«Sui banchi del liceo e nelle aule universitarie la tragedia è oggetto di studio come genere letterario, tutto sommato facilmente identificabile e classificabile, dalla testimonianza della Poetica aristotelica al saggio di G. Steiner, Morte della tragedia. È un ricco terreno di ricerche e di riflessioni che consente scorribande nei secoli e nelle diverse culture: molto di ciò comparirà negli interventi che seguiranno. Ma vi è un’altra strada che si può percorrere, intrapresa da non molto tempo: quella dell’approccio filosofico, il tentativo di inquadrare il tragico come “qualcosa di essenziale per la comprensione del mondo”. Strada particolarmente battuta nel mondo germanico da Schelling e da Hegel in poi e di una certa attualità oggi, come risulta dalle pubblicazioni recenti dedicate all’argomento. […] La tragedia vuole che sappiamo che l’esistenza umana è di per sé una provocazione o un paradosso; ci dice che le intenzioni degli uomini spesso s’infrangono contro forze inspiegabili e distruttive, forze che stanno all’esterno eppure vicinissime. Chiedere agli dei perché proprio Edipo sia stato scelto per soffrire il suo destino o perché Macbeth abbia dovuto incontrare le streghe sul suo cammino, è come chiedere ragione o giustificazione alla notte. Non c’è risposta» (S. Casarino, Il senso del tragico e la tragedia, p. 9).
Quando leggo una tragedia, la sensazione che provo è qualcosa che va al di là del solo coinvolgimento letterario. Ciò che differenzia per me un saggio, un romanzo o un fumetto dalla composizione tragica è il contatto con le più profonde dimensioni delle nostre vite. Con l’incontrollabile serie di fattori nascosti, imprevedibili, spietati che fanno parte dell’esistenza di ognuno. Con l’ingiustizia degli avvenimenti che ci coinvolgono, a cui spesso il protagonista non può opporre alcuna resistenza, ma anzi: proprio il suo disperato – e umano – tentativo di nuotare nelle acque burrascose delle avversità precipitano il suo destino. È la triste sorte di chi, ignaro delle trame che gli dèi intessono, si muove in avvicendamenti impossibili da vedere se non dal lettore esperto, o dal coro che interpreta il vissuto emotivo di chi impotente osserva il dis-astro che si allinea e compie. Ed è proprio su questo perno di impotenza che si articola una delle multisfaccettate dimensioni della catarsi: è la presa di consapevolezza di quanto uomini grandi e possenti, protagonisti di eventi degni dell’intervento delle più alte sfere divine, e semplici mortali siano legati dallo stesso comune destino. Vittime delle macchinazioni del Fato, tradotto in senso laico nelle complessità del caso, assurto come una casualità/causalità che a livello sistemico è impossibile da osservare e al contempo intellegere – se non quando, con uno sguardo alla celebre indeterminazione, già è troppo tardi. Angelo Tonelli, in appendice al maestoso volume edito da Bompiani e da lui stesso curato sui tre principali tragediografi della classicità, in maniera ben poco ermetica scrive: «l’Essere guarda se stesso: è questa l’ontologia del tragico» (p. 3079). Difatti, in linea con quanto detto prima, occorre riconoscere essenzialmente che «la tragedia è Sapienza al culmine, perché è vita che guarda la vita, non lógos che la incateni nella ragnatela illusionistica del pensiero» (Ivi). Come accennato anche dall’esergo tratto dall’intervento di Stefano Casarino, occorre prestare attenzione a non lasciarsi ingannare: difatti, ammonisce Giuseppe Fornari, «fra tutti gli equivoci che aduggiano o minacciano i drammi antichi il più pericoloso, perché più verosimile, è che si tratti di opere “letterarie”» (p. 11). Molto più veritiero, invece, considerarle come «inestimabili documenti di pensiero, non di semplice “letteratura”» (Ivi). Esse avevano un ruolo rappresentativo essenziale nella classicità, e portavano in scena elementi misterici e performativi della società di allora. Ma al di là della conoscenza tragica, che di per sé può non essere parte del bagaglio di tutti, è il testamento di pensiero, la sua eredità culturale che è ancor più inestimabile e tuttavia ormai evanescente.
Nello scritto, Casarino si interroga su quale sia il senso del tragico in questa società, ma io mi domando invece quale sia il senso della sua totale assenza. Perché la tragedia è sparita e ci alimentiamo di storie dove le avversità alla fine vengono superate, o giustificate, o rese accettabili? Dove trionfa sempre almeno una possibile giustizia e nulla resta al caso?
Potrà sembrare una riflessione priva di interesse, e può darsi che lo sia per molti, ma mi domando se tutto questo menefreghismo percepito, questo indebolimento della nostra empatia, nella società attuale dove the show must go on (no matter what, aggiungerei), non sia da ricondurre almeno in parte a questo mancato percorso catartico, dove il Destino crudamente ci riportava con i piedi per terra. Ci ricordava che la nostra finitudine iniziava ben prima dell’inizio di quella degli altri, e che esisteva uno spazio grigio non governato dalle regole della volontà.
