Ritorno al futuro
Non è un mistero l’esistenza, specialmente tra una considerevole fetta di pubblico di lettori, ma anche di addetti ai lavori estranei al genere, di un’opinione secondo la quale la “fantascienza italiana proprio non va”. Ed è possibile che anche tu, che hai iniziato a leggere queste righe, in questo momento stia annuendo impercettibilmente, pensando che in effetti è proprio così, anzi forse addirittura che è sempre stato così e magari persino che non c’è niente da fare. Può anche essere che tu stia annuendo senza renderti conto di stare annuendo. Eppure non bisogna trascurare la possibilità che chi muove quest’accusa sia condizionato dal medesimo bias, oppure non sia del tutto aggiornato, o forse un po’ entrambe le cose, poiché la seconda alimenta la prima e la prima condiziona la seconda, trasformando l’opinione in un pregiudizio. Il punto è che la fantascienza italiana è una fitta foresta con una crescita ormai ben più che cinquantennale e dunque complicata da radure nascoste, passaggi angusti, virgulti inestricabilmente avviluppati tra loro, a tratti buia e impenetrabile, ma capace di aprirsi in scorci straordinari, con sentieri quasi sempre tortuosi, a volte vicoli ciechi, tronchi caduti, cespugli di rovi, piante infestanti ed erbe velenose che circondano porzioni devastate dal fuoco e aree infettate da malattie sconosciute, per non parlare delle creature che la popolano, sia quelle pucciose e mansuete sia le altre, quelle più mostruose, che si aggirano solo nelle notti di Luna nuova. Insomma, non si tratta di un territorio da pic-nic della domenica, figuriamoci tracciarne una mappa per cercare di orientarsi. E questo non è detto che sia semplice nemmeno per chi, come il sottoscritto, si aggira in questa zona con una certa continuità da ormai quasi trent’anni, e ha dunque acquisito una discreta familiarità col paesaggio, vivente e non vivente, che lo costituisce. Vorrei però provare a farvi lo stesso da guida. Può essere che scopra qualcosa di nuovo anch’io. Per il resto il machete ce l’ho. A voi bastano un paio di scarpe adatte, acqua e un po’ di curiosità e pazienza. Se avete tutto questo, seguitemi (e cercate di non toccare nulla).
Una vista dallo spazio
Mentre cominciamo ad addentrarci nel folto della vegetazione, lasciate che vi mostri un’immagine dall’alto ripresa dal mio drone. Per vedere dove stiamo andando, credo sia necessario capire (e sapere) come si è formata questa piccola regione nel continente della letteratura e da dove ha iniziato a germogliare, ovvero quali sono stati i semi che, nel corso degli anni, hanno contribuito a far nascere e sviluppare la fantascienza come la vediamo prodotta oggi in Italia. In questo caso abbiamo la fortuna di conoscere con precisione il punto in cui tutto è cominciato, ovvero la germinazione dell’albero editoriale che ha plasmato e, in parte, plasma tutt’ora, l’immaginario fantascientifico del nostro paese.
Quasi esattamente settantuno anni fa, il 10 ottobre 1952, a cura di Giorgio Monicelli (fratellastro del regista Mario) al prezzo di 150 lire usciva il primo numero de I romanzi di Urania, ovvero Le sabbie di Marte di Arthur C. Clarke. All’epoca la meravigliosa foresta della fantascienza in Italia non era solo un luogo del tutto inesplorato, ma anche (soprattutto) inaccessibile. Così, Urania – che abbreviò il suo titolo nel 1957 – fu la prima occasione per accedervi e trovare nel nostro Paese, quindi tradotti nella nostra lingua e a disposizione di tutti, i grandi libri di una tradizione già ormai più che decennale oltreoceano, dove la Golden Age per molti era addirittura già terminata e per gli altri sarebbe comunque finita di lì a poco. E questa è una prima evidenza importante. Quando la fantascienza iniziò ad arrivare dalle nostre parti, nei paesi anglofoni – che fin dall’inizio, bene o male che sia, hanno costituito il nostro riferimento tradizionale per il genere – aveva già fatto la Storia con un corpus di opere radicato nell’immaginario dei lettori e che potevano già essere considerate dei classici. In altre parole, quando noi abbiamo messo piede per la prima volta nella foresta della fantascienza, il panorama era già fitto e rigoglioso di capolavori consolidati e acclamati. Ovviamente noi prendemmo ad aggirarci in quella specie di paradiso del sense of wonder con la più cieca fiducia e il più grande entusiasmo, combinati all’ottimismo per la fine degli orrori di una guerra che sbiadiva nei ricordi, e per una situazione economica già avviata verso il boom: eccitati dall’avventura del futuro che si stava aprendo di fronte a noi.
