Dall’inizio di questa storia (che all’inizio era la storia degli “ex fidanzati” veneti spariti e poi è diventata, come ci si attendeva, la storia di un femminicidio) ho scelto il silenzio, perché mi sembrava che fra tutte le voci possibili fosse quella che mancava, ed era quella di cui sentivo più il bisogno.

So che proprio nelle ultime ore il tema del silenzio è diventato un tema sensibile: nei licei gli studenti hanno opposto mobilitazioni rumorose alla proposta di un minuto di raccoglimento da parte del ministro Valditara. A un altro genere di rumore risponde Marco Travaglio quando nel suo editoriale di martedì 21 sul Fatto Quotidiano invoca retoricamente il silenzio contro il frastuono delle certezze dichiarate a nove colonne o in diretta TV.

Io non dirigo un quotidiano a larga tiratura e non vivo nelle conversazioni dei protagonisti della politica, ma almeno negli strati esterni della mia bolla social di qualche migliaio di contatti ho avvertito una certa saturazione delle reazioni a caldo. Le reazioni a caldo spesso cedono alla tentazione delle varie forme di soluzionismo, da quello pedagogico a quello repressivo. Il rischio del soluzionismo è di solito quello di spostare il problema su un piano irrilevante, per di più dando l’impressione di darsi un gran da fare per farsi venire delle idee e risolvere veramente il problema.

Ho scelto il silenzio perché per tutti, ma per i maschi in particolare, è il momento di pensare, di provare a stare in un pensiero in prima persona. Se si cede alla prima tentazione di puntare il dito sulla scuola, sulla famiglia, sulla società, e di spiegare cosa si dovrebbe cambiare domani mattina, è finita. Magari fa sentire meglio lì per lì ma a quel punto addio, pensiero in prima persona. E d’altra parte la scuola, la famiglia, la società, sono anch’io.

E poi ho cercato il silenzio perché so che davanti alla complessità stare zitti per un po’ e ascoltarsi è un passaggio necessario. L’ho imparato in trent’anni e passa di terapia della famiglia, che è un contesto in cui la complessità delle voci è talmente elevata (i membri della famiglia, il terapeuta ma qualche volta addirittura l’equipe dei terapeuti) che a un certo punto la conversazione si interrompe e i terapeuti escono dalla stanza. Stanno in silenzio per un po’ e poi cominciano a scambiarsi dapprima i propri stati d’animo, poi impressioni e ipotesi su quello che sta accadendo, a un ritmo assai più lento (e spesso a un volume molto più basso) della conversazione che si svolgeva qualche istante prima nell’altra stanza. Quello di cui parlo non è un silenzio prescritto e rituale, è un silenzio che tutela uno spazio, che permette le parole.

Ora: so che la parola “complessità” ultimamente non gode di buona stampa, perché qualcuno la usa a sproposito e qualcun altro la dileggia per liquidare chi prova ad ampliare i termini di una discussione. Ma il nostro rapporto col mondo non cessa di essere complesso solo perché a qualcuno non piace la parola o perché qualcun altro la usa per non dire niente.

Quello che so di un problema complesso è che non ha una spiegazione (e tanto meno una soluzione) ovvia e univoca. Che, anzi, ci richiede di tenere dentro almeno due punti di vista, di assumere almeno due prospettive, anche se contraddittorie (di più: soprattutto se contraddittorie).

Ad esempio: qualcuno pensa che dire «ragazze, non andate all’appuntamento ‘di chiarimento’ se non in un posto affollato, e non restate da sole con lui» sia paternalistico e colpevolizzante. Ha senso. Un altro può pensare che però negare che la vittima abbia (per quanto limitata) una possibilità di scegliere equivalga a passivizzarla e a negarle lo statuto di moral agent. Anche questo ha senso.

Ma “ha senso” vuol dire che in base a certe premesse contiene almeno una parte di verità, non che da sola risolva l’intera questione.

Posto che nessuno può spiegare definitivamente come stare nella complessità, provo a dire come cerco di starci io.

Io so che come maschio non sono titolato a poter dire a una ragazza come dovrebbe comportarsi con i maschi, né all’ultimo appuntamento né in qualunque altro frangente; ma guardo con curiosità alle donne che conosco che non si stancano di dire “state in campana”. E però, dopodiché, ho bisogno di sentire il loro punto di vista, quello delle ragazze: come ti fa stare sentirtelo dire? È utile? Ti aiuta? Perché nelle cose umane, in un’ottica complessa, i significati delle cose non sono dati una volta per tutte: sono negoziati, sono in continua costruzione e in continua interazione reciproca col contesto.

