«Mi pare evidente che la semplice esistenza del modo di dire “avere la testa tra le nuvole” mi abbia impedito di scrivere ciò che invece mi avrebbe descritto con tanta precisione, me e insieme a me il mutevole spettacolo che ho più spesso e con maggior piacere contemplato, quasi in ogni epoca della mia vita (salvo forse negli ultimi tempi, e probabilmente è proprio per questo che lo noto): la circolazione delle nuvole» (Henri Michaux, Passaggi, p. 116).
Il mutevole spettacolo di cui scrive Michaux è l’incanto infantile dinnanzi alla trasformazione inarrestabile delle forme che tutti noi, non solo da bambini, abbiamo sperimentato e continuiamo a sperimentare. Talvolta, tra le brecce della faticosa e opprimente routine quotidiana, un paesaggio o un orizzonte penetra quasi con violenza la nostra percezione delle realtà, che scopriamo essere molto limitata dai labirinti burocratici delle parole e dei concetti. Basta un riflesso, una luce, un’ombra, un dettaglio finora ignorato, e improvvisamente si compie di nuovo il miracolo perduto. Ci ritroviamo in quella terra sacra dove vivono in eterno non solo i nostri sogni ma anche quelli di tutto il mondo, di tutti gli esseri. È la stessa terra della nostra infanzia, terra tanto paurosa quanto eccitante, in cui il mistero e la fede convivono pacificamente e la transitorietà della natura è ancora fonte inesauribile di meraviglia.
Questa è dunque la terra dove nulla mai si esaurisce, dove morti, vivi, animali, umani e divinità sono la stessa cosa e il tempo non è una linea retta ma un cerchio. Non vi è davvero alcuna idea di Progresso o Cultura, nel senso in cui li intendiamo. Come nel Dreamtime degli aborigeni australiani descritto appassionatamente da Bruce Chatwin, è difficile dire dove inizia il sogno e finisce la realtà. Perché il Dreamtime è un modo di abitare la terra che non conosciamo più, è una mappa che di volta in volta abbiamo dimenticato, sepolta nei secolari archivi della civiltà moderna. Fortunatamente, artisti, scienziati e visionari di ogni epoca hanno cercato di mantenere viva questa energia, o facoltà, portando alla luce nuovi immaginari in quei momenti difficili e decisivi dell’umanità che l’antropologo Ernesto De Martino ha definito «crisi della presenza». Oltre al già citato Michaux, uno dei più grandi esploratori di queste terre selvagge è sicuramente Lorenzo Mattotti, una delle figure più autorevoli del fumetto italiano.
Nel 2017 Mattotti pubblica, con Logos Edizioni, Ghirlanda. Scritta e disegnata assieme a Jerry Kramsky nell’arco di un decennio, ha ricevuto il Premio Gran Guinigi come migliore graphic novel di quell’anno. Ghirlanda non è soltanto una graphic novel, è una vera e propria esperienza, acuita ancor di più dalle imponenti dimensioni della granitica edizione cartonata e dalla qualità eccezionale della carta, che permettono al lettore un’immersione completa e profonda nell’opera. All’inizio del racconto si legge: «Questo libro è dedicato ai mondi fantastici dei Moomin, di Moebius e di Fred» (p. 12).
Non sono solo gli artisti qui sopra citati quelli ai quali Mattotti deve la realizzazione dell’opera. Ghirlanda è una enorme enciclopedia mitologica, nella quale il lettore può divertirsi a cogliere le innumerevoli citazioni e i rimandi ad altre opere classiche. Ovidio, Omero, Apuleio, Dante, Tolkien, Miyazaki, Borges, Gaiman, i fratelli Grimm, Carroll, i bestiari medievali, le leggende e i riti contenuti ne Il ramo d’oro. Ogni paura, desiderio, sogno e incubo umano è qui rappresentato e vissuto dai Ghir, «un popolo di esseri pacifici, che amano contemplare le magie del territorio con il loro stupore di bambini antichi» (p. 13).
I Ghir non possono non ricordare una di quelle popolazioni bizzarre di cui Michaux, altra grande influenza nell’immaginario di Mattotti, scrive nel bellissimo Altrove. «Il loro stupore di bambini antichi» è lo stupore di quegli sguardi descritti dallo stesso Michaux in un suo intenso capitolo dedicato all’infanzia:
«Sguardi dell’infanzia, così particolari, ricchi di ciò che ancora non sanno, ricchi di vastità, di deserto, grandi per nescienza, come un fiume che scorre (l’adulto ha venduto la vastità in cerca dell’orientamento), sguardi non ancora legati, densi di tutto ciò che gli sfugge, pregni dell’ancora indecifrato» (Passaggi, cit., pp. 40-41).
Proprio le immagini del fiume che scorre e delle nuvole che circolano sono le più adatte per parlare dell’arte di Mattotti. Grande spazio è lasciato alla vastità, poco all’orientamento, ma perdersi è bello, anzi, è necessario. L’imprevedibilità del paesaggio e delle forme di vita che vivono in esso si oppongono alla pace e all’ozio dei Ghir, che all’inizio della storia «erano rannicchiati nella frescura e stavano facendo, tutti insieme, il medesimo sogno» (p. 13).
La pace, tuttavia, dura poco. Tutto comincia con la scomparsa di Cocciniglia, moglie di Ippolite, che porta in grembo il suo bambino. Ippolite è il figlio di Zacaria, lo sciamano del villaggio. Sarà proprio Zacaria a interpretare le apparizioni degli spiriti ai quali i Ghir assistono, presagendo l’arrivo imminente di un grande cambiamento. Ippolite, come un novello Orfeo, si metterà alla ricerca della moglie, esplorando le terre ignote. La sua decisione, tuttavia, turberà l’ordine della natura e a pagarne le conseguenze sarà tutta la tribù. Scoprirà dunque che il suo compito è molto più grande di quel che pensava, poiché nelle sue mani c’è il destino di tutti. Allora, non solo dovrà spingersi oltre i confini di Ghirlanda, ma anche oltre quelli della vita stessa.
Perché questa graphic novel è ancora più rilevante adesso? Perché, al di là dei tratti infantili e delicati del mondo dei Ghir, Mattotti ci mostra anche come la natura possa essere crudele e invincibile. Piante, alberi, rocce, monti, venti, fiumi, mari e vulcani sono entità vive, spesso violente, scopi e pensieri che non sempre coincidono con le nostre aspirazioni umane, soprattutto quando queste vengono mosse dall’avidità o dal fanatismo politico e religioso. Sta dunque a noi, come ai Ghir, interpretare i segni che il paesaggio diffonde. Molto esemplare, in questo caso, è il dialogo di Ippolite col Monte Rauco (p. 90). Se il paesaggio viene percepito come una cosa a sé, aliena, senza vita, soltanto materia di analisi o sfruttamento, si perde in questo modo una connessione profonda con esso, dalla quale dipende la sopravvivenza stessa. In Ghirlanda scene commoventi di amore, cooperazione e fede convivono con inondazioni, esplosioni, terremoti, massacri, mostri, demoni, morti, guerre. Innumerevoli sono i pericoli che Ippolite e la sua tribù devono affrontare. Molto banalmente, si potrebbe asserire che si avvicinano di più alla catastrofe quando dimenticano di essere una comunità, ovvero quando dimenticano i canti e i miti degli antenati e rifiutano o denigrano le parole degli sciamani. In sostanza, quando smettono di prestare attenzione ai segnali degli spiriti. Ogni piccolo accadimento potrebbe distruggere l’equilibrio faticosamente raggiunto. L’ozio, la negligenza e la distrazione divengono le cause del conflitto, della dispersione e del disorientamento. La natura mostra di nuovo il suo lato oscuro e caotico. Imprevedibile, insidiosa e ingannevole, come un sogno. Ippolite e il suo popolo devono dunque sognare di nuovo, ogni volta che vogliono tirarsi fuori dai pericoli, devono farsi sciamani. Come scrive Matteo Meschiari in Geografie del collasso:
«lo sciamano pone in essere un rituale che stabilisce un legame necessario tra casa e paesaggio, tra animali e luoghi, tra presente e passato, ed esplora il punto di vista di montagne, fiumi, orsi, antenati, alberi. In altre parole, il suo scopo non è creare uno spazio virtuale alternativo ma stabilire una connessione, una comunicazione, un legame ontologico tra spazio reale e spazio virtuale. L’agentività immaginante è dunque al servizio di una riconnessione con il mondo, è l’allestimento di un’architettura semiotica e cognitiva in grado di usare il virtuale per rischiarare, intensificare, risemantizzare l’adesso-qui» (p. 103).
In una realtà fin troppo mutevole e oscura, l’unico modo per sopravvivere è dunque stabilire connessioni, trovare corrispondenze, attraverso l’azione “simpatica” della magia. Nel dialogo tra Ippolite e il fauno, che diviene la sua guida nelle Terrae Incognitae, la creatura afferma: «Quando il mondo si muove, ci basta tener salda la mente». Ma Ippolite è perplesso: «Mi sembra un secolo che viaggiamo. Noi Ghir siamo sedentari, ci piace la piana immobile…» (p. 208).
Ghirlanda ci spinge a chiederci fino a quando la piana immobile possa essere così sicura, fino a quando non sia necessario invece inoltrarsi verso le Terrae Incognitae. E se fosse proprio la comodità la catastrofe stessa, o almeno, una delle cause principali del disastro? Non è questo pianeta ancora tanto misterioso e meraviglioso quanto quello disegnato da Mattotti? Davvero siamo così ottusi e presuntuosi da credere che qui non ci sia poi ancora molto da scoprire o da preservare? Se lo crediamo davvero è perché a quel sense of wonder, divenuto anch’esso roba da vendere a buon mercato, non veniamo educati come dovremmo. All’immaginazione si preferisce l’escapismo, e così il sognatore meno impavido rischia di diventare l’ennesimo consumatore seriale. E l’adulto medio perde quella facoltà mercuriale sulla quale investiga Pietro Citati ne La mente colorata:
«Ciò che importa, nell’intelligenza di Ulisse, è la costruzione. È serrata, densa, compatta: senza intervalli, né lacune, né incrinature: tessuta a maglie fitte; e produce pensieri sagaci, rapidi e precisi, come le ali degli uccelli. Questa, secondo i Greci, è la mente superiore. Non le sfugge nulla: collega tra loro le cose; e le chiude in un legame che non si può sciogliere» (p. 90).
Diversamente da Ulisse, i Ghir non faranno ritorno a Itaca, e scopriranno che «nessuna cosa al mondo, per buona o cattiva che sia, rimane immutabile, nemmeno lo spirito degli dèi» (p. 383). Una morale sempreverde, eterna, alquanto rilevante per i tempi che stiamo vivendo. Forse, l’unico modo per evitare il peggio è fare, tutti assieme, il medesimo sogno. Proprio come i Ghir.
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Immagine di copertina:
dettaglio di un’illustrazione di Lorenzo Mattotti da Ghirlanda, Logos Edizioni, 2017.