Germogli alieni
Quando poi nel 1958 la direzione della collana fu assegnata alla “premiata ditta” Fruttero e Lucentini la collaborazione con autori italiani – che nei primissimi anni, sotto la guida di Monicelli, aveva contato non più di una dozzina di titoli su oltre duecentottanta (ovvero circa il 4%, e quasi tutti sotto pseudonimo) – si trasformò, passando esclusivamente attraverso l’invenzione della versione uranica della più classica rubrica della “posta dei lettori” che ogni rivista degna di questo nome sembrava dovesse avere. Fu come cercare di piantare qualcosa di nuovo, ma in un angusto spiazzo imboscato e defilato. Qualcosa che sembrava essere lì per dare un contentino al pubblico, ma sottraendosi all’impegno di prenderlo troppo sul serio. Nel contenitore che fu battezzato Il marziano in cattedra, il Professor Marziano, ovvero Franco Lucentini (anche se forse non esclusivamente lui), prendeva per mano il pubblico come un vero insegnante, spiegando e dando consigli e chiedendo in cambio ai lettori di cimentarsi in esercizi di prosa, poesia e persino disegno. Sempre in tema fantascientifico, ovviamente. Evidentemente il terreno era fertile e il desiderio di esprimersi degli italiani era forte, perché il pubblico non si fece pregare, ma rispose con risultati che a tratti dimostrarono freschezza, brillantezza e originalità. Tuttavia, l’esperienza non ebbe alcun tipo di seguito o di evoluzione. Dopo qualche anno, semplicemente, si esaurì e fu abbandonata, soprattutto per le difficoltà crescenti di Lucentini di trovare tempo da dedicarle per farla funzionare a dovere.
Zone d’atterraggio
A parte questa esperienza di rapporto con i lettori – peraltro non del tutto trascurabile, anche solo per aver dimostrato che dall’altra parte delle copertine c’era qualcuno che aveva voglia di mettere in gioco la propria immaginazione – nel corso dei ventitré anni di gestione F&L, solo una volta sulla copertina di un Urania comparve il nome di un italiano. Si trattava di Aldo Palazzeschi, che fu incluso nell’antologia Il punto nero. Per il resto rimase famosa la posizione di chiusura dei due scrittori/curatori, che finì per condensarsi nella frase ormai mitologica: «un disco volante non può atterrare a Lucca». Dico mitologica, perché non mi risulta che ci siano prove oggettive (se qualcuno le ha, le tiri fuori!) che la frase sia mai stata pronunciata esattamente in questi termini. Di sicuro però ci fu un’intervista nel 1968 a Carlo Fruttero per il settimanale RAI L’approdo, in cui lo scrittore affermava che se un disco volante fosse atterrato a Little Creek nel Nevada subito sarebbe stata coinvolta l’FBI e informato il Presidente degli Stati Uniti, e così fin dal principio l’evento sarebbe stato impregnato di quell’atmosfera globale, perfettamente degna della prodigiosità dell’avvenimento. Al contrario, se fosse atterrato nel Comune di Boffalora in provincia di Milano, magari sarebbero stati dei pescatori del Ticino ad accorgersene e ad avvertire il maresciallo dei Carabinieri, dopodiché il Sindaco avrebbe preso una 600 per correre dal Prefetto eccetera. Insomma, secondo Fruttero si sarebbe trattato di una situazione da commedia, non all’altezza di reggere il peso straordinario del mistero e della mitologia intrinseca a una circostanza del genere.
