Quello che emerge dalle pagine di Almanacco TUPS è a tutti gli effetti un soggetto imprevisto. Il soggetto – o i soggetti? – autistico. Imprevisto, ma al tempo stesso agognato, perché ormai da anni, in Italia, si avverte il bisogno di una pubblicazione in cui le persone autistiche parlino “di sé e per sé, senza mediazioni”. Questo è, né più né meno, Almanacco TUPS. “Tipi umani particolarmente strani” – secondo la definizione di Enrico Valtellina, che è anche il titolo del suo testo apripista nel nostro paese, Tipi umani particolarmente strani. La sindrome di Asperger come oggetto culturale (mimesis 2016) – che prendono parola, e per di più senza chiedere il permesso a nessunə, confezionando talvolta dei piccoli e densissimi scampoli di autiebiographies (questo il nome che è stato attribuito al sottogenere, spesso di successo, delle autobiografie di persone autistiche).
L’almanacco si muove in qualche modo in quello spazio che in altri paesi ha caratterizzato il passaggio dai Disability Studies ai Critical Disability Studies, dove il soggetto autistico non è più esclusivamente “parlato” da altri (medici, psichiatri, psicologi, istituzioni), ma propone, insieme al vissuto, le proprie visioni sull’autismo, sulla sua dimensione sociale e politica, sul senso delle scelte lessicali, sulle implicazioni epistemologiche. Uno spazio che è anche quello del passaggio dal modello medico egemonico, improntato alla terapia, con uno sguardo verso la “cura” dell’autismo inteso come malattia, ai modelli sociali della disabilità, all’attivismo autistico e al concetto di “neurodiversità”. Quest’ultimo, secondo colei che per prima lo ha proposto, Judy Singer, non è affatto un termine che indica uno scarto negativo da una supposta “normalità”, ma è al contrario un promemoria di una diversità da tutelare ed espandere, in analogia con la biodiversità, di cui costituisce non a caso un sottoinsieme.
Soggetto o soggetti, dunque? Come suggerisce Ian Hacking, “se hai conosciuto un autistico, hai conosciuto un autistico”. Non esistono due autistici uguali, insomma. E, se questa constatazione può apparire come uno slogan semplicistico, l’Almanacco è lì a mostrarne la profonda e tangibile verità: la pluralità e l’inafferrabilità dell’etichetta “autismo” viene infatti al contempo presupposta e performata da un numero impressionante di saggi, racconti e altri tipi di testi, che si richiamano, si rincorrono, talvolta si contraddicono – come è giusto che sia, se prendiamo sul serio la nozione di spettro, o meglio ancora di “spazio” autistico – per comporre una polifonia affascinante e disturbante. Il carattere perturbante del libro è evidente se si pensa che gli stereotipi sul tema sono duri a morire, e molti dei testi che contiene si incaricano, più o meno scientemente, di decostruirli. È il caso di Fabrizio Acanfora, per esempio, che passa al vaglio di una critica necessariamente spietata tutte le retoriche sull’inclusione lavorativa dei “neurodivergenti” e sul diversity management. O di Filomena Taverniti, che mette a nudo l’impreparazione delle istituzioni scolastiche democratiche.
Sebbene l’Almanacco non sia un manifesto politico, un manifesto (e forse più d’uno) lo contiene. Anzitutto, Manifesto TUPS, di Popi Porrini, che
«vuole tagliare definitivamente il cordone ombelicale, ormai ridotto a guinzaglio, che lega le non conformità relazionali, cognitive, esistentive, sensoriali, fisiche e quant’altro, ai nomi che le hanno proiettate sulla ribalta sociale. Alle formule con cui la loggia dell’American Psychiatric Association le ha nominate, ponendole in essere» (p. 15).
Le intenzioni che muovono la proposta del manifesto sono infatti legate a una rottura necessaria:
«a motivarlo è l’insoddisfazione profonda per gli sviluppi di un orizzonte discorsivo che negli ultimi decenni è cresciuto in modo esponenziale, ma che vediamo sempre più rapprendersi nella sua matrice istituzionale originaria, l’inscrizione in forme di devianza dalla norma secondo categorie mediche, dilapidando uno straordinario potenziale affermativo, inclusivo, proattivo» (p. 15).
Le prese di parola che intendono risignificare, insieme ad alcune categorie mediche, il campo dell’azione politica non si limitano al Manifesto; emergono qua e là dalle esperienze raccontate in prima persona. Autismo intersezionale, per esempio, costituisce una potente dichiarazione politica in grado di scuotere, in particolare, l’attivismo femminista neurotipico: Giulia Gazzo conduce rapidamente il lettore/trice a constatare che «una persona neuroatipica esperisce le discriminazioni sistemiche in maniera differente dalle persone neurotipiche» (p. 244). E una prima conclusione appare dunque inevitabile: qualsiasi movimento sociale deve necessariamente prevedere la presenza delle persone neurodivergenti. Questi rapidi scarti dalle usuali cifre dell’attivismo – da una parte, la centralità dell’autistico maschio-bianco-eterocis nell’attivismo autistico, e dall’altra, l’esclusione delle donne neuroatipiche dalle lotte femministe – sono possibili grazie a due aspetti di metodo: l’uso della teoria intersezionale e la pratica del partire da sé, che permettono di rivendicare una “doppia alterità” (donna e autistica). Si tratta peraltro di due metodi di indagine/scrittura che informano tutti i contributi del volume, consentendo, fra le altre cose, di fare i conti con il pietismo delle varie giornate istituzionali di “consapevolezza” pensate da e per neurotipici (Martina Savoia, Teresa Gullì).
Ma non è solo la politica neurotipica a uscirne rivoltata come un calzino. Numerosi concetti vengono sottoposti a critica: i diritti umani e quelli animali (Alejandra Mastrorosa), le categorie del DSM a lungo usate per diagnosticare le persone autistiche, fino al concetto di “disturbo” (Neuropeculiar). Quest’ultimo è oggetto di una coraggiosa risignificazione, se consideriamo che parte della comunità autistica negli ultimi anni ha rifiutato questa etichetta stigmatizzante, suggerendo che l’autismo sia un funzionamento, una modalità di entrare in relazione con il mondo che può e deve resistere alla patologizzazione. Tuttavia, qui il termine viene riappropriato come segno di “un’affermatività sociale e culturale”.
A ben vedere, ogni racconto, ogni frammento autobiografico, ogni riflessione contenuta nell’Almanacco implica una critica epistemologica. La portata epistemologica dell’“approccio TUPS” è esplicita in particolare quando viene affrontato il problema dei bias in ambito clinico. Qui la strada percorsa è precisamente una rottura rispetto ai metodi clinici interpretativi, a favore di una visione fenomenologica (Silvia Chieregato e Andrea Ruzza), che lascia la neurodiversità (e gli individui neuroatipici) libera di raccontarsi e che permette di spiegare i bias generati da un metodo scientifico abilista, e soprattutto di abbozzare una teoria della creazione dello stigma dell’autismo. Tale questione è più profonda di quanto potrebbe apparire a prima vista: Eleonora Marocchini, in linea con altri contributi (Giulietta De Luca, per esempio, utilizza il concetto di “deumanizzazione”), sottolinea la modalità di costruzione del soggetto autistico come soggetto non umano, o non-del-tutto-umano, a partire dalla formulazione della teoria della mente di Simon Baron-Cohen. Quest’ultimo, infatti, considera la capacità di figurarsi gli stati mentali altrui come una delle peculiarità dell’Umano con la U maiuscola, e se si tiene presente che per Baron-Cohen, come per buona parte della letteratura scientifica e mainstream sul tema, questa facoltà è assente nelle persone autistiche, si comprende come nell’Almanacco emerga, finalmente, la rivendicazione di un superamento di modelli, test, teorie basate sullo standard neurotipico, cioè su un bias non dissimile da quelli di razza, genere, classe, età, specie.
Si tratta, evidentemente, di un terreno minato ma ineludibile, in cui il confronto con i saperi medici/psy non può essere risolto con posizioni semplicistiche, né quelle dell’acritica accettazione della patologizzazione istituzionale né quelle di certa antipsichiatria ideologica e poco aggiornata sul tema della neurodiversità. Su tali questioni, l’illuminante saggio di Luca Negrogno (Considerazioni preliminari per un dialogo tra i movimenti di users/survivors/refusers della psichiatria e i movimenti della neurodiversità, pp. 63 sgg.) mostra come sia possibile “stare nel problema” riconducendo alcuni dei conflitti fra comunità marginalizzate o approcci critici all’ambivalenza strutturale di concetti o processi storici. Così, la sanitarizzazione è controllo sociale, disciplinamento, desoggettivazione, ma al tempo stesso può costituire «vettore di smarcamento, di esodo o di rifiuto delle ingiunzioni normative» (pp. 69-70). La stessa distinzione interna fra users, survivors e refusers (chi usa, chi sopravvive a, chi rifiuta i servizi psichiatrici) è del tutto astratta. Il “classico” dibattito sull’uso stigmatizzante e scientificamente poco fondato della diagnosi psichiatrica, di fronte alla presa di parola autistica – che sostituisce concetti come quello di funzionamento a quello di malattia – assume una luce inusuale, in cui certa critica antipsichiatrica finirebbe per assolvere una funzione “epistemicamente dannosa”. Come sostiene Robert Chapman, citato nel saggio: «i critici finiscono per mantenere una posizione non dissimile da coloro che pretendono di essere “daltonici” in merito alla razza» (p. 80). L’attivismo per la neurodiversità è dunque un movimento che ha fra i suoi obiettivi quello di “farla finita con l’antipsichiatria”? Certamente no. Anzi, sostiene Negrogno muovendo dalla formulazione foucaultiana di antipsichiatria, «anche la neurodiversità sarebbe un movimento genuinamente antipsichiatrico in quanto nega che la peculiarità che caratterizza una condizione esistenziale va sottratta al campo del trattamento psichiatrico» (p. 81), ma, più in generale di una serie di forme di coercizione apparentemente più “dolci” che si organizzano in alternativa, se non in opposizione al sapere psichiatrico, ma pur sempre all’interno della galassia psy e, a ben vedere, nelle scienze umane in generale.
La complessità delle domande che emergono dalla lettura di Almanacco TUPS è dunque data dalla pluralità di voci, di metodi e stili espressivi (la raccolta contiene saggi e racconti, ma anche poesie e fumetti), e certamente anche dai problemi che la presa di parola TUPS è in grado di mobilitare. Ed è dall’ascolto di questo soggetto imprevisto che occorre partire per affrontarli.
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Immagine di copertina:
Francesca Lussignoli, Gli amanti, da Marc Chagall (particolare), 2016