Il primo libro di Danilo Zagaria, In alto mare. Paperelle, ecologia, Antropocene (Add Editore, 2022) è dedicato a Greta, che ama il mare. Il mare è sempre l’orizzonte da guardare per pensare e per immaginare. Per sentirsi a casa e per sognare di partire. Chi può non amare il mare?
La dedica del libro, quindi, è in realtà per tutti. In Alto Mare è un libro per tutti, perché il mare è il luogo «dove l’uomo non è mai solo, poiché sente la vita fremere accanto a lui» (p. 63), come recita l’esergo della seconda parte tratto da Ventimila leghe sotto i mari di Verne.
La copertina di Francesco Serasso e Alberto Cittone è molto bella e interessante: ci mostra un cubo di mare. È già un indizio dell’approccio metodologico del libro all’ecologia, che campeggia al centro del sottotitolo: la forma sovverte le aspettative e le abitudini – ci aspetteremmo una sfera, e invece… – l’illustrazione mostra il particolare in cui scovare le tracce stratificate di flussi, fenomeni ed eventi di respiro globale. La superficie del tassello oceanico è solcata da iceberg alla deriva e dalle paperelle naufraghe citate anche nel sottotitolo, di cui Zagaria ci narra i peripli nell’introduzione al testo. Sulla parte emersa di un iceberg troneggia la statua di Poseidone (scolpita nel ghiaccio o in marmo di Carrara, facendo riferimento a uno dei quarantatré scenari che rivelano l’Antropocene nel film documentario di de Pencier, Baichwal e Burtynsky?) Il dio inventato dagli uomini per governare e addomesticare gli oceani sembra in procinto di alzarsi o cambiare posizione. Il mare sta diventando scomodo. Il ghiaccio si sta sciogliendo. È l’Antropocene, baby. Ma con il riscaldamento globale, che fine farà il mito? Chi – cosa – e come, presiederà il mare? E che posto avrà l’uomo e il suo mondo nel mare che verrà?
L’autore organizza il libro in quattro parti per analizzare l’impatto che ha l’uomo sul mare e le retroazioni conseguenti in quest’era dell’Antropocene in cui viviamo: Il mare e la plastica, L’infinito vivente, Il futuro dell’Artico e Cambiare il mare. Ogni parte è introdotta da una citazione: versi di canzoni alternate a brani di romanzo che con forza evocano misteri fantasma, totalità vitali, vastità in agguato e profondità montanti. Ogni parte è quindi organizzata in capitoli divisi a loro volta in agili paragrafi che ampliano il ventaglio degli eventi analizzati, moltiplicano testimonianze e punti di vista, combinano discipline e saperi, per rivelare e interrogare una determinata frazione delle complesse interazioni tra le scelte operate dall’uomo, la materia, gli organismi viventi e l’ambiente. La natura siamo noi e ora le conseguenze delle nostre azioni fanno la natura, ma la produzione di plastiche, la pesca intensiva e il cambiamento climatico stanno trasformando gli oceani del pianeta in acque sempre più alte, calde e acide, acque mai viste prima dalla nostra specie. Un mare misterioso e pericoloso. Ma Zagaria ha una rotta precisa per il suo viaggio di esplorazione e il naviglio «più pratico e meraviglioso mai creato dall’umanità: il libro» (p. 16).
La metafora del libro-nave, che coinvolge anche l’intelletto e la politica, la vita e la salvezza/sopravvivenza stessa della comunità in un ambiente su cui l’uomo non ha il controllo, ha un lungo corso, da Archiloco e dai miti polinesiani, passando per Platone, Orazio, Virgilio, le avventure di Sinbad e la Navigazione di San Brandano, Dante, Machiavelli, Donne, Melville, fino a Sloterdijk, McCarthy, Ghosh e Gibson. Zagaria inserisce il suo testo in questa nobile scia di libri-viaggio e infatti in ogni capitolo ci narra di peripli avventurosi e attraversamenti perigliosi, di scie segnate sopra e sotto il mare da spedizioni reali e resoconti immaginari. Ma i protagonisti non sono più solo umani. Nell’introduzione, infatti, a viaggiare come naufraghi per i sette mari sono paperelle, castori, tartarughe e rane di plastica colorata, sopravvissuti all’incidente della portacontainer Ever Laurel. Altre cose, altri flussi, altri dati e altri libri saranno avvistati nei capitoli successivi. L’autore ci regala anche, a fine libro, una bibliografia commentata, come aiuto per seguire questo viaggio di viaggi, un utilissimo sestante per tracciare anche le rotte successive, oltre la fine del testo, per continuare in modo autonomo l’esplorazione della nostra età. In alto mare si presenta fin da subito, quindi, come uno strumento di analisi, uno scandaglio calibrato su connessione e complessità, una mappa che mostra concetti e realtà, criticità e soluzioni possibili, imperfette, rischiose, impensabili, ma allo stesso tempo ci mostra anche un metodo di lettura e comprensione e una cassetta degli attrezzi per operare attivamente e consapevolmente con quei concetti su quelle realtà.