Un altro habitat
Senza entrare nel merito di questa visione – che si potrebbe definire poco lungimirante, o forse solo figlia dei tempi e di un certo milieu culturale – e nemmeno delle scelte editoriali della collana (ad esempio, i tagli ai testi perpetrati in maniera piuttosto arbitraria e da cui qualche anno dopo derivò il celebre bollino rosso dell’“Edizione Integrale” presso l’Editrice Nord), resta il fatto che fino agli anni ’70 la presenza italiana nella foresta fantascientifica fu più che altro una pianta capitata per caso, portata dell’esterno da una brezza casuale e intermittente, specie vegetali che non riuscivano davvero a riconoscersi come appartenenti a quel contesto, stelle alpine in un campo di girasoli, quasi sempre nascoste dietro rocce di pseudonimi anglofoni (e per quanto riguarda le scrittrici, pseudonimi maschili, ma questo accadeva anche altrove), inevitabilmente solo in pubblicazioni alternative, che dunque non potevano contare sul pubblico, la tiratura, la popolarità e l’autorevolezza di Urania. È peraltro abbastanza curioso notare che se fin dal 1958 anche su I romanzi del Cosmo (Ponzoni Editore) gli italiani venivano rigorosamente chiusi nell’anonimato dello pseudonimo anglofono, su Galassia (La Tribuna) gli stessi autori o autrici uscivano nello stesso periodo con il loro vero nome italiano (tipico e piuttosto noto è l’esempio di Roberta Rambelli); anzi, lo pseudonimo inglese, quando c’era, veniva aggiunto tra parentesi in copertina come a rimarcare con un certo orgoglio l’autorialità originale. Queste due concezioni diverse e quasi parallele parevano dunque sancire che l’adozione dello pseudonimo inglese da parte degli autori e delle autrici del nostro paese fosse frutto di un pregiudizio o di una mancanza di coraggio (ovvero della preferenza per una tradizione ormai consolidata ed editorialmente rassicurante). Ma quegli anni videro altre tre inseminazioni importanti che non possiamo trascurare. La prima è la fondazione della Casa Editrice Nord proprio nel 1970, quasi a sancire l’inizio del decennio, con la quale Gianfranco Viviani dimostrò per almeno un abbondante trentennio che era possibile realizzare un progetto articolato e ambizioso in grado di portare con successo la fantascienza in libreria. La seconda, nel 1976, è la nascita della rivista Robot, grazie a una redazione giovane e a scelte editoriali alternative che davano maggiore spazio alla fantascienza europea e italiana, nonché alla saggistica. In pochi anni Robot divenne un punto di riferimento importante per gli appassionati del genere e una palestra fondamentale per formare la generazione di professionisti; inoltre traghetterà la fantascienza in Italia attraverso gli anni ’80 e oltre. La terza, infine, è l’esperienza di Un’ambigua utopia che tra il 1977 e il 1982, grazie a un collettivo di intellettuali guidato da Antonio Caronia, per la prima volta in Italia spinge l’immaginario letterario verso i territori dell’impegno politico e sociale.
Preparare il terreno
Insomma, fu negli anni ’70 – forse anche grazie agli effetti della New Wave che cominciarono a farsi sentire da queste parti – che la foresta cominciò a cedere piccole porzioni sparse di sé a qualche nuova specie isolata che col tempo si adattò al nuovo clima, fortificò i fusti e provò a sentirsi come a casa propria. Ricordiamo l’esordio di Lino Aldani nel 1977 con Quando le radici (La Tribuna) o i romanzi di Gilda Musa usciti nello stesso decennio (Bietti, SEI, Nord, Dall’Oglio) e che costituivano il punto di arrivo di un’esperienza già iniziata dall’autrice nella narrativa breve fin dagli anni ’60. Inoltre, sebbene la comunità fantascientifica italiana avesse già i propri momenti di incontro, ancorché informali e non particolarmente strutturati, gli anni ’70 videro anche l’istituzione della prima convention ufficiale degli operatori e degli appassionati del genere – la ItalCon – che si svolse a Trieste nel luglio del 1972. Nel corso di questo incontro venne annunciata la prima edizione del Premio Italia, che ancora oggi assegna tramite una votazione popolare i premi in varie categorie editoriali, sulla falsariga dell’assai più celebre Premio Hugo. Tutto questo per dire che, nonostante le difficoltà, la fantascienza italiana trovava comunque spazi per esprimersi in collane e riviste, come una pianta tenace e ostinata che faceva capolino sotto i cespugli e tra le felci del sottobosco, costretta a sviluppare strategie mimetiche per non farsi soffocare e acquisire dignità presso il pubblico dei lettori.
Alzare la testa
Poi nel 1989 accadde qualcosa di impensabile. Il successo del Premio Tedeschi per il giallo italiano, già consolidato da quasi una decina di anni, convinse la redazione di Urania a tentare la strada del premio letterario anche per la fantascienza. Erano trent’anni che non uscivano romanzi italiani su Urania, nemmeno sotto pseudonimo, dunque servivano attenzione e piedi di piombo e il concorso letterario parve la modalità migliore. Nacque così il Premio Urania e senza dubbio l’evento, almeno visto retrospettivamente, costituì una vera svolta psicologica più che letteraria, anche se quello forse lo si comprese solo qualche tempo dopo. Ciò che fu subito chiaro, tuttavia, era che ci si trovava di fronte a un momento (potenzialmente) epocale: la più celebre testata italiana di fantascienza decideva di dedicare un’uscita annua a un autore o un’autrice del nostro Paese, con il suo nome e il suo cognome. Tra gli appassionati fu una bomba che esplodeva, soprattutto per gli autori, perché un po’ come l’Italia e gli italiani nella massima attribuita a D’Azeglio, anche nella fantascienza per fare i lettori bisognava (e bisogna) prima fare gli autori. E se la prima edizione fu vinta da uno dei grandi decani della fantascienza nostrana, Vittorio Catani con Gli universi di Moras, nel 1993 il premio consacrò un certo Valerio Evangelisti che con il suo Nicolas Eymerich, Inquisitore cambiò per sempre il panorama, trattandosi del primo autore proveniente dalla fantascienza a rompere la barriera del grande pubblico e a dimostrare che una via fantascientifica nostrana poteva esistere alla luce del sole e poteva anche raggiungere un successo di critica. La foresta si poteva aprire a tutti, insomma, e una radura erbosa e accogliente poteva trovarsi d’improvviso anche dietro le macchie più impervie, al punto che furono ben due le antologie di racconti italiani di fantascienza che nel 1998 chiusero idealmente questo primo e fortunato periodo: Tutti i denti del mostro sono perfetti, a cura di Valerio Evangelisti, e Strani giorni, a cura di Franco Forte e Giuseppe Lippi. Spinta dal successo del Premio Urania, anche la Casa Editrice Nord, che nella collana Cosmo Argento aveva ospitato occasionalmente autori di casa nostra fin dagli anni ’70, si tuffò nell’avventura degli italiani, bandendo a sua volta nello stesso decennio un premio letterario, il Premio Cosmo, che, sebbene si sia rinnovato solo per le sole cinque edizioni previste, ha testimoniato l’effervescenza dell’ambiente, denotando una convinzione che mancava da almeno vent’anni.
