[Pubblichiamo un estratto da Perdita e meraviglia alla fine del mondo di Laura A. Ogden, add editore, 2023, traduzione di Sara Reggiani. Per gentile concessione dell’editore]
La Fine del Mondo
Una figura
Le isole dell’arcipelago fuegino sono frammenti di terra che si sono staccati dall’estremità meridionale del continente americano. Li associo mentalmente ai cimeli di famiglia, alla loro vulnerabilità nelle mani del noncurante: manici di tazzine, il braccio teso di una ballerina di porcellana. L’unica differenza è che le isole sanno che nessuno rimetterà mai insieme i pezzi. Le isole della Terra del Fuoco a stento sopravvivono al turbolento matrimonio degli oceani Pacifico e Atlantico. Qui, in particolare intorno all’isola di Capo Horn, a un soffio dalla penisola Antartica, enormi navi cisterna rimpiccioliscono e soccombono dinanzi a formidabili muri d’acqua. Questi sono mari che creano e cancellano mondi.
Generazioni di lenti ghiacciai sono responsabili della formazione dell’arcipelago che Charles Wellington Furlong, figura centrale in questo libro, descrisse come «un inconcepibile dedalo di ritorti canali burrascosi».
Queste isole spazzate dal vento vivono in perenne stato di trasformazione. In origine lo Stretto di Magellano era di ghiaccio solido. Poi, nel corso della piccola era glaciale, un gran numero di iceberg ostruì il canale mettendo a rischio il passaggio dei mercantili spagnoli. Oggi il ghiaccio blu si tende dagli alti picchi delle Ande meridionali fino a toccare i canali.
Il toponimo utilizzato per l’arcipelago resta ambiguo. Molti scrittori contemporanei utilizzano “Terra del Fuoco” per indicare l’arcipelago nella sua interezza. Per la gente del posto, e nella letteratura storica, questo nome fa riferimento all’isola maggiore dell’arcipelago, anche se capita di sentirla chiamare “Isola Grande”. Nei resoconti storici, comprese le fonti d’archivio da cui ho attinto per il libro, la regione è chiamata anche “Fuegia” e “fuegini” i suoi abitanti nativi. Esistono molte varianti di questi nomi, tutti elaborati in maniera diversa tra Argentina e Cile. Ad esempio i cileni chiamano “selk’nam” le popolazioni indigene dell’interno della Terra del Fuoco (ossia dell’Isla Grande), mentre gli argentini li definiscono “ona”. In Cile il termine “yagán” è generalmente preferito dalla stessa comunità costiera, benché non sia insolito imbattersi nelle varianti “yaghan” e “yahgan”. In Argentina “yamana” era più comune, in particolar modo nelle relazioni etnografiche.
Se da un lato i nomi di popoli e luoghi variano, dall’altro è cosa comune descrivere questa regione chiamandola “la Fine del Mondo”. Portano questo nome rifugi per viaggiatori, antologie poetiche, itinerari di crociere, riserve naturali. Gli scrittori di viaggio non possono resistere al suo fascino. Come ho capito scrivendo delle Everglades della Florida, i tropi sono figure retoriche ricorrenti, frasi, immagini o idee che plasmano i nostri incontri con il mondo. I tropi emergono da uno specifico “apparato”, come il colonialismo o il capitalismo. I tropi limitano le possibili traiettorie delle costellazioni esistenziali. Ad esempio, il tropo dell’“inutile pantano” contribuì nel tardo XIX secolo ad avviare un’ampia opera di bonifica nelle Everglades. Come bene illustra questo caso, i tropi sono un mezzo con cui rivendicare un territorio, sia in senso geografico sia semiotico.
Quello della “fine del mondo” è il tropo principale dell’arcipelago fuegino. Lo si trova sia nella letteratura impegnata sia nella cultura popolare. Il libro più letto su questa regione è, ad esempio, Ultimo confine del mondo di E. Lucas Bridges, pubblicato nel 1948. Copie del libro con gli angoli delle pagine piegati si trovano nelle sale comuni di qualunque ostello della Patagonia meridionale, e il testo è superato in notorietà forse solo da In Patagonia di Bruce Chatwin. In Ultimo confine del mondo, Bridges mette in piedi un resoconto dell’ambientamento e insediamento della sua famiglia di missionari tra famiglie fuegine selk’nam e yagán. Il libro si apre con l’arrivo della famiglia nel 1871: dopo un’ardua traversata dall’Inghilterra, la madre di Bridges, stanca e malata, sbircia oltre la prua della goletta verso riva e ripensa alla descrizione che il marito le ha fornito della loro nuova casa. «Le aveva detto del clima rigido, delle lunghe, terrificanti notti invernali, della solitudine di quando si è completamente tagliati fuori dal mondo esterno, con lega dopo lega di landa impassibile a dividerci dal più vicino insediamento dell’uomo civilizzato […] In codesta regione selvaggia e desolata, le aveva detto, non c’erano né medici né polizia né governo di nessun genere; e, al posto di cortesi vicini si era circondati da, e alla totale mercé di, tribù di fuorilegge senza disciplina né religione». Come dimostra il brano di Bridges, il tropo della fine del mondo comunica un senso di marginalità estrema che va oltre la sua geografia. Insinuando l’idea di un paesaggio pericoloso («sono terre che potrebbero scivolar fuori dalla mappa»), questo tropo suggerisce un terreno moralmente insalubre, una geografia che elude la “civiltà”; «nessun medico, nessuna religione, nessuna legge». Non si può dire che la retorica imperialista sia delicata ma, sorprendentemente, persiste.
Nell’arcipelago fuegino la fine del mondo è un elemento, una forza vitale. L’afflato apocalittico che lo ammanta risuona sia nel nostro modo di concepire il presente come un’epoca ecologicamente precaria, sia in quello di immaginare il futuro. In questo libro il tropo della fine del mondo ha una duplice funzione: mi aiuta a esplorare l’atmosfera del rischio associato con la collocazione dell’arcipelago nella Storia, e le dimensioni temporali di un’esistenza in tempi di perdita e meraviglia.
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Immagine di copertina:
Ghiacciai nello Stretto di Magellano, arcipelago fuegino, 1908. Fotografia di Charles Wellington Furlong.