalità di sopravvivenza. Il buio degli animali del bosco qui è, al contrario, una luce illuminante, e a nessuno viene in mente di emanciparsi da alcunché perché non c’è proprio niente da emancipare. Semmai qui l’emancipato è parte in causa della distruzione.
Certo la parola poetica ha spesso uno spazio di movimento più ampio di quella romanzesca, oggi incastrata in forme tradizionali che ne limitano la portata immaginativa e dunque sovversiva. E tuttavia tocca citare ancora una volta Meschiari, il quale, questa volta in un romanzo (anche favolistico), L’ora del mondo (Hacca) fa parlare creature mezzo animali e mezzo uomini e le fa interagire con una bambina nelle Terre Soprane dell’Appennino. Qui i mezzo-animali (l’uomo-somaro, l’uomo-salamandra, l’uomo-ramarro ecc.) sono un ulteriore passo di lato che la letteratura prova a compiere per mescolare le carte e attraversare quella faglia dolorosa che l’umano ha inaugurato a detrimento di tutta la Terra. In questo romanzo, insieme a tempi e spazi che si mescolano, anche umano e animale si fondono in una serie di creature alleate per ritrovare, con l’aiuto di Libera, la bambina, il Mezzo-Patriarca perduto, colui che può salvare le Terre Soprane e aggiustare le cose. Sempre per via di narrazioni che provano a ricucire gli strappi.
Nulla di tutto ciò si ritrova nella favola esopica di Zannoni, il quale, al contrario, si guarda bene dal saltare il fossato e, anzi, lo ricalca per bene. Così, il lettore non può che farsi trascinare da una scrittura precisa e lucida come il pelo della donnola che sta in bella posa sulla copertina del libro. Chiusa dentro a una cornice, sfondo elegante, richiamo di dame ed ermellini (più o meno impagliati) e presagio di un’osservazione da primatologo allo zoo, che viene da ripensare, con nostalgia, alla donna-salamandra con colibrì rosa-argenteo, copertina di un altro recente romanzo di animali umani e non umani, Colibrì Salamandra di Jeff Vandermeer (Einaudi).
In un’epoca di ridefinizione dei territori, di estinzioni giornaliere di specie animali che non esisteranno mai più, in un’epoca nella quale, dopo che l’umanità ha creduto di potersi emancipare dalla zona critica nella quale invece siamo tutt’ora immersi, tra la Terra e l’atmosfera, ci siamo ritrovati sideralmente lontani da tutto il vivente e, allo stesso tempo una parte dell’umanità si è prodigata per annientarlo, ecco in quest’epoca non sono sicura che la letteratura possa ancora permettersi la comodità delle vie tradizionali, delle allegorie semplici, del disimpegno e del restare al di qua della barricata, e non debba invece trovare il coraggio di gettarsi nella faglia. Recuperare il tempo passato allo zoo è possibile, direi necessario, ma occorre guardare altrove, a chi sta già lavorando per il dopo, per la Terra, per tutti, perché è questa l’unica forma di emancipazione necessaria oggi.
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Note:
1) È possibile ritrovare la ricostruzione della genesi della teoria della dominanza nell’opera della filosofa francese Vinciane Despret, in particolare in, Quand les mâles dominent… Controverses autour de la hiérarchie chez les primates in Ethnologie française 2009/1 (vol.39), p.45-55 (Quand les mâles dominaient… | Cairn.info).
2) Si vedano le voci nel dizionario Treccani: https://www.treccani.it/vocabolario/animale1 e https://www.treccani.it/vocabolario/animale2/.
3) «Mai come alla fine degli ultimi quattro secoli della sua storia, l’uomo occidentale ha potuto comprendere che, arrogandosi il diritto di separare radicalmente l’umanità dall’animalità, accordando alla prima tutto ciò che negava alla seconda, apriva un ciclo maledetto, e che la frontiera stessa, costantemente spostata in avanti, serviva ad escludere gli uomini da altri uomini, e a rivendicare, a beneficio di una minoranza sempre più ristretta, il privilegio di un umanismo corrotto, appena nato proprio sotto il segno dell’amor proprio come suo stesso fondamento». Liberamente tradotto da Claude Levy-Strauss, Anthropologie Structurale Deux, Pocket, Collection Agora, Paris, 2003, p.220 (tradotto in italiano per il Saggiatore con il titolo Antropologia strutturale due).
4) Si veda la teoria dell’animale-macchina presentata nella quinta parte de Il discorso sul metodo nella quale Cartesio si domanda se l’animale sia dotato o meno di una coscienza. La risposta negativa a questa domanda lo porta a ridurre gli animali a semplici automi e ad evadere qualsiasi questione etica a riguardo. Il tema è ripreso dal filosofo francese anche nella lettera al Marchese di Newcastle del 1646 (che è possibile leggere qui). Occorre precisare che la scienza dell’epoca fece ampia incetta della teoria cartesiana usandola e abusandola a proprio piacimento.
5) Conferma arrivata dallo studio di Cowie R.H., Bouchet P., Fontaine B., The Sixth Mass Extinction: fact, fiction or speculation?, in Biological Reviews, 97(2), 2022, pp. 640-663.
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Immagine di copertina:
Piero di Cosimo, Incendio nella foresta, c. 1505 – Ashmolean Museum, University of Oxford