Millenium Bug
Nonostante i fasti degli anni ’90 – che restarono però confinati soprattutto all’esperienza di Urania, mentre Nord non ebbe la stessa risonanza –, i primi anni 2000 registrarono un periodo particolarmente complicato per la fantascienza in generale e quindi anche per quella prodotta in Italia. Il crollo progressivo dei lettori che anche gli editori più solidi cominciarono a registrare, convinse persino la gloriosa Casa Editrice Nord a cedere il suo marchio e i suoi cataloghi al Gruppo Longanesi, che nel giro di pochissimo, per una precisa scelta editoriale, tradì la coraggiosa e lungimirante missione fantascientista di Gianfranco Viviani, le cui collane avevano illuminato le librerie del fantastico italiano, e di fatto abbandonò il genere. Questo fu un piccolo dramma, poiché in ambito fantascientifico Nord aveva tenuto altissimo, quasi da sola, il baluardo della fantascienza in libreria per trent’anni, al punto che gli scaffali del settore della fantascienza erano quasi completamente dipinti di Argento e Oro come le sue collane di punta. Di conseguenza, l’offerta fantascientifica in libreria si ridusse al lumicino. Perseo Libri (ex Libra), infatti, aveva canali di vendita solo per corrispondenza, raggiungendo così un pubblico assai più limitato (e comunque pubblicava pochissimi italiani), e Fanucci, che non pubblicava italiani, a partire dal 1996 si affidò soprattutto alla garanzia del nome di Philip K. Dick. In quegli anni Dick fu quasi l’unico autore massicciamente presente in libreria, insieme all’immarcescibile Isaac Asimov. Nello stesso periodo, nacque l’editore Solid – poi confluito in Delos Books e quindi in Delos Digital – che, all’uscita dal mercato fantascientifico dell’Editrice Nord, avvalendosi della collaborazione esperta di Gianfranco Viviani, fu l’unica a tentare per un po’ il rientro della fantascienza nelle librerie. Inevitabilmente l’esperienza non durò a lungo, finendo per concentrarsi soprattutto sul nascente mercato del libro elettronico di cui divenne (ed è rimasta) un’autentica pioniera. Così, per qualche tempo trovare della fantascienza in libreria divenne un’impresa ardua, e ciò non fece bene alla comunità dei lettori. Tutte queste difficoltà furono testimoniate anche dalla stessa Urania che nel medesimo periodo cominciò a segnare il passo, trovandosi costretta a dimezzare il numero delle uscite annue (da quattordicinale a mensile). Forse l’avvento e la rapidissima esplosione della realtà della Rete, tema portante dell’ultimo grande movimento fantascientifico, il cyberpunk, e l’attraversamento della soglia psicologica dell’anno che da sempre aveva rappresentato il Futuro, il 2000 (ma anche il 2001!), avevano dimostrato che alla fine era stata la realtà a colonizzare la fantascienza e che quindi quest’ultima non aveva più alcuna ragione d’essere?
La Piccola Nicchia…
A questo punto credo sia necessario aggiungere due considerazioni importanti che in qualche modo vanno nella stessa direzione. La prima è che non solo in Italia, ma ovunque (tranne forse adesso in Cina, che però è un’altra questione) la fantascienza è sempre stata bistrattata, considerata un sottogenere minore rispetto al panorama letterario, roba di serie B quando va bene, pubblicazioni buone per l’intrattenimento in metropolitana o in treno (Urania non aveva forse il record di vendite nelle edicole delle stazioni?). Insomma, letteratura escapista un-tanto-al-chilo e di questo anche molti grandi autori oggi riconosciuti spesso hanno sofferto, sentendosi loro stessi vittime di una discriminazione culturale, alla quale solo affermandosi nel corso del tempo hanno potuto sottrarsi. Così su due piedi mi vengono in mente Philip K. Dick, Ursula K. Le Guin, Kurt Vonnegut e il Premio Nobel Doris Lessing. Questo per dire che gli autori di fantascienza non se la sono mai passata benissimo, dovendo attingere sempre a un pubblico di nicchia. Tuttavia, la cosiddetta nicchia dei lettori del mercato in lingua inglese è assai più grande di quella italiana e va da sé che, anche a parità di percentuale, l’ampiezza del bacino fa una differenza decisiva.