La dialettica del “volere è potere”, per quanto possa apparire un mantra capacitante, si rivela invece disarmante: il mondo non si plasma attraverso la volontà, e il confronto con questa impotenza genera frustrazione e impoverimento della comunicazione con il mondo esterno. Finisce per farci diventare isole di “ideali di potenza”, destinate a naufragare alle colonne d’Ercole dell’irraggiungibile Altro. Un Io fragile, non temprato dalle ingiustizie dell’ineluttabile, dove l’essere colpevoli o innocenti non muta le sorti dell’uomo. Una china per certi versi aspra, ma che non nasconde la natura stessa della vita.
Questo chiaramente spaventa: l’essere umano ha da sempre messo a punto dispositivi per rendere prevedibile ciò che non poteva comprendere. Le tecniche divinatorie, i rituali religiosi, il pensiero magico che ancora ci conforta – con quel portafortuna sempre vicino a noi o quel gesto scaramantico che farà sicuramente andar bene le cose. E, non meno importante e certamente ben più articolata, la scienza: essa è nata per comprendere e analizzare, rendere evidenti i fatti che non lo erano. Ma soprattutto, renderli prevedibili. Per farlo, sempre più nel corso della storia essa si è spogliata del fattore umanistico, e ora le nuove frontiere sono proprio quelle di far sparire l’umano tout court. Le intelligenze artificiali corrono questo rischio, ed è per tale ragione che è importante riflettere attentamente su questi percorsi di sviluppo. Anche in questo caso, un ritorno a una riflessione epistemologica basata sulla umile caducità di ciò che siamo, con una più radicata ponderazione su ciò che sia opportuno fare, al di là di ciò che si dimostra possibile fare, e sulle (non sempre) prevedibili – per l’appunto – conseguenze potrebbe essere una via percorribile.
Non solo nel pensiero scientifico, ma anche se non soprattutto in quello delle narrazioni quotidiane manca il senso del tragico: tutto scorre, anche le notizie più nefaste, in un ruscello di continuità. Tutto è risolvibile, magari con l’aiuto del potere del denaro o della potenza mediatica, tutto è raggiungibile e ogni mezzo è giustificato per ottenerlo. E così assistiamo a un fiorire di atti, come quello di riprendere un incidente invece di soccorrere; come quello di postare commenti non richiesti su eventi di vita di una gravità indescrivibile; come anche quello di sentirsi scagionati solo perché dietro allo schermo c’è una opinione sempre difendibile e sempre scriminabile in virtù della supremazia individuale. Ciò che dovrebbe imporre un senso di attonito mutismo lascia ora indifferenti, come se non ci potesse raggiungere o non ci dovesse riguardare. “Quell’umano che guardo non sono io”, e così si perde quel fil rouge che invece nella tragedia univa re e contadini, dèi e mortali, attori e spettatori. Ora il leitmotiv, o perlomeno il rischio sottostante, pare essere vivere la propria vita come unico protagonista in un mondo di comparse. Il potere dell’oblio,1 che in altri contesti considero in senso estremamente positivo in riferimento al diritto esercitabile sui propri dati personali previsto dalle normative europee, rende tuttavia superflue le narrazioni non vissute con quello spirito ontologico incentrato sulla metariflessività di cui parlava Tonelli. E questo non è solamente da imputare alle fonti di informazione: siamo noi in primis a non lasciare, spesso, che quel dionisiaco emotivo penetri nelle nostre quotidianità. Lo respingiamo, difendendoci da quella fragilità che parla anche di noi.
In definitiva, una riflessione ancora mi viene da fare. Forse, ci siamo troppo abituati a essere seduti sul trono di questo mondo, pensandoci esseri il cui destino è intoccabile e in cui l’inspiegabile amarezza di ciò che avviene semplicemente, così com’è, non ci tocca più. Ci siamo costruiti un mondo immaginifico, dove tutto è dovuto e ogni passo deve portare verso una inesorabile felicità, frutto del duro lavoro e sacrificio. Per contro, la tragedia ci ricorda quanto siamo più caduchi di così a fronte delle avversità della vita, ci riporta all’effimero del presente rispetto all’inarrestabile avanzata dell’universo – prima e dopo di noi. Qual è, allora, il senso della scomparsa della tragedia? La nostra paura profonda, il nostro terrore di ricordarci, di tanto in tanto, d’essere in balia di un mondo che non è in alcun modo tenuto a renderci felici.
Riferimenti bibliografici
Casarino, S. e Raschieri, A. A., Il senso del tragico e la tragedia. Atti del convegno. Roma, Aracne, 2010.
Fornari, G., La conoscenza tragica in Euripide e in Sofocle, Massa, Transeuropa, 2014.
Tutte le tragedie. Eschilo-Sofocle-Euripide, a cura di A. Tonelli, Bompiani, Milano, 2013.
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Note:
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Immagine di copertina:
Dioniso, maschera teatrale in terracotta, II/I secolo a.c. circa, Musée du Louvre