[Preceduto da una breve introduzione di Elisa Veronesi, pubblichiamo un estratto da Afrodite viaggia leggera di Francesca Sensini, Ponte alle Grazie, 2024. Per gentile concessione dell’editore].

Isola di Milo, aprile 1820. Il sottotenente francese Olivier Voutier, giunto sull’isola con il suo equipaggio a bordo della nave Estafette, appassionato di quella che di lì a poco sarebbe divenuta una nuova scienza, l’archeologia, scavava sulle pendici di una collina attirato dai resti di quello che sembrava essere un antico teatro. A poca distanza, due uomini di origine greca facevano scavi in un terreno di loro proprietà e ritrovavano i resti di una statua marmorea di oltre due metri d’altezza: sbrecciata, riassemblata, era «l’immagine viva della bellezza» (p. 12). Era Afrodite. Era quella che noi tutti oggi conosciamo come la Venere di Milo, «l’Afrodite più popolare dei tempi moderni» (p. 22) e che abita l’ala Sully del museo del Louvre di Parigi. E quella che ci racconta Francesca Sensini nel suo nuovo romanzo Afrodite viaggia leggera. Sulle rotte dell’amore, pubblicato dall’editore Ponte alle Grazie, è la sua storia raccontata in prima persona.

Che quella scritta da Sensini sia una storia dove viaggi e luoghi sono importanti ce lo dicono già il titolo e il sottotitolo del romanzo, nei quali sono evocati rispettivamente il viaggio e le rotte, e ce lo conferma la citazione in esergo, tratta da Feria d’agosto di Cesare Pavese: «Ora, carattere, non dico della poesia, ma della fiaba mitica è la consacrazione dei luoghi unici, legati a un fatto a una gesta a un evento. A un luogo, tra tutti, si dà un significato assoluto, isolandolo nel mondo» (Saggi sul mito, p. 15). Ogni capitolo del romanzo, poi, riporta nomi di luoghi che vanno dall’isola di Milo in apertura fino «ai confini della Terra, dove scorre Oceano» e dove il viaggio di Afrodite (o Venere, come la chiamano i romani) si chiude tra terra e cielo, che sono poi i luoghi della sua nascita. Secondo la versione più nota della nascita della dea infatti,

«Afrodite è una reazione chimica, lo spumeggiante risultato di una mescolanza, perché la dea, nel mito della sua origine marina, non è solo fatta di onde ma anche di sperma, lo sperma del cielo. Anzi, del Cielo, con la maiuscola: Urano. I testicoli del dio finirono, recisi di netto, in mezzo ai flutti tra Citera e Cipro, e così, andando alla deriva, li fecondarono in modo prodigioso» (p. 34).

La nascita della dea è dunque già un viaggio, una deriva marina che farà di Afrodite una dea refrattaria al limite imposto, una dea dai molti nomi e dai molti santuari. E oggi che gli altari degli dei non sono solo deserti, ma sono sepolti sotto a strati di torba, la sola speranza che abbiamo perché non vengano del tutto dimenticati è che vengano riportati alla luce, qualche volta, da un innamorato appassionato di archeologia, o da una scrittrice innamorata e esperta del mito, quale è Sensini, che con maestria e sapienza della lingua e della mitologia, ancora una volta si cimenta in un racconto che appassiona il lettore. Dopo La trama di Elena (Ponte alle Grazie, 2023), romanzo nel quale già Sensini si metteva alla prova nel difficile compito di riscrivere il mito di Elena di Troia senza cadere in stereotipie alla moda o in divulgazioni troppo facili, ancora una volta la sfida appare riuscita, soprattutto nel compimento di una scrittura che pare essere del tutto a proprio agio in quello spazio di materia liquida che è il mito. Uno spazio mai deciso, ma sempre in divenire, sempre cangiante, grazie al quale anche nell’apparente deserto contemporaneo è possibile trovare chi continua a tessere storie e a tenerle vive.

Francesca Sensini, Afrodite viaggia leggera, Ponte alle Grazie

Sono io, Afrodite
(sull’isola di Milo; a Parigi)

I Greci mi chiamano Afrodite, Venere i Romani. Sono la dea dell’amore e della bellezza nel Mediterraneo antico. E tale sono anche oggi. Poco importa se gli esseri umani hanno perso familiarità con me e se nessuno porta più doni ai piedi delle mie statue né mi offre sacrifici sugli altari, come accadeva un tempo. Continuo a prendere quello che è mio, come fanno gli dèi, senza chiedere il permesso. Il mio potere non è meno forte oggi rispetto al passato. Il primo amore non si scorda mai, si dice. Ebbene, io sono il primo amore dell’umanità intera, traduzione in forme riconoscibili – una donna con un volto, una posa, un carattere – della forza fisica che, dentro il campo di attrazione della bellezza, agita, scompagina e unisce tutto ciò che esiste.