…e il Grande Buco
La seconda considerazione è che tra gli anni ’80 e gli anni ’90 l’abbattersi del cyberpunk nel panorama letterario fantascientifico internazionale fu come un’era glaciale, e segnò un’altra linea di demarcazione piuttosto netta tra quello che c’era prima e quello che sarebbe venuto dopo. Molti appassionati storici, cioè nati come lettori negli anni ’60 e ’70, non digerirono la complessità e la sperimentazione letteraria del nuovo corso inaugurato da William Gibson e Bruce Sterling e, complice la già citata mancanza di alternative per un mercato che non portava in Italia abbastanza novità e che continuava a proporre Asimov e Dick, si disaffezionarono e si ritrovarono a un bivio tra l’abbandonare del tutto il genere o ripiegare verso quello che c’era prima del cyberpunk, diventando così lettori nostalgici di tutti quei futuri che avevano accarezzato da giovani. Un modo se vogliamo un po’ paradossale di vivere la fantascienza, giacché stiamo parlando del genere che più di ogni altro ha la capacità e l’intenzione di guardare avanti, anche – anzi soprattutto – osando e sperimentando. Probabilmente questo circolo vizioso contribuì a determinare la progressiva diminuzione dei lettori, favorita forse anche dall’arrivo di altre modalità di intrattenimento derivate dalla Rete, dall’impiego del digitale e dall’onda lunga del cinema di fantascienza, che mai come dalla fine degli anni ’70 alla fine degli anni ’90 sfornò capolavori e plasmò il concetto di blockbuster. Questi fenomeni contribuirono a ostacolare forse anche il formarsi di nuove generazioni di lettori. Tutto questo per dire che nel momento in cui assistiamo a una ripresa, anzi a una vera e propria (piccola) età italiana dell’oro, il mercato dei lettori – già esiguo trattandosi di un paese in cui si legge poco in generale – è diventato piccolissimo. Ma a questo arriveremo tra poco.
La fenice risorge
All’inizio del nuovo millennio la nostra foresta si trova ancora sotto una spessa coltre di ghiaccio che il Premio Urania, da solo, non sembra in grado di sciogliere. Eppure, la fantascienza italiana è un seme che rimane vivo e che, a un certo punto, quando le condizioni tornano favorevoli, non perde l’occasione di schiudersi, mostrando la propria forza vitale. Qui non riesco a individuare un momento preciso in cui ciò è avvenuto, ma se dovessi scegliere, farei coincidere questa rinascita con una serie di eventi accaduti tra il 2014 e il 2015, che evidentemente intercettano e alimentano uno zeitgeist, una massa che aveva raggiunto una condizione di criticità. Innanzitutto, accade che un nuovo editore entra nel mercato del settore. Lo fa in punta di piedi, ma con ambizioni nuove e un romanzo potente decisamente trasversale al genere, almeno per la forza della sua scrittura. Mi riferisco a Desolation Road di Ian McDonald, prima uscita nel 2014 per Zona 42, che da quel momento comincia a pubblicare titoli stranieri e poco dopo italiani al ritmo di quattro o cinque l’anno, con la missione di proporre testi in grado di rivolgersi anche a lettori al di fuori della nicchia, cioè quel filone che oggi, in modo un po’ ossimorico, alcuni chiamano fantascienza mainstream. Nello stesso periodo emerge anche Future Fiction che, sebbene rivolga il suo progetto editoriale all’originale e interessante proposta di fantascienza proveniente da tutti i paesi e le lingue del mondo che non siano quelli anglofoni, pubblica anche italiani.
Nuovi traguardi
Poi, sempre nel 2015, Cronache di Mondo9 di Dario Tonani, fix-up già apparso su Delos e ancora prima nei suoi pezzi costitutivi in ebook per 40k Books, sbarca sull’Urania Millemondi Estate. Tonani non era nuovo su Urania, avendo in precedenza già pubblicato tre romanzi, ma quest’operazione editoriale che alcuni anni prima sarebbe stata considerata un potenziale autogol e manteneva un certo grado di azzardo, ebbe invece un notevole successo.