E così via. Senza “chiudere” la questione ma anzi tenendola aperta. Non abbiamo bisogno di decidere chi ha ragione, abbiamo bisogno di mettere in circolo le ragioni.

Un altro aspetto: credo, sì, che ci sia bisogno di una educazione ai sentimenti, affettiva, chiamatela come volete, ma insomma una specie di alfabetizzazione emozionale. So che un uomo che usa il coltello non ha le parole. Non le conosce, non le sa usare. E certamente uno dei luoghi in cui si insegnano le parole è la scuola. Contemporaneamente, penso che non possa gravare sulla scuola l’ennesima aspettativa soluzionista: le premesse delle persone non si cambiano con un’opera pedagogica e nelle cose umane un pensiero “finalizzato” (“ti insegno le parole così sarai un giovane e un adulto che rispetta le donne e non avrai bisogno di essere violento”) è sempre per lo più ingannevole.

Bisogna ragionare in termini di cambiamenti di contesto, che è roba che accade nell’arco di generazioni. Intanto, pur cercando di tenermi alla larga a qualunque illusione soluzionista, penso che quando una società dà valore a qualcosa la tramanda, la insegna. Una società che dà alla scuola il mandato di insegnare le parole delle emozioni è una società che investe su quelle parole. Fare emergere quelle parole a scuola contribuisce a creare un contesto. Ma, appunto, non in modo banalmente finalizzato, non pensando che sia solo l’ora settimanale di educazione alle parole, insomma. Quelle parole, chi di noi le ha imparate, le ha incontrate soprattutto attraverso l’arte, la letteratura, la musica. E tutto questo a scuola c’è già, se non fosse che ci sta sempre più scomodo, in mezzo all’ideologia che vuole la scuola sempre più ancella del mondo del lavoro. Nell’ottica per cui la scuola deve “essere utile” a qualcosa, l’idea di inserire strumentalmente ore finalizzate e distinte dal resto sembra una sorta di “alternanza scuola-sentimenti”.

Forse un problema complesso si affronta costruendo contesti e prendendosi cura di quelli che già esistono, più che studiando soluzioni puntuali.

Quando parlo di “conoscere le parole” non mi riferisco evidentemente a una faccenda di povertà lessicale, ma alla mancanza di chiavi d’accesso al tuo mondo interno: e alla possibilità di dire/dirti, e dunque di pensare, “mi sento abbandonato”, “sono triste perché mi ha lasciato”, “provo dolore” eccetera.

Io penso che il femminicidio sia qualcosa di più di, come si dice, la punta dell’iceberg dell’ordinario e pervasivo patriarcato quotidiano. Penso che rispetto a quello abbia delle continuità ma anche delle discontinuità che hanno a che fare con livelli microsistemici, psicologici. Penso che se sei un maschio che nasce in quell’ordinario e pervasivo patriarcato quotidiano hai compiti evolutivi più semplici e non sei costretto a imparare molte competenze, molti modi di accedere alla realtà oltre a quelli che ti servono nel tuo mondo di vantaggi. Per cui i maschi spesso quelle parole le conoscono meno, e qui credo si saldino il piano macrosistemico (il patriarcato, insomma) e quello che ho chiamato “microsistemico”: la famiglia, l’individuo, le vicissitudini psico(pato)logiche.

Mi rendo conto di essere reticente sulla parte che ho detto essere fra quelle che mi hanno richiesto di stare in silenzio e sospendere le parole: il mio “pensiero in prima persona”, le domande che mi faccio come maschio, come professionista maschio che si occupa di relazioni, come membro della società, come parte di una famiglia, come padre di due donne. È la parte più difficile, ed è quella dove è più impegnativo tenere dentro una doppia prospettiva: cioè sentirsi abbastanza dentro il problema da poter pensare di essere responsabili e insieme abbastanza non-dentro (non ce la faccio a dire “fuori”) da poter mantenere uno sguardo lucido e una possibilità di analisi. Ma come perdi l’equilibrio e scivoli da una parte o dall’altra, la conseguenza è una specie di disperazione.

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Immagine di copertina:
Paola Volpato, Black Box – Femminicidio 2015 | 2016 | 2017, installazione, Palazzo Valdina, Roma, Camera dei deputati.