«(…) la carne si faceva verbo», è l’estratto di un verso di Roberta Dapunt, da un testo che Gianni Ruscio ha posto integralmente in esergo alla sua ultima raccolta poetica edita: Mutazioni (Terra d’ulivi, 2022); una raccolta che, nella sua prima parte (prima mutazione), espone appunto, come su un banco di macelleria, una sovrabbondanza di “carne verbale” («quarti di corpo», «fette», «interiora», «viscere», «carcassa», «brandelli», «bile», «sangue») e di ordinari strumenti della mattanza («gancio», «affettatrice», «bilancia»…) che è qui tutta umana, dell’umano smembrato, spezzettato, divoratore e divorato:

«(…) Crudeltà è la parte
più affascinante per noi che
seppelliamo brandelli di carne
dentro la bocca, e defechiamo stragi» (p. 10).

Gianni Ruscio, Mutazioni

«Ruscio ci fa assistere ad un rito di passaggio», un rito «della nascita», scrive giustamente nella postfazione Giulio Maffii e, come in ogni nascita rituale, l’incontro con la morte è inesorabile, assumendo in questo caso la forma dello sbranamento dionisiaco («prendiamo parte alla danza del crudo/e del dissanguato», p. 14). Quel che però per me i testi della prima mutazione hanno spalancato è un altro sfondo antropologico, sfondo che so essere in qualche modo familiare anche all’autore. Ruscio riecheggia infatti l’indicibile e paradossale Vacuità buddhistica: «(…) siamo masse di niente che viene/ dal niente niente tutto/pieno pieno tutto vuoto/straripante di sperma/straripante di mente» (p. 12), nonché l’illusorietà del soggetto individuale, quell’io perennemente asservito a brama e ad avversione:

«Crediamo follemente che il suono
io
sia il nostro esserci
la nostra identità umana.
Crediamo follemente che
sia verità incontrovertibile
accenno divino al cospetto
del sacrificio dell’ammanco.
Ma in verità questo io
non è altro che illusione
un pezzo di carne
che ci rende labili dinnanzi
alla menzogna degli attaccamenti
su cui noi fondiamo la nostra
vita intera. Nulla esiste
di questo ego che celebriamo
di questa persona che crediamo
di essere» (p. 25).

Ed è quasi come se egli volesse suggerire una consapevolezza del dramma saṃsārico che si sta per consumare alla nascita, a ogni nascita.

«In caso di unione di seme maschile e sangue femminile si origina l’embrione. Egli cresce nel ventre come cresce la luna in cielo. In cinque giorni, diventa una bolla; in quattordici, una mistura di carne e fluidi; in venti, gradualmente, si fa spessa carne; in venticinque, si rafforza; quindi, continua a crescere. All’ottavo mese, la totalità delle membra si è formata; all’inizio del nono il feto è completo. All’interno del ventre sono da lui ricordate le molteplici esistenze nel saṃsāra; di conseguenza, oppresso, egli si deprime e disgusta. A tempo debito egli viene alla luce; uscendo soffre e, quand’è uscito, grida per il dolore. Quindi māyā, l’incantatrice, lo assale e, confondendolo, gli fa smarrire la conoscenza. Egli permane in tale stato nell’infanzia, poi attinge giovinezza e vecchiaia. E dunque eccolo subire nuova morte, nuova nascita» (Garuḍa-purāṇa, II, 32).

Non è un caso, forse, che proprio Crediamo follemente che il suono io si trovi al termine della prima mutazione (perfetta sarebbe stata la sua collocazione come ultimo anziché penultimo qual è) e apra così alla “seconda”, che in esergo reca proprio il verbo «reincarnare».
Ma da dove si origina il divoramento? Dalla fame, «coltello (…)/ incorruttibile sguainato» (p. 12), e la fame accomuna i vivi e i morti. Nel rituale funebre indiano, il defunto deve essere nutrito affinché il suo corpo sottile possa formarsi grazie al cibo ricevuto:

«Il corpo del preta (il trapassato) si costituisce in nove giorni. Con l’offerta del primo piṇḍa (il bolo, la polpetta di riso bollito) si forma la testa; col secondo: orecchie, occhi e naso; col terzo: collo, spalle, braccia e petto; col quarto: ombelico, pene e retto; col quinto: gambe e piedi; col sesto: tutti gli organi vitali; col settimo: i canali sottili; con l’ottavo: denti e peli; col nono: il seme virile; col decimo: l’interezza è attinta e la fame estinta» (Garuḍa-purāṇa, II 5, 33 sgg.).

La parola piṇḍa indica però anche una fase di sviluppo dell’embrione umano, e solo la sposa del figlio del defunto, insieme ai sacerdoti officianti, è autorizzata a nutrirsi dell’offerta funebre qualora desideri concepire un figlio. Sono quindi i vivi a mangiare vicariamente, al posto e a beneficio dei morti, i quali si “installano” nei loro stomaci e partecipano così al banchetto. I vivi si nutrono e nutrendosi nutrono i morti, ne “costruiscono” i nuovi corpi. Nei testi di Ruscio accade che il corpo morto e smembrato si faccia oblazione, a beneficio della vita nuova, e come direbbero gli hindū, venga divorato, o meglio, “cotto” sulla pira dal fuoco Jātavedas.

«Il corpo mutato in oblazione subisce una complessa trasformazione al termine della quale è contemporaneamente offerto ai Mani, sparso per l’universo, (…) e infine ricomposto e perpetuato nella sua progenie». 1

Ed è proprio il fuoco, insieme alla sfera semantica del fulgore, a dominare la seconda mutazione: «fiammelle», «Via Lattea», «stella», «bagliori», «luminosissimo»… La vita nuova, l’eccedenza dei Due, ha visto la luce, al termine di una gestazione che, sempre restando in India, è intesa (alla stregua dell’incinerazione del defunto) come una “cottura” metaforica. Nel grembo-altare è avvenuta la trasformazione, la «mutazione» alchemica generatrice del figlio. La madre è «l’abbacinante bacino che tutto allatta» (p. 31), la bocca non è più divorante ma baciante; le costole non sono più delle ossa esposte su un bancone e adesso tra i loro spazi possono nascere canzoni; l’afrore della carne ha ceduto ai profumi verdi, vegetali.
«Il verbo del senso», come già Ruscio ci aveva solo sussurrato in un testo della prima mutazione (p. 22), può infine, scaturire dal «seno», e forse annullare, nell’«espansione del cuore», sotto «il lenzuolo/ bianco/ della delicatezza», la convinzione di essere solo «inutili gesti/davanti alla giuria smidollata/della vicenda umana/ che ci rende ciechi e per la quale abbiamo abbandonato/ l’odore del neonato» (p. 18).
Un po’ come accadde nel mito: la furia distruttiva, la sete di sangue e di strage della dea Kālī infine placate dal pianto di un infante.

Sorprendentemente, Ruscio ed io abbiamo in comune un’immagine messa in versi: quella del tempo arrotolato. Lui l’ha usata per una nascita, io per una morte. Un’immagine precisa.
E, meno sorprendentemente, Jeff Buckley.

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Note:

1) A. Pelissero, Sul simbolismo spaziale dei riti funebri indiani, in Luoghi dei morti (fisici, rituali e metafisici) nelle tradizioni religiose dell’India, Edizioni dell’Orso, 2005, p. 66.

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Immagine di copertina:
© Silvia Bigi, Il sangue e il latte, 2017