Continuando il viaggio delle paperelle, la prima parte del libro è dedicata alle tante plastiche, le materie artificiali create dall’uomo per comodità, per bellezza, per profitto che hanno contribuito al boom economico del dopoguerra e che da allora continuano a frammentarsi in schegge impazzite sempre più microscopiche. Questa materia dell’Antropocene sta formando continenti galleggianti e correnti di rifiuti indegradabili che sembrano incarnare lo spirito del tempo, uno spettro weird che infesta il mondo. E qui Zagaria espone subito il suo metodo: connettere a sistema l’avventura sull’Oceano di Charles Moore e la scoperta di nuove realtà – l’isola di plastica –, un’opera letteraria – Dagon di H. P. Lovecraft – e le analisi di Mark Fisher sul weird inteso come una sensazione di estraneità cognitiva per cui siamo in mezzo a eventi fuori posto o fuori scala o comunque al di là delle nostre capacità di comprensione. Nell’intreccio di scienza e letteratura, teorie e finzioni, dati e visioni, esperienze e letture personali e mediate, il libro trova la forza tenace di procedere, come una rompighiaccio nella Terra incognita dell’Antropocene, tra nanoplastiche e fogne vorticose, biofouling e ghost fishing, tra la precisissima tassonomia delle plastiche e l’accurata ricostruzione dei cicli dei rifiuti, demolendo miti tossici e fallacie cognitive come quello della crescita economica infinita o del recycling (deciclaggio in realtà per la plastica) come panacea di tutti i mali ecologici o dell’estinzione impossibile come alibi per lo sfruttamento, e svelando verità elementari vitali: «C’è vita senza la plastica!» (p. 35).
Il percorso lungo cui ci accompagna Zagaria è anche una sorta di nave-scuola: In alto mare come una nuova Walrus traccia una rotta per il tesoro-conoscenza incitando flotte di Hispaniola a inseguirne la scia. L’obiettivo dichiarato del testo, lo scopo stesso per cui è stato concepito così, è infatti quello di catturare l’interesse dei giovani lettori e delle classi di studenti, fornire loro spunti molteplici e tool cognitivi efficaci, instaurare soprattutto con loro un dialogo proficuo e in progress. Questa forma aperta del libro è confermata dai tanti incontri nelle scuole, oltre che nelle librerie, a cui l’autore ha già partecipato e ai tanti altri che seguiranno. Ovviamente questa vocazione del libro lo rende necessario anche per tutti quei lettori adulti – genitori, docenti, educatori – che cercano canali di dialogo tra le generazioni. Da docente riconosco che il linguaggio, la postura, lo sguardo che spazia in ambiti e medium diversi, l’entusiasmo per lo studio e la divulgazione, l’attenzione alle parole e ai dubbi dei ragazzi sono gli ingredienti giusti per costruire una relazione educativa fruttuosa. Tra gli inviti disseminati tra i paragrafi, il principale è forse quello che riguarda la metamorfosi necessaria della forma mentis: «dovremo abituarci a ragionare in modo diverso» (p. 51), per riuscire a immaginare la rete complessa delle relazioni tra economia ed ecosistema, tra noi e tutti gli altri attori – animati e inanimati, contemporanei, ma anche passati e futuri – del sistema Terra. La prima parte si chiude con un «esercizio temporale» (p. 58): immaginare la vita intera di un oggetto. Un esercizio bellissimo e necessario. Immaginare è un’attività primaria fondamentale. La forma essenziale di meditazione nell’Antropocene. Per creare koan-rivelazioni e consapevolezze rivoluzionarie. In alto mare è un esercizio propedeutico di profondità. Un allenamento appassionante all’iperoggetto Antropocene.
Zagaria ci fornisce subito un esempio per guidarci nella pratica di questa ascesi del pensiero: lo squalo grigio che nuota oggi nelle acque dell’artico è nato mentre Galileo indagava lo spazio sidereo e Shakespeare componeva le sue tragedie. Immaginare il tempo nelle cose per entrare in contatto con la parte sommersa del mondo.
