Paola Labriola e Barbara Capovani, psichiatre e donne vittime di omicidio, sono raccontate come protagoniste della “psichiatria gentile”. Quali sono gli impliciti di questa narrazione che ci vuole cortesi, miti, magnanime e benevolenti?
Il gentil sesso riabilitato, non più debole, assume su di sé «il potere come servizio, apertura, dovere e disciplina»,1 parafrasando Rosa Fiore. Leggiamo sulle pagine del Corriere: «Nella sua vita ha sempre aiutato chiunque», e ancora «Viveva per il lavoro», «Il suo impegno era quello di cambiare un sistema con leggi che riteneva ormai inadeguate».

Mi ricorda un poco l’agiografia di Cornelia Fabri, prima laureata in matematica dell’Università di Pisa, che tornata a Ravenna, città natale, per dedicarsi alla famiglia e alle opere di carità «con la sua Gentil Scienza ha avviato un iter per cambiare dall’interno la società che la circondava» (La Gentil Scienza, cit., p. 45).
Il martirio di donna si completa nell’agito violento che cancella per un attimo il conflitto tutto interno al maschile tra inermità e potere, dipendenza e cancellazione di ogni legame, corporeità e pensiero, sentimenti e ragione. E ancora di Paola leggo che «esercitava le sue funzioni con abnegazione»2 con la sottolineatura di una disposizione femminile di rinuncia agli interessi personali per motivi superiori (quelli di un figlio-paziente): «era una dottoressa bravissima e affettuosa».3

Negli studi di Johann Jakob Bachofen la donna è vista unicamente come madre senza che sia previsto il suo sviluppo come individualità femminile: le si riconosce un’anima che deve nutrirsi dei pensieri degli uomini, assecondandone e prevenendone i bisogni. Nella figura della donna che la natura consegnerebbe all’uomo «debole, amorosa, dipendente»,4 maternamente incline a prendersi cura di lui, si fondono l’insignificanza storica delle donne e insieme la loro esaltazione immaginativa.
Eppure le donne esistono e resistono, colpite anche sul posto di lavoro:

«Come emerge dal nuovo Dossier Donne dell’Inail che analizza i dati ancora provvisori del biennio 2021-2022, e quelli annuali consolidati del quinquennio 2017-2021, il 3% di tutti gli infortuni femminili avvenuti in occasione di lavoro, e riconosciuti dall’Inail, riguarda aggressioni o violenze e tra le lavoratrici aggredite, oltre il 60% svolge professioni sanitarie e assistenziali. Nell’ambito della sanità, quella degli infermieri è la categoria più colpita ed il 75% delle aggressioni riguarda donne».5

Leggevo la cronaca della morte annunciata di Barbara Capovani, collega di Pisa, con gli aggiornamenti sulle sue condizioni tra la vita e la morte e le speculazioni sul presunto assassino, Seung, descritto come braccio armato dell’antipsichiatria o di una certa psichiatria “gentile, troppo” mentre sfogliavo le pagine di un romanzo, Il buon auspicio di Lorenza Ronzano, la cui autrice, scrittrice e consulente filosofica in formazione presso un Day Hospital psichiatrico, raccontava la sua storia di mancato riconoscimento (intrafamiliare e sociale) e feroce etichettamento (da schizofrenica appena maggiore di età a intellettuale sovversiva e riluttante), simile a quella dei pazienti di cui aveva voluto raccontare la storia dal suo punto di vista e senza il loro consenso, con l’intento di «restituire dignità a coloro che soffrono, alla luce di una più umana comprensione del disagio psichico» (dall’Introduzione). Nel romanzo, l’autrice si trovava sola nella riappropriazione della sua biografia traumatica senza che nessun vero aiuto le arrivasse per sceverare la sofferenza sua propria da quella altrui e nulla poteva essere offerto in luogo della denuncia della desolazione sua e dei pazienti incontrati. La lettura simultanea del bollettino medico sottratto alla privacy di Barbara transeunte e del romanzo mi ha fatto pensare a quanto le donne abbiano una superficie di esposizione delle loro vulnerabilità conosciuta e sfruttata, e prendano voce solo quando i loro corpi di sante soccorritrici o di puttane delatrici sono martirizzati dalla violenza o dalla malattia.

