(S. Zizek).1
È di recente uscito al cinema Alien: Romulus, diretto da Fede Álvarez, settimo film nella serie di Alien. La pellicola, originariamente pensata per essere distribuita sulla piattaforma di streaming Disney Plus, in modo analogo all’ultimo film dedicato a Predator (Prey, di Dan Trachtenberg, 2022), costituisce un rilancio della saga, dopo i risultati deludenti, di pubblico e critica, dei due film precedenti, Prometheus e Alien: Covenant, entrambi diretti da Ridley Scott. Romulus va letto all’interno della tendenza tipica della Hollywood contemporanea di sfruttare brand storici riproponendo tropi narrativi, situazioni e atmosfere dei film di riferimento, senza prendersi troppi rischi nel tentare di dire qualcosa di nuovo. Esempi piuttosto eclatanti di questa tendenza sono operazioni come Jurassic World di Colin Trevorrow (2015), o Star Wars: il risveglio della forza (The Force Awakens, di J.J. Abrams, 2015). Via allora i grandi spazi dei prequel di Scott e i grandi temi esistenziali affrontati da quei film, per tornare negli spazi angusti delle astronavi spaziali e al meccanismo, tipico degli slasher (di cui il primo Alien, in fondo, è una variante), dell’uccisione graduale del gruppo di protagonisti da parte di un mostro. Romulus è di fatto una sintesi di tutto ciò che il franchise aveva di meglio da offrire, pescando a piene mani e riattualizzando situazioni, financo dinamiche narrative e intuizioni visive, da tutti e sei i film che lo precedono.
Parlare di Romulus, allora, significa per forza di cose parlare dei film della saga, soprattutto dei primi quattro, quelli che compongono la serie originale centrata sulle vicende del tenente Ellen Ripley e che Romulus più si sforza ad imitare. Questo articolo fa esattamente questo: propone un attraversamento delle prime quattro pellicole della saga, introducendo il lettore ai suoi temi principali. Alien, Aliens, Alien 3, Alien: Resurrection,2 rappresentano un’antologia di racconti che ridelinea sempre gli stessi temi strutturali, ibridandoli e replicandoli nella stessa misura in cui si ibrida e si replica il mostro protagonista della saga.3 La serie ha coinvolto quattro registi differenti – Ridley Scott, James Cameron, David Fincher e Jean-Pierre Jeunet – che hanno sicuramente portato ciascuno delle innovazioni tematiche e narrative vicine alla propria sensibilità, senza che queste, tuttavia, compromettessero una certa unità tematica della serie, mai del tutto sottomessa alle esigenze autoriali del regista di turno. Una serie cinematografica, quindi, che, con una mossa tipicamente post-moderna, inverte il rapporto classico tra la materia filmica e lo sguardo accentratore dell’autore che la produce: con Alien, gli autori non fanno altro che declinare le (infinte) possibilità di significazione della creatura protagonista. L’unità tematica e cuore pulsante della serie è la seguente: la rappresentazione, apparentemente paradossale, di un’alterità assoluta, che si manifesta (in modo piuttosto ovvio) nella rappresentazione dell’alieno, ma che in realtà attraversa ogni aspetto narrativo del franchise. In particolare, come vedremo, coinvolge in pieno la caratterizzazione della protagonista indiscussa della storia, Ellen Ripley.
Il fuori dello spazio interno
Tutto, nell’iconografia di Alien, fa pensare che l’intento del film sia rappresentare l’irrappresentabile. Innanzitutto, l’antagonista del film rimane senza nome. Se la nominazione aiuta a definire e classificare, la creatura ne è esente, venendo interpellata solamente in funzione della sua totale estraneità all’uomo: un alieno, appunto. Da un punto di vista storico, lo statuto indeterminato della minaccia è funzionale alla rappresentazione dell’orrore tipica della società e del cinema degli anni ’80, in cui lo schema della Guerra Fredda allenta la presa e i nemici dell’America perdono definizione. Inoltre, come già rileva brillantemente Gianni Canova ne L’alieno e il pipistrello, nella misura in cui il cinema è un medium visivo, Alien è anche un film sullo sguardo e sulla sua crisi nel cinema contemporaneo. Questo aspetto è sottolineato sia da espedienti registici (l’uso abbondante del fuori campo, la scelta da parte della macchina da presa di cogliere solo brevi frammenti della corporeità dell’alieno, come a significare che una visione globale, capace di catturare un oggetto nella sua interezza, sia costitutivamente impossibile), che diegetici. Ne è un esempio il ruolo della tecnologia visiva nei film: le telecamere che accompagnano la spedizione dei protagonisti nel pianeta sconosciuto in cui trovano l’alieno falliscono nel fornire un’immagine nitida e priva di interruzioni, non permettendo ai personaggi rimasti sulla nave di avere esperienza diretta degli eventi, mentre i sistemi di rilevamento utilizzati per individuare l’alieno non solo falliscono, ma anche conducono i personaggi alla morte, proprio in virtù della loro incapacità di compiere il loro lavoro. Il computer della nave Nostromo, del resto, quando viene consultato, confessa apertamente la sua incapacità di comprendere la natura dell’alieno.
Fuori dalla rappresentazione, fuori dalla cognizione, innominabile, l’alieno è anche fuori dal linguaggio e dalle strutture simboliche che informano l’ordinario. Pura estraneità, quindi: il film mette in scena un incontro con un fuori radicale, apparentemente assoluto. In termini teorici, l’idea di entrare in contatto con qualcosa di talmente estraneo da risultare inclassificabile, innominabile, al di là della percezione e dell’immaginazione, talmente differente da far cortocircuitare il linguaggio e condurre alla follia e alla morte, rimanda alla categoria di orrore cosmico tipica della produzione letteraria di H. P. Lovecraft. La categoria estetica coinvolta in questo caso è quella di weird, definibile, per dirla con Mark Fisher,4 come il sentimento di spaesamento di fronte a una presenza che non dovrebbe esserci, così soverchiante da risultare insondabile, capace di distruggere le nostre strutture cognitive, rivelandole inadeguate, parziali, insufficienti. Sarebbe un errore però ricondurre Alien a questo tipo di declinazione del concetto di estraneità assoluta, per il seguente motivo: l’alieno ha bisogno di parassitare l’umano per nascere, erompendo dal petto di un ospite dopo averlo fecondato. L’alterità è così semantizzata nei termini di una macchia interna, che riappare violentemente nella forma del mostruoso. La topologia dell’estraneità cambia: essa non alberga fisicamente fuori, nello spazio buio che circonda la navicella, ma risiede letteralmente dentro i nostri corpi o, meglio, ha bisogno di corrompere la nostra interiorità per manifestarsi come estraneità.
Una scena centrale del primo film rappresenta questa idea con grande efficacia visiva. Assistiamo ad un membro dell’equipaggio che si addentra nei cunicoli della nave spaziale, intento a recuperare il gatto Jones, nascosto in un anfratto. