Pur essendo un’opera giovanile di cui lo stesso Wells a più riprese sottolineò l’ingenuità, è fuor di dubbio che La macchina del tempo non ha perso – in quasi cento e trent’anni di vita – un briciolo del suo fascino. Forse per la collocazione in un futuro così remoto da risultare inconcepibile, più che per la sua ambientazione quasi fiabesca e per l’emozione che suscitano le creature che popolano il mondo descritto dallo scrittore inglese. Andrebbe ricordato che Wells fu popolarissimo alla sua epoca proprio per la sua capacità di plasmare mondi credibili nonostante le vicende narrate siano inverosimili. Poco importa che la rappresentazione dei marziani ne La guerra dei mondi risulti attualmente piuttosto bislacca: la sua capacità di descrivere un’occupazione militare con le sue devastanti conseguenze, specie sull’ambiente, di analizzare la guerra, il potere, lo squilibrio mentale (la figura del parroco codardo e indolente rimane una delle più felici mai incontrate nella letteratura inglese) lo pongono fra i maggiori romanzieri mai vissuti. Lo stesso si può dire de L’uomo invisibile: ciò che preoccupa maggiormente Wells è creare situazioni in cui il prevedibile e solido ambiente della Londra suburbana, in cui l’autore trascorse la sua infanzia, si sgretoli davanti all’imprevisto, allo spaventoso, all’indicibile. Situazioni in cui la violenza più brutale irrompe in contesti pacificati dalla continuità, dalla ripetizione del sempre uguale.
La macchina del tempo, come noto, racconta un viaggio in un futuro talmente lontano da dare le vertigini, l’anno 802.701. In questo mondo la popolazione umana sembra essersi evoluta in modo tale da non necessitare di nulla, e avere assunto un aspetto esile e delicatissimo, quasi infantile. Questi esseri, gli Eloj, come si scoprirà in un crescendo di tensione narrativa, vengono allevati da creature mostruose che vivono nel sottosuolo, i Morlock, e che escono allo scoperto con il buio per divorarli. In questo mondo troviamo anche due edifici emblematici: una gigantesca sfinge bianca e un palazzo di porcellana verde. I due luoghi ricoprono una funzione specifica nel racconto: la sfinge è un edificio imponente, di cui gli Eloj hanno timore e che evidentemente rappresentava qualcosa di preciso nella mente di Wells, il simbolo di un potere arcaico, risalente a un’epoca molto antica. Wells scrive proprio negli anni della grande stagione delle campagne archeologiche britanniche. Nel 1883 uno dei massimi archeologi inglesi, Sir William Flinders Petrie, pubblicava uno studio sulle piramidi egizie, The Pyramids and Temples of Gizeh, che ebbe una certa risonanza, e al contempo l’egittologia si sviluppava in Inghilterra anche grazie al lavoro dell’orientalista Wallis Budge. La storia dell’egittologia britannica è un capitolo molto interessante che riguarda proprio la Londra contemporanea a Wells. Il richiamo che le campagne di scavo britanniche ebbero sulla società del tempo fu immenso. Non stupisce quindi che nella scelta di un edificio colossale, che dominasse l’ambiente bucolico e paradisiaco abitato dagli Eloj anticipandone l’elemento di violenza invisibile a cui questo popolo era soggetto, Wells abbia pensato alla scoperta archeologica più importante della sua epoca, cioè la Grande Sfinge di Giza. Il secondo edificio, il Palazzo di Porcellana Verde, è invece un antico museo abbandonato, i cui corridoi in pendenza conducono ai tunnel dei Morlock. Riveste quindi la funzione di porta dell’inferno, di soglia fra i due mondi, quello edenico degli Eloj e il suo rovescio situato nelle viscere della terra.
La recente trasposizione del romanzo di William Gibson, The Peripheral nella serie creata da Scott Smith, contiene un’integrazione rispetto alla descrizione originale del paesaggio di Londra nel futuro, in cui si svolge parte della vicenda. La metropoli è caratterizzata da colossi che emergono come landmark, la cui funzione è di depuratori ma il cui aspetto è quello di statue classiche. Si riconoscono con nitidezza il Discobolo di Mirone, il Doriforo di Policleto, la Nike di Samotracia e un probabile arcangelo. Questa scelta stilistica rappresenta un’aggiunta rispetto al romanzo, poiché nell’intenzione dell’autore i colossi che sovrastano il paesaggio londinese sono dei depuratori d’aria il cui aspetto non viene approfondito.
La scelta degli sceneggiatori ha dei punti di contatto con il romanzo di Wells. Innanzitutto, si parla della stessa metropoli proiettata nel futuro: in entrambi i casi è una distopia, ma mentre nella serie The Peripheral ciò è intuibile esteticamente attraverso la resa di una città cupa e disumanizzata, nel romanzo di Wells in apparenza si trova una situazione edenica il cui lato orrendo è anticipato dalla prefigurazione costituita dalla Bianca Sfinge. Nell’atto di modificare il testo di Gibson inserendo colossali statue classiche è possibile leggere un omaggio a Wells, l’inventore della macchina del tempo e dei viaggi attraverso le ere. Di questo parla anche il romanzo di Gibson, di segmenti temporali che coesistono e attraverso cui i protagonisti si muovono grazie a periferiche comandate da remoto. Se la macchina del tempo di Wells si muoveva solo nel tempo ma non nello spazio, le periferiche di Gibson si muovono attraverso lo spazio e il tempo, tuttavia il richiamo alla macchina del tempo è quasi naturale.
Possibile quindi che la scelta stilistica dei colossi sia ispirata all’invenzione wellsiana della Sfinge che domina il paesaggio in cui vivono gli Eloj, con la differenza che l’edificio di ispirazione egizia era simbolo di potere e sottomissione, mente i colossi classici della serie sono simboli di ordine nel caos. L’altra grande epoca contrassegnata dall’ordine, oltre a quella della classicità greco-romana, è naturalmente il Rinascimento prima del sacco di Roma. Vi è una scena brevissima, quasi invisibile in cui la protagonista scende le scale di un edificio sacro – dall’esterno sembra una abbazia, anche se non viene mai specificato – adibito a laboratorio. La soglia che dovrà varcare è virtuale ed è delimitata da uno dei massimi capolavori del Rinascimento fiorentino, la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello. L’opera, come è noto, è concepita come trittico, anche se oggi i pannelli sono separati: il primo rappresenta Niccolò da Tolentino alla testa dei fiorentini ed è attualmente conservato alla National Gallery di Londra; il secondo coglie il momento in cui Bernardino della Carda viene disarcionato; il terzo raffigura invece l’intervento decisivo di Michele Attendolo ed è conservato al Louvre. Si tratta di tre momenti distinti della famosa battaglia, di cui la produzione ha scelto di inquadrare quello dedicato al disarcionamento, a un gesto cioè che anticipa ciò che sta per accadere nell’episodio finale della prima stagione e che determina la vittoria della protagonista sull’antagonista. Può quindi essere considerata una mise en abyme in piena regola, e per quanto la sequenza in cui l’opera è visibile sia brevissima e quasi impercettibile, dietro questa scelta si cela di nuovo la volontà della produzione di rappresentare attraverso capolavori dell’arte europea il tema dell’ordine e del ripristino della quotidianità in uno scenario dove questo recupero è impossibile.
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Immagine di copertina:
fotogramma da Scott B. Smith, The Peripheral, 2022, © Amazon Prime Video.