[Pubblichiamo un estratto del saggio di Marco Reggio Vegan Antispecista (Eris Edizioni, 2024) con il gentile permesso dell’editore].
A maggio 2018, il neo-ministro degli interni Matteo Salvini denuncia sui social le azioni di un rifugiato originario del Togo colto dalle telecamere nel centro di Firenze a uccidere e spennare piccioni per mangiarli. «A casa!» tuona il leghista, leader di un partito legato a doppio filo alla lobby dei cacciatori e noto per i banchetti a base di carne di orso. Se questo episodio di presa di parola a favore dei diritti degli animali (per così dire) da parte di un personaggio come Salvini può sembrare grottesco e pretestuoso, dobbiamo ricordare che si tratta solo della punta dell’iceberg.
Quante volte abbiamo sentito parlare di campagne per i diritti animali che puntavano il dito – da un paese occidentale – su pratiche tipiche di paesi “esotici”? Un esempio molto comune sono le petizioni o le denunce contro «i cinesi che mangiano i cani», oppure le azioni contro la pasqua islamica o la macellazione halal in generale. Ciò che accomuna queste espressioni di sdegno è un tratto evidentemente xenofobo. Loro sono barbari, incivili, rappresentano una fase della storia superata nei Paesi più avanzati. Da noi non si mangiano più cani e gatti (ovviamente, però, mucche, polli, maiali, conigli, pesci – praticamente qualsiasi altra specie animale – vengono sterminati senza sosta e senza altrettanto sdegno). Da noi i capretti vengono sì macellati, ma in modo meno cruento, più asettico, in modo “umanitario”.
Campagne di questo tipo, sebbene denuncino delle gravi forme di ingiustizia, vengono facilmente strumentalizzate da chi vuole semplicemente colpire le culture diverse da quella del soggetto coloniale occidentale. Il leit motiv di queste retoriche è che, oltre a rubarci i posti di lavoro o le donne, oltre a portarci le malattie, i migranti importino nel nostro paese la crudeltà sugli animali, una crudeltà che, almeno in certe forme, noi abbiamo superato da tempo. Per questo, più che condurre a una discussione seria sui rapporti fra l’umano e le altre specie, tutto ciò a cui portano questi discorsi è un appello a respingere i “barbari” al di fuori dei confini della nostra ordinata comunità – «A casa!», appunto.
Ma – si potrebbe obiettare – stiamo osservando un ambito genericamente animalista, moderato e ingenuo, che con lo sdegno verso chi si ciba di cani e gatti dimostra di non aver neppure tematizzato a dovere l’abitudine di mangiare animali. Eppure, se guardiamo alla propaganda vegana, emergono altri problemi legati al posizionamento razziale. Aph e Syl Ko, due sorelle afroamericane attiviste del movimento Black Lives Matter, autrici di Afro-ismo. Cultura pop, femminismo e veganismo nero (Vanda Edizioni, 2020), hanno sostenuto che il veganismo mainstream è essenzialmente un veganismo bianco: «La grammatica razziale del movimento è bianca», dice Aph. Una dimostrazione emblematica di questo fatto viene mostrata dalla stessa autrice, che prende in esame il caso relativo a un suo articolo e alle reazioni della comunità vegan.
Nel 2015, per includere persone non bianche nella rappresentazione dell’attivismo per i diritti animali, pubblica la prima lista di 100 veganǝ nerǝ. La pagina facebook della Vegan Society che ospita l’articolo viene inondata da commenti che lo definiscono «razzista». All’autoaffermazione nera, che dimostra che le persone razzializzate non sono estranee alla sensibilità politica per la liberazione animale, l’attivismo bianco risponde secondo lo schema ben noto del «razzismo al contrario», come se il desiderio di rendere riconoscibile una componente del veganismo che finora è stata silenziata costituisse una forma di «discriminazione» verso lǝ attivistǝ bianchǝ. Si tratta di una dinamica simile a quella del noto slogan «all lives matter», che viene spesso opposto a «black lives matter», con l’effetto di invisibilizzare le gerarchie razziali che rendono molto concreto il fatto che, in realtà, alcune vite (non-bianche) contano meno delle altre, soprattutto per la polizia. Un commento riportato da Aph Ko afferma: «Non ci sono vegani neri, vegani bianchi, vegani rossi… siamo tutti vegani». Questo atteggiamento opera per censurare attivamente l’emergere del punto di vista nero nella liberazione animale, come se si trattasse di un punto di vista fuorviante in quanto troppo parziale, senza considerare che l’attivismo animalista esprime – ma in modo implicito e, pertanto, più difficilmente criticabile – il punto di vista bianco. Il fatto di accusare di «separatismo» le persone nere che provano a ritagliarsi uno spazio di visibilità nel movimento, poi, ricorda le accuse mosse dai maschi eterosessuali alle donne che promuovono dei momenti di discussione, autocoscienza o iniziativa politica dedicati a loro stesse.
Altri commenti definiscono la lista «specista», perché si concentra sul colore della pelle dellǝ vegan, distogliendo attenzione ed energie preziose dalla sofferenza dei non umani. Questo schema, che ritroviamo anche nel nostro paese, è ricorrente ed esula dagli ambienti propriamente di destra, e proprio per questo è più subdolo delle torsioni palesemente xenofobe della difesa dei diritti animali di cui abbiamo parlato prima. Quante volte ci siamo sentitǝ dire che perdevamo tempo, che creavamo divisioni inutili o che eravamo escludenti perché avevamo osato affermare una pregiudiziale antifascista, antirazzista o anti-omolesbobitransfobica convocando un corteo per la liberazione animale?
Secondo Aph e Syl Ko, invece, il veganismo, inteso come veganismo nero, dovrebbe incoraggiare «chi si dedica all’attivismo a pensare e a esprimere la condizione animale nel modo che ritiene opportuno, attraverso la lente della propria situazione esistenziale.» Questo porta a valorizzare le differenze all’interno del movimento, anziché negarle o cancellarle. Di norma, come sappiamo, chi non sente la necessità di esplicitare il proprio posizionamento o di specificare il proprio vissuto razziale/etnico è perché si colloca in una posizione di privilegio che gli/le consente di non averne bisogno e di poter credere all’esistenza di un veganismo “neutro”, “universale”, che si occupa solo ed esclusivamente di “loro”, gli animali.
Al contrario, l’antispecismo deve farsi carico dei problemi legati al razzismo, semplicemente perché non è possibile scollegarli davvero fra loro.