Una delle immagini che vi vengono subito in mente, sentendo il mio nome, è quella di una statua bianca, di marmo. Vedete una donna maestosa, in piedi. Vi sembro innaturalmente alta e non riuscite a darmi un’età. Oscillo tra il fiore e il frutto, tra una ragazza e sua madre. Sono vigorosa e sana ma senza braccia, il busto nudo, i capelli mollemente raccolti sulla nuca e una veste arrotolata intorno ai fianchi, lunga fino ai piedi. Direste che sono appena uscita da un bagno caldo o dal mare, o che sto per spogliarmi del tutto ed entrare in acqua. La mia pelle scoperta è liscia come un grande ciottolo levigato dalla risacca, mentre il tessuto che mi nasconde rabbrividisce in mille increspature scivolandomi via dai fianchi. Ma io lo trattengo. Lentamente sposto il peso sul piede destro e piego il ginocchio sinistro; sospendo la caduta per un attimo eterno, sospendo voi che mi guardate alla promessa di un disvelamento. Tuttavia, la mia vera preoccupazione è rivolta altrove. Spalle, collo, occhi curvano a sinistra, verso qualcosa che la mia mano reggeva e che, staccandosi un giorno dal resto del corpo, per accidente, ha portato via con sé.

Nel pensare a me, dunque, pensate alla Venere di Milo. Dico Venere e non Afrodite perché la statua si trova a Parigi e i francesi mi chiamano alla latina, Vénus. Mi trovate al museo del Louvre, nell’ala Sully, piano zero, al termine di un’infilata di sale tirate a lucido. In quella che mi hanno assegnato, giganteggio, sola e candida, su un piedistallo. Sono uno dei pezzi forti del museo. Da lontano, non mi si vedono quasi mai le gambe, coperte dalla folla, che si dirada solamente nelle ore a ridosso della chiusura. Così il mio torso emerge, simile a un relitto fantastico, dalle onde dei visitatori. Da vicino, al contrario, ho un’aria di famiglia. Quante volte ci siamo già incontrati, dopo tutto? Su un manifesto, in una vetrina di oggetti di design o di souvenir, in una fotografia o in un’opera d’arte che mi imita, mi suggerisce, mi deforma… Tutto intorno, le pareti di granito rosso incombono, guardiane severe in evidente disaccordo con il mio déshabillé. Mi allungano addosso una grave solennità, come il mantello di un imperatore francese.

Ma io resisto alla vocazione grandiosa dei luoghi con la mia divina immodestia, con le mie mutilazioni. Sono queste ultime, d’altronde, la ragione del successo che mi accompagna da quando sono arrivata qui, circa duecento anni fa. Come un paio di guanti, di calze o di scarpe su un corpo nudo evidenziano meglio la nudità con la loro presenza incongrua, così le mani, le braccia mancanti, l’uscita di scena del gesto scolpito, del suo senso, della mia intenzione, sottolineano quello che resta di me: le spalle scoperte, il seno piccolo e sodo, l’addome morbido e vasto come l’origine del mondo, la curva maestosa della schiena, le natiche, l’allusivo scivolamento della veste. Così mi arrendo alla versione disarmata di me stessa, mi consegno a voi ma è uno scambio di prigionieri: il mio segreto contro le vostre domande. Del mio sguardo si dice spesso che è impassibile. Io dico che riflette il vuoto su cui si posa. In quel vuoto si ingolfa la mia espressione e precipita la storia del mio atto mancante.

In realtà, so dove sono finite le mie braccia e le mani, so cosa facevo quando ero intera, cosa continuo a fare invisibilmente, davanti a occhi che mi guardano l’ombelico in attesa di altre possibili visioni. È tutto finito sui fondali del mare di Milo, l’isola più a sud-ovest dell’arcipelago greco delle Cicladi, a metà strada tra Creta e il Peloponneso. Milo è una roccia di vari colori, dal nero al bianco, dal giallo al grigio argento, sagomata ad arco.

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Immagine di copertina:
Adolf Hirémy-Hirschl, La nascita di Venere, c. 1888.