Paola Labriola è morta nel CSM del quartiere Libertà di Bari il 4 settembre 2013 per mano di un uomo riconosciuto colpevole di omicidio volontario con aggravante di crudeltà. È stato poi condannato anche il direttore generale dell’Azienda Sanitaria in cui Paola lavorava perché, come titolarono i giornali, «la sicurezza [fu] sacrificata al budget»,6 per girare intorno alla questione che il datore di lavoro, uomo, con obblighi indelegabili e inderogabili – come la valutazione dei rischi e la elaborazione del Documento di Valutazione dei Rischi – ha trascurato la sicurezza dei suoi dipendenti, in larga parte donne nei servizi di salute mentale. Forse una donna avrebbe provveduto diversamente per il suo talento nel prevenire e assecondare i bisogni della prole di cui è responsabile?
Nella relazione tra uomo e donna la violenza può essere allusa, minacciata, collateralmente distillata fino allo scoppio della violenza manifesta: ci sono parentele insospettabili che spesso preferiamo ignorare tra amore e odio, tenerezza e rabbia, vita e morte.

Come scrive Lea Melandri, ne Il disagio della civiltà (1929), Freud riconosce l’intreccio sorprendente tra Eros e Thanatos:

«[L’uomo] vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturalo e a ucciderlo».7

Questi ultimi femminicidi sul luogo di lavoro ci riportano alla questione che il corpo su cui l’uomo si accanisce è quello che gli ha dato la vita, le prime cure, che se ne è preso cura nel momento di maggiore inermità e dunque di dipendenza anche.
La fuga dal femminile – che ha come esito patologico il bisogno di difendersi dall’angoscia di perdersi nel femminile svalutando, controllando, silenziando – è anche fuga dai bisogni infantili di dipendenza: se l’uomo fosse solo il dominatore non avrebbe bisogno di umiliare e uccidere.
La tendenza ad attribuire alla società il passaggio del maschio dall’amore alla violenza come l’esito di un addestramento all’esercizio del potere da parte della conventicola di confratelli rassicura rispetto all’ ambivalenza di sentimenti insita nelle relazioni più intime.

Il femminismo materialista degli anni Settanta ha incluso nel concetto di lavoro non solo le forme salariate, ma anche l’altro lavoro svolto gratuitamente nella sfera privata: quello domestico, di crescita dei figli, la sessualità coniugale come lavoro riproduttivo delle donne. Sul piano teorico ciò ha comportato una grande acquisizione, su quello sociale e politico tuttora il lavoro delle donne è pensato come “doppio lavoro”; le donne lavoratrici sono le sole implicate in una conciliazione tra le sfere di attività.

«La civiltà del lavoro è un sistema androcentrico dove i contributi femminili passano per lo più inosservati […] Pensare il lavoro dele donne implica che si continui a decostruire l’episteme viril-capitalistica del lavoro» (Pascale Molinier, Care: prendersi cura, Moretti & Vitali Editori, Bergamo, 2019, p. 35).

Siamo passati dalla considerazione del lavoro domestico come produzione e riproduzione della forza lavoro necessaria al capitale, lavoro gratuito elargito in nome dell’amore e strettamente legato all’economia generale, al lavoro extra-familiare nell’ambito delle professioni di cura sempre più frequentemente svolte da donne.
È necessaria una riflessione sul fatto che il care appartiene alle donne solo in quanto gli uomini se ne sono sbarazzati, dagli affari domestici alle professioni d’aiuto, non per natura ma perché è l’eredità socio-storica della civiltà del lavoro a volerlo. Come scrive Pascale Molinier, «L’etica dell’amore è una forma di resistenza contro la sofferenza al lavoro, una creazione di senso da parte delle assistenti di cura» (cit., p. 134). E ancora:

«[è] proprio intorno all’equivoco dell’amore o quantomeno di ciò che le lavoratrici del care chiamano così, giudicato non professionale da alcune, considerato come la cosa che conta da altre, che potrebbe ricomporsi in maniera creativa il gruppo allargato delle dipendenti di Villa Plénitude 8 come gruppo che pensa, agisce, vive. […] Care è la parola colta che si fa strada, amore è la parola popolare, che non passa bene» (p. 160).

Dopo la morte di Barbara Capovani per mano di una persona ripetutamente segnalata e oggetto di diversi interventi giudiziari e sanitari – un paziente, un uomo – si dovrebbe riflettere sulla sicurezza come prodotto di un lavoro comune per il rilancio di un patto sociale, di un solidarismo che rischia di perdersi nella frammentazione, nella violenza e nell’anomia della società attuale. Le colleghe sono state le donne di una resistenza contemporanea in un contesto sociale che ha svalutato le competenze tecnico scientifiche, il prestigio del lavoro di cura, l’autorevolezza del servizio pubblico come si è reso evidente in epoca pandemica e in cui la patologizzazione del disagio comporta un carico improprio dei servizi sanitari ritardandone così la soluzione. Dovremmo provare ad adottare un punto di vista femminista sul lavoro. Ciò non si esaurisce in una lamentatio sulla condizione di vittime delle donne, ma rovescia l’ordine delle priorità politiche in una antropologia del care «a partire dalle esperienze femminili del care e nell’interesse di tutti, decostruendo la categoria della performance, una tra le più potenti categorie del dominio al giorno d’oggi» (Molinier, cit. p. 174). Da questa prospettiva la sicurezza è il prodotto di un lavoro comune.