E se è vero che in virtù di una tradizione assai radicata, ancorché altrettanto opinabile specialmente adesso, in Italia la fantascienza italiana dev’essere in qualche modo ratificata prima da Urania, nel 2019 proprio il volume Millemondi Estate raccoglie un’antologia di autori tutti italiani e inaugura una ricorrenza che si è rinnovata di anno in anno fino a oggi e che non sembra destinata a esaurirsi presto. Quel primo volume si intitolava Strani mondi e il saggio dal titolo L’età dell’oro della fantascienza italiana di Silvio Sosio, che chiude il volume, definisce quel momento come uno spartiacque. Questa edizione avrà una risonanza e un riscontro di pubblico tali da andare esaurita prima della fine della stagione. Inoltre, non va dimenticato che tutto questo fiorire si attesta su un sostrato nutrito comunque dall’incessante lavoro di altri due editori specializzati (Delos Digital e Kipple Officina Libraria), che per tutti gli anni Duemila mantengono vitale un’incessante proposta di pubblicazioni nell’ambito della fantascienza italiana, fondamentali per contribuire alla formazione di una nuova generazione di autrici e autori in grado di farsi apprezzare senza sindromi di sudditanza nei confronti dei più blasonati autori stranieri.
La (nostra) età dell’oro
Arriviamo dunque all’oggi. A qualunque osservatore attento del settore non può sfuggire che almeno da otto/dieci anni a questa parte le occasioni di pubblicazione per gli autori italiani – quindi la possibilità di confrontarsi col mercato in maniera professionale – si sono moltiplicate a dismisura. Dentro la foresta della fantascienza italiana (ma aggiungerei del fantastico in generale, includendo con questo termine anche il fantasy, l’horror e il weird) si è ricavata e sta prosperando quella radura creativa che non aveva mai avuto tanto spazio, e i risultati in termini di crescita di nuove sensibilità e modalità espressive, si vedono tutti.
Ciò nonostante, alla fantascienza italiana si continua a contestare una certa autoreferenzialità, quando non c’è alcuna ragione per ritenere che sia specifica del genere. Perché mai dovrebbe esserlo? Temo che il problema non sia la fantascienza, bensì l’essere umano. E il primo, grande e forse principale problema del movimento della fantascienza italiana, intendendo con questo termine la somma degli autori e dei lettori abituali, è di essere troppo ristretto, fatto che innesca le dinamiche più deteriori. Alla fantascienza viene contestata la frammentazione in conventicole, piccoli gruppi costituiti sulla base di diverse dinamiche i cui componenti si appoggiano a vicenda in maniera esclusiva e sovente assai poco permeabile. Quando il numero delle copie vendute si conta nella misura delle decine o al massimo delle (poche) centinaia, questo sistema crea l’impressione di un successo maggiore rispetto a quello effettivo. In altri ambiti, ad esempio quello del giallo, ciò non accade perché la comunità dei lettori è più vasta. A onor del vero va aggiunto che, vista la sua natura e le sue modalità, il già citato Premio Italia è riuscito recentemente ad affrancarsi dal sistema e a evidenziare esiti degni di nota. Inoltre, le statistiche di partecipazione a Stranimondi, kermesse annuale del fantastico che si tiene con regolarità da una decina d’anni a Milano a metà ottobre, fanno ben sperare per il futuro, visto che i numeri crescono mentre l’età anagrafica dei partecipanti diminuisce. Anche la prima edizione di questa manifestazione risale al 2015, benché sia in qualche modo figlia di una serie decennale di eventi dedicati al fantastico intitolati Delos Days e promossi dalla casa editrice omonima.
Altre anomalie
Al netto dell’esterofilia, un’osservazione che spesso viene sollevata nei confronti della fantascienza italiana è il suo essere sostanzialmente poco originale, poco moderna e ancorata agli stilemi della fantascienza “classica”, comunque si voglia interpretare questo termine. Ma quando si tenta di approfondire la questione, si scopre spesso che questo pregiudizio appartiene a chi è convinto che la fantascienza italiana sia rappresentata solo da Urania, ovvero a chi pensa che le cose stiano ancora come vent’anni fa. Fermo restando che di un fenomeno di questo tipo non si può mai dare una lettura assoluta, questa è però l’impressione che si ricava frequentando i gruppi degli appassionati sui social.
Ma se i gusti del pubblico di riferimento della collana più longeva d’Italia sono rimasti fermi al passato, si spiega facilmente la linea editoriale che una collana come Urania deve mantenere, considerato che Mondadori punta al raggiungimento dei propri obiettivi economici. Per questo l’anomalia vera e propria consiste sia nel fatto che questa critica venga sollevata, sia nel ritenere che, in virtù della sua storia e del suo marchio, Urania rappresenti oggi lo stato dell’arte della fantascienza tout court, ovvero quella scritta sia dagli stranieri sia dagli italiani. Tuttavia, sono molti gli editori che lavorano per consolidare la loro proposta e il loro prestigio ed è solo questione di tempo affinché questo paradigma ormai anacronistico venga scardinato.
Che cosa manca?
Credo si possa affermare che il mercato italiano oggi è realmente invaso dalla fantascienza, italiana e non solo. È sufficiente spulciare i titoli delle citate Zona 42, Future Fiction, Delos Digital, Kipple Officina Libraria, oltre alle consuete due o tre uscite italiane annuali di Urania (il Premio Urania, il Millemondi Estate e, occasionalmente un terzo volume). Spesso anche i grandi editori mettono in catalogo qualche titolo fantascientifico, ancorché senza affermarlo, confermando così l’esistenza della già citata fantascienza mainstream, quella che in fin dei conti tutti leggono senza alcun tipo di pregiudizio, specialmente se non è chiamata con il suo nome.
Sulla qualità non mi pronuncio, poiché se un tempo non era difficile leggersi tutta la fantascienza italiana che veniva prodotta in un anno e farsene così un’idea ben circostanziata, oggi, tra narrativa lunga e breve, è molto più impegnativo. Per questo mi limito, concedendomi un po’ di cinismo e di conservatività, ad applicare la Legge di Sturgeon che senza troppi giri di parole afferma che in media il 90% di tutto è spazzatura. È tuttavia altrettanto evidente che nel momento in cui un’offerta diventa abbondante, come accade oggi per la fantascienza italiana, quel 10% che resta assume un peso non trascurabile. Il problema vero, semmai, è scovare questo 10% in mezzo a tutto il resto e qui si avverte l’assenza di una critica letteraria estranea all’ambiente degli addetti ai lavori, e che operi in una direzione opposta all’autoreferenzialità del settore. Ma perché la critica si interessi alla fantascienza deve innescarsi un circolo virtuoso, per cui al genere venga data credibilità innanzitutto dalla pubblicazione di opere notevoli, che emergano nel panorama editoriale italiano, e quindi grazie al lavoro di autori ed editori, di modo che prima la stampa e poi il pubblico siano chiamati a porre la loro attenzione su questa produzione, andando anche a sfondare il muro dei grandi editori che si è già dimostrato permeabile alla fantascienza.
Il cielo è il limite
Nel weekend del 14/15 ottobre è andata in scena a Milano l’edizione 2023 di Stranimondi e nel corso della manifestazione ho assistito a un intervento di Nicoletta Vallorani, che sono certo saprà perdonarmi se faccio mie alcune delle sue parole, che già da tempo condivido in pieno. Ciò che serve adesso alla fantascienza italiana per compiere il salto decisivo è pensarsi in grado di volare alto. La fantascienza italiana deve perseguire traguardi più alti, poiché ha ormai i mezzi e le opportunità per produrre opere di valore.
Sperimentare. Scrivere testi importanti. Accarezzare la complessità. Questo significa uscire dalla comfort zone, rischiare e cercare di pubblicare storie capaci di gridare al mondo la loro esistenza e che richiamino l’attenzione di chi sta dall’altra parte, oltre tutti gli steccati. Costringere tutti con i fatti ad abbandonare l’aggettivo “italiana”, già discriminante di per sé, e a considerarla semplicemente fantascienza. Fare massa critica sull’innovazione e l’ambizione. Dunque non smettere mai di alzare l’asticella. Non dobbiamo più considerarci cespugli che presidiano il sottobosco, ma dobbiamo desiderare di essere alberi, gli alberi più alti della foresta, perché il cielo è lassù e mai come adesso con le punte dei nostri rami possiamo riuscire a toccarlo.
———
Immagine di copertina:
Daniele Gay, Duomo square onslaught, cover poster per la convention Stranimondi 2023.