La seconda parte dedicata all’Infinito vivente introduce altri elementi molto interessanti: la pesca come attività che sfrutta le riserve ittiche a un ritmo non sostenibile e la pesca come attività in grado di fornire cibo con minore impatto sull’ambiente. La pesca come attività umana che può essere sia un problema sia una soluzione rispetto alla necessità di trovare una nicchia ecologica sostenibile per la nostra specie. Il discrimine è determinato dal concetto del limite, il tabo dei popoli delle isole: il mondo e quindi ogni suo più piccolo componente è sacro e va trattato con la massima attenzione e con il massimo rispetto, anche quando lo si pesca per mangiarlo. Zagaria passa la parola a Severn Suzuki, la ragazzina di tredici anni che nel Vertice della Terra di Rio de Janeiro nel 1992 ricorda a tutti: «Siamo ciò che facciamo» (p. 77). Il tabo coincide con la sostenibilità. Parole che vanno trasformate in azioni concrete e consapevoli. Il limite è ciò che è sacro e ci insegna l’attenzione per il domani. Cambiare abitudini. Pensare il tempo profondo dietro e davanti a noi. L’autore ribadisce l’importanza fondamentale del rispetto verso ogni essere vivente dando voce al visionario Capitano Nemo e ricordando l’irrinunciabilità del senso del limite: «il consumo va ridotto» (p. 85). Uomini e pesci sono uguali. Devono avere gli stessi diritti. Il benessere dell’uno è necessario al benessere dell’altro. Imprigionare i pesci negli allevamenti ha effetti negativi sull’ambiente per la sovrapproduzione di mangimi, l’inquinamento determinato dai liquami e le alterazioni degli ecosistemi, ma ha effetti negativi anche su di noi per gli antibiotici e le nanoplastiche che assumiamo mangiando i pesci. Non sono solo i pesci a finire in gabbia in questo sistema squilibrato – sacrilego, cioè ladro di cose sacre, lo definirebbero i popoli delle isole –, ma anche gli uomini stessi. Chi non rispetta i pesci non rispetta neanche gli umani. La violazione dei diritti coinvolge tutti: pescherecci pirata che depredano i mari infrangendo ogni legge e barcacce che imprigionano per mesi o anni pescatori disperati in situazioni di schiavitù. Zagaria propone quindi un altro esercizio fondamentale: fare attenzione alle connessioni tra fenomeni per scoprirne le cause comuni. Lo sfruttamento rapace non risparmia niente e nessuno.
Nell’ultimo capitolo della seconda parte, Un’ossessione con otto tentacoli, l’autore ci rivela che applica questa attenzione alle connessioni anche nel suo metodo di studio: cerca sempre due testi da accoppiare, in base a un tema comune o un campo di ricerca condiviso. Questo tipo di lettura, di cui ci propone subito un esempio, gli consente di diversificare i punti di vista e sperimentare approcci alternativi, avvicinando più consapevolmente la complessità dei fenomeni. I due libri sono Il polpo di Jean-Paul Montanay, un libro di ricette, e Altre menti di Peter Godfery-Smith, un saggio sulla mente del polpo. Il cortocircuito dei due testi, in questo caso, invece di fornire risposte ha fatto nascere più domande che hanno cambiato completamente la direzione iniziale del lavoro dell’autore. Quelle domande hanno poi portato alla prossima lezione che Zagaria condivide con noi, una doppia lezione mutuata dal più alieno possibile dei maestri, una octopus vulgaris: ogni animale, anche la piovra più strana, è una persona, con mente, pensieri, sensazioni, emozioni, volontà, alieni ma reali. Ha diritto alla vita. La seconda lezione è che possiamo – dobbiamo – imparare dai nostri compagni d’avventura non umani. Che come il pappagallo Flint, se non altro, ci avvertono dell’avvicinarsi del pericolo. Ma soprattutto ci costringono a interrogarci sulla natura delle nostre azioni alla luce del rapporto che ci lega agli altri esseri viventi. L’autore propone di analizzare la questione non più da un punto di vista privilegiato – specista e razzista – che ci ponga al di sopra dei nostri compagni animali, sulle colline della Valle perturbante di Masahiro Mori, ma immergendoci tra pari nella Pianura spettrale immaginata da Timothy Morton per spaesarci e fare esperienza dell’ambiguità di confini fluidi e compenetrazioni osmotiche.
La terza parte si apre ricordando L’Avventura nell’Artico di Arthur Conan Doyle, il diario di viaggio di sei mesi passati a cacciare balene nei misteriosi mari di ghiaccio che «accendevano l’immaginazione» (p. 110). E anche le spiegazioni di glaciologia e le analisi dei dati che ci fornisce Zagaria mantengono quella stessa aura di eccitazione e terrore intrinseca a ogni esplorazione della pianura di ghiaccio più spettrale del mondo. L’esplorazione però si configura ormai, purtroppo, come un’indagine su un omicidio in svolgimento: l’autore ci accompagna su questa regione del delitto alla ricerca di indizi, moventi e catene di eventi che stanno determinando la spirale della morte artica. Al contrario delle intricate trame di Sherlock Holmes, tuttavia, in questo caso il colpevole è manifesto: il riscaldamento globale innescato dall’uomo. Il capitolo è dedicato all’esplorazione del non-continente artico, sulle tracce di fatti e letterature del presente e del passato, ma con lo sguardo sempre rivolto al futuro. L’autore racconta con precisione di dettagli e, allo stesso tempo, analizza con parole empatiche ed evocative fenomeni complessi come il feedback ghiaccio-albedo, la nuova Via della Seta polare, le odissee di orsi bianchi, gabbiani d’avorio, futuri migranti climatici e cacciatori di zanne di mammut, rinnovando e rivoluzionando i nostri sguardi sull’Artico. Da detective sperimentale e scrupoloso, si chiede alla fine dell’indagine, come rimediare al crimine in atto. Da scienziato non può darci risposte definitive, ma presentandoci le varie ipotesi, i vari punti di vista e i posizionamenti di enunciazione e affermazione degli stessi, ci invita alla riflessione critica.
L’ultimo capitolo, Cambiare il mare, è l’esemplificazione di come mettere in pratica l’invito a uno sguardo critico sul tempo profondo che ci attraversa. Il primo capitolo – Mai più come prima – pone subito la necessità di prendere atto di un mutamento irreversibile e dell’inevitabile domanda successiva: in che mondo vivremo?
Il libro di Zagaria cerca di fornire gli strumenti per porsi questa domanda nel modo corretto, per provare ad affinare gli sguardi che potranno scorgere quei paesaggi mutanti, per allenare le immaginazioni dei corpi che attraverseranno quei paesaggi a venire. Gli aspetti da considerare, le variabili, le concatenazioni sono innumerevoli. Ma non si tratta di prevedere magicamente un futuro chiuso. Si tratta piuttosto di scorgere adesso ciò che diventerà altro domani, vedere il passato del futuro mentre si fa, mentre è vivo e noi possiamo crescere insieme a esso, non come organi spaiati, antitetici, obsolescenti, ma consustanziali. Il futuro è in realtà una nebulosa di potenziali futuri plurali. Ognuno di questi futuri è un viaggio che va prima immaginato. Come l’Italia nel 2786 di Varotto e Pievani. Come le piccole isole del Pacifico, dell’Oceano Indiano e dei Caraibi nel 2050 dell’IPCC 2022. Come i 25 milioni di migranti climatici in cerca di spazio del prossimo anno. Come è evidente dalla progressione presentata dall’autore, il futuro è adesso. E come la terra sommersa dalle acque, anche il tempo ci sfugge da sotto i piedi di momento in momento. La risposta dell’uomo fin qui non appare risolutiva, anzi, l’edilizia selvaggia, la bulimia di dispositivi digitali basati sul silicio, la land reclamation e il turismo costiero stanno rischiando di aggravare la situazione, accelerando l’erosione della terra. La sabbia, come il tempo, sta finendo. Anche qui, tuttavia, Zagaria ci mostra una via da percorrere: scoprire le forze invisibili che attraggono libri diversi tra loro. Un saggio e un romanzo, in questo caso. Di nuovo, da docente, mi sembra un ottimo procedimento con cui far lavorare i ragazzi: espandere e mescolare discipline, materiali, linguaggi, prospettive su uno stesso tema (il mare). Deviare per sorprendere, espandere le domande, cercare connessioni (le sabbie). Il capitolo successivo si apre sul luogo di frontiera tra i due mondi: la costa, dove mare e terra si toccano mischiando i rispettivi confini. Che sono sempre diversi e infatti sono culle traboccanti di biodiversità. Nella zona intertidale Volodine ambienta tre intrarcane e due shaggas del suo Gli animali che amiamo, in cui sirene e crostacei post-esotici, tra il mare e gli scogli, tra il sogno e la veglia, si affannano a «dire tra sé e sé delle storie, mormorare o tuonare visioni violente, abitare territori paralleli, trasmettere immagini e atmosfere, provocare l’esilio e lo stato di trance, e lasciare però ai margini il nemico che continua ad aggirarsi da qualche parte tra gli ascoltatori» (pp. 100-101). Il re crostaceo Balbuziar CCCXV si sveglia – in un sogno – affetto da putrenza maligna di tipo due, con «la schiena saldata alla roccia […] Nulla di vivente e nessuno di morto o di cortigiano si muoveva più intorno a Balbuziar» (pp. 24-25). Tutto il capitolo Mari più caldi e più acidi è dedicato agli attacchi e ai pericoli antropici contro questo «mondo antico come le stesse terre emerse – il luogo primordiale dell’incontro tra gli elementi della terra e dell’acqua» (p. 180), come lo definisce Rachel Carson. L’innalzamento della temperatura, il genocidio dei molluschi, l’invasione di specie aliene, l’acidificazione dei mari e la rottura di simbiosi allacciate in milioni di anni stanno portando al collasso quei luoghi liminali di «eterno mutamento», uccidendo le meravigliose fucine animate di «quel flusso di esseri viventi infinitamente vario poi emerso, nel tempo e nello spazio». L’immagine con cui l’autore chiude il capitolo ha la forza terribile di una Apocalisse: le megalopoli coralline scarnificate sono le ossa sbiancate dello scheletro degli oceani. Un abissale memento mori per tutto l’ecosistema terrestre.
Nell’ultimo capitolo, La crisi e noi, Zagaria riporta il discorso alla propria esperienza personale, la partecipazione a Greenpeace. Da un lato testimonia di un impegno attivo sul campo che è sempre l’insegnamento più efficace e più sentito da parte dei ragazzi. Dall’altro lato Zagaria riflette ulteriormente sulla propria esperienza, confrontandola con l’evoluzione del contesto e con le trasformazioni dell’Antropocene manifesto, e mettendo a sua volta a frutto voci, testimonianze, letture e studi raccolti e ramificati negli anni. Il suo consiglio, di nuovo, è quello di esercitare uno sguardo critico anche, anzi soprattutto se si è sensibili agli allarmi dell’IPCC e se si è consapevoli dell’urgenza di agire. Non è il Pianeta a essere in pericolo di vita. Non è il Pianeta che dobbiamo salvare. Eugene Thacker ha distinto benissimo tra Mondo (il mondo-per-noi, l’ecumene antropocentrico), Terra (il mondo-in-sé, la realtà terrestre) e Pianeta (il mondo-senza-di-noi, la faglia antropocenica in cui siamo sospesi come insetti nell’ambra). È solo il nostro mondo umano a essere minacciato. È la nostra piccola confortevole nicchia ecologia a rischiare l’estinzione, in compagnia dei milioni di altre cui siamo connessi e dipendenti, e che pure stiamo condannando. La Terra, anche trasformandosi in forme impensabili dalla nostra mente, continuerà a esistere per miriadi di vite ulteriori alla nostra. L’attenzione e l’impegno da parte nostra restano tuttavia fondamentali. Ma a cosa? Per cosa dobbiamo lottare? Per salvare un’idea di umanità, come l’autore spiega nell’omonimo capitolo. I cambiamenti climatici richiedono un adattamento e l’adattamento richiede fatica e sacrifici. Quest’ultima parte si è aperta con la citazione di Ballard da Il mondo sommerso. Non è un caso e Zagaria ce lo spiega chiaramente: ambiente e psicologia sono strettamente interconnessi. Per occupare lo spazio del futuro è necessario liberare lo spazio interiore dal male d’ambiente, la solastalgia: lo «stato di angoscia che affligge chi ha subito una tragedia ambientale provocata dall’intervento maldestro dell’uomo sulla natura».1 Il vero benessere sarà raggiunto quando la salute dell’uomo e la salute dell’ambiente saranno percepite come un unico stato.
Zagaria conclude il libro con un epilogo il cui titolo, Far colazione in un mondo complesso, rappresenta perfettamente la nostra situazione: per vivere la nostra vita non possiamo non confrontarci con il nuovo mondo complesso che contribuiamo a creare quotidianamente. Non ci sono vie di fuga, non ci sono negazioni, non ci sono alternative. Dobbiamo agire individualmente ora, consapevoli dell’intreccio globale che dal passato si apre ai futuri possibili. Per non restare immobilizzati nel presente da una minaccia troppo più grande di noi possiamo solo allenare la nostra immaginazione per accettare sfide impossibili. E iniziare a tracciare le nostre mappe per orientarci nell’Antropocene già al mattino davanti alla nostra colazione.
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Note:
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Immagine di copertina:
una foto di Fabrice Monteiro dalla serie The Prophecy, 2016.