La legge 81/2014 9 potrà dirsi applicata solo con la realizzazione di un sistema di cura e giudiziario di comunità in una collaborazione interistituzionale (magistratura, forze dell’ordine, avvocatura) senza deleghe improprie alla psichiatria, che può esercitare un solo mandato, quello della cura e della sorveglianza sanitaria: non serve definirla «gentile» per escluderla dall’antico mandato custodiale. Mi ricordo le storie di donne internate, quella di Antonia Bernardini e il suo «viaggio al termine di un manicomio», morta il 31 dicembre 1974, e di Elena Casetto, morta carbonizzata a 19 anni in un letto del reparto di psichiatria dell’ospedale «Papa Giovanni» di Bergamo il 13 agosto 2019: donne sacrificali nella rappresentazione che la stampa assegna loro. Diventano testimonianza viva appena accese dal rogo, che sia l’olocausto interno della follia o che sia l’esito delle fiamme sul loro corpo immobilizzato.
La parola di donna può dire molto sulla continua proiezione dell’uomo su di lei della debolezza, della colpa, della salvezza o dannazione rendendo evidente, attraversabile e sostenibile quella debolezza che l’uomo arma per non vederla diventando così, come scrive Stefano Ciccone in Essere maschi. Tra potere e libertà, «una risorsa per permettere agli uomini una diversa esperienza di sé e del proprio corpo e dunque per aprire una strada di uscita dalla violenza».

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Note:

1) La Gentil Scienza, a cura di Rosa Fiore, Rossella Mazzanti, Irene Degl’Innocenti, Edizioni ETS, 2014, p. 9.
2) Cfr. la motivazione della sentenza riportata dalla RAI: https://www.rainews.it/tgr/puglia/articoli/2021/10/pug-omicidio-paola-labriola-domenico-colasanto-motivazioni-sentenza-ae337799-a6c5-4f4c-9bc9-75313da03e4f.html
3) Cfr. https://www.baritoday.it/cronaca/omicidio-al-liberta-dottoressa-paola-labriola-sim-uccisa-4-settembre-2013.html
4) Jules Michelet, L’amore, Rizzoli, Milano, 1987, p. 107.
5) Cfr. Schillaci: la violenza interessa una donna su tre, sul lavoro il 60% delle aggressioni a operatrici sanitarie, Il Sole 24 Ore: https://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/dal-governo/2023-03-08/schillaci-violenza-interessa-donna-tre-60percento-aggressioni-lavoratrici-sanitarie-121029.php?uuid=AEKNeC0C&refresh_ce=1
6) Cfr. Omicidio Labriola, sicurezza “sacrificata” al budget, TGR Rai: https://www.rainews.it/tgr/puglia/articoli/2021/10/pug-omicidio-paola-labriola-domenico-colasanto-motivazioni-sentenza-ae337799-a6c5-4f4c-9bc9-75313da03e4f.html
7) Si veda L. Melandri, La violenza sulle donne non è un’eccezione: https://www.internazionale.it/opinione/lea-melandri/2014/11/25/la-violenza-sulle-donne-non-e-un-eccezione
8) Casa di riposo in cui l’autrice conduce la sua ricerca sulle pratiche che costituiscono la cura o meglio il prendersi cura degli altri come una zona di conflitto, di strappi e di potere, usando gli strumenti della filosofia morale.
9) È stata proprio legge n. 81 del 2014 a fissare al 1 aprile 2015 la data definitiva della chiusura degli OPG mettendo fine a un percorso legislativo iniziato con la legge 9 del 2012 (“Disposizioni per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari”). Il 27 dicembre 1974 all’OPG di Pozzuoli prendeva fuoco il materasso del letto dove Antonia Bernardini era legata da 56 giorni. La donna muore tra il 31 dicembre e il primo gennaio 1975. Condannato il Direttore, l’Istituto chiude il 31 marzo dello stesso anno. Le donne vengono trasferite a Castiglione delle Stiviere che diventa l’OPG femminile italiano.

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Immagine di copertina:
Oskar Kokoschka, Die Windsbraut, 1913 – Kunstmuseum Basel