[Il 3 febbraio 2023 è uscito per minimum fax il saggio di Marco Rovelli, “Soffro dunque siamo. Il disagio psichico nella società degli individui”. Con il permesso dell’editore ne pubblichiamo un estratto].
Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema. Fin dai primi giorni del lockdown prese a circolare questo slogan. Che però, a distanza, pare più un auspicio che una realtà. I binari della cosiddetta normalità non sembrano essere stati scalfiti dall’emergenza pandemica, ma, semmai, rafforzati. Eppure, questa emergenza ci ha mostrato tutti i problemi di quella normalità in una deflagrazione rallentata, come nello scoppio di Zabriskie Point, nel rallentamento di un tempo sospeso dove il futuro viene radicalmente messo in questione. In questa sequenza lentissima, che ci permette di focalizzare i dettagli, vediamo emergere i segni di un disagio che si colloca al centro di questa nostra civiltà. I media stessi ce lo dicono ripetutamente: con la pandemia, è esploso il disagio psichico. Ma è stato generato o è stato innescato? Non sarà che è letteralmente esploso, e ciò che era già in attesa è affiorato in superficie con la sua terribile forza d’urto? Non sarà che questo varco temporale che è stata la pandemia ci ha permesso di gettare uno sguardo più profondo sulla natura del disagio psichico, su quanto esso appartenga costitutivamente al nostro tempo, e sul modo limitativo in cui di solito lo intendiamo?
La pandemia è un tempo sospeso per tutti. D’un tratto, la percezione del tempo si trasforma. Scompare la profondità di campo, la prospettiva si deforma: come un’anamorfosi, come un teschio. Il passato non è più un «sembra ieri», ma viene allontanato in una dimensione mitica, il «qualche mese fa» diventa «sembra un secolo fa». Il futuro è allontanato in una dimensione palingenetica: non c’è più presa possibile su di esso, non c’è più misura comune, niente che consenta di afferrarlo, orientarlo, farlo proprio. Si sta sospesi in un eterno presente: ma anche il presente sembra scomparso, perché il tempo vive solo nello spazio, nel contatto con le cose: e le cose sono lontane, tremendamente lontane.
Il tempo della pandemia, allora, diventa il tempo di una messa in questione della realtà. Ma quando si pone in questione qualcosa, occorre avere le risorse per dare delle risposte. E se queste risorse non si hanno, si sta male. E il malessere, il disagio, la sofferenza psichica in questo tempo sospeso sono cresciuti enormemente. Ma questa esplosione del disagio – sintomi depressivi o ansiosi generalizzati – non è un’irruzione improvvisa, una comparsa di alieni dallo spazio. Essa è da intendersi proprio alla luce della nostra mancanza di risorse per far fronte a una crisi già in atto. Il tempo della pandemia è un’accelerazione di processi di lunga durata. Che riguardano il nostro modo di abitare il mondo.
Sono molti gli studi che raccontano di una crescita significativa dei disturbi depressivi e ansiosi dovuti al senso di carcerazione e all’isolamento forzato, alla perdita di relazioni e di «normalità» esistenziale, ma anche allo smart working, che può portare a un collasso della separazione tra tempo del lavoro e tempo di vita, laddove si deve essere sempre operativi, presenti agli imperativi e alle prestazioni richieste dal lavoro. Per non dire, poi, di chi il lavoro lo perde.
Proviamo dunque a pensare il disagio prodotto da questa situazione non come un cataclisma esterno, ma come qualcosa di latente che emerge, che viene portato alla luce. I sintomi ansiosi e depressivi, così come gli altri disturbi aggravati dalla situazione pandemica, non sono forse qualcosa di estremamente comune, indipendentemente dalla pandemia? L’ansia, il calo nel tono dell’umore, la depressione, l’agitazione, il panico, sono condizioni diffusissime nella nostra società. La pandemia, allora, ci dà una straordinaria opportunità per riflettere su come il disagio psichico sia un sintomo che ordinariamente trascuriamo, e che invece contrassegna profondamente la nostra società in senso pienamente politico.
«Salute mentale», si dice. Già il termine salute è insidioso. Salus, salvezza. Quale salvezza? Esistono forse i «sani», col motore mentale a posto, e i «malati», col motore rotto? Questa è l’illusione dominante. Troppo comodo, però. O si tratta della salvezza di chi rischia di annegare in un naufragio? Sono molti i modi per salvarsi da un naufragio: una nave che passa, un compagno che stava nel naviglio dal quale siamo caduti, un rottame della barca andata in pezzi a cui aggrapparsi… L’essenziale è scampare al naufragio, sopravvivere. Ma anche in questo caso, il naufragio non sarà ancora una volta la condizione dei «malati» che non riaffiorano alla luce? Forse, allora, non bisogna parlare di salvezza. Perché nessuno è salvo, mai, e non ci sono destinati al naufragio: non c’è bianco/nero, nell’esistenza. E in ogni caso, niente ci riporta a uno stato iniziale integro. Se da qualche parte un cammino ci porta, lo fa verso una consapevolezza del nostro incessante trasformarci. La salvezza non ci salva dalla nostra precarietà, ci fa comunque restare esposti ai pericoli e ai rischi del transitare nel mare della vita. E si tratta di riprendere un cammino. Di capire dove andare. Di costruire un senso. La salute è allora ciò che ci restituisce alla nostra possibilità di tracciare autonomamente un senso, di costruire un progetto, di individuare un orizzonte.
© Marco Rovelli, 2022
© minimum fax, 2023
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Immagine di copertina:
Edward Hopper, Cape Cod Morning, 1950, Smithsonian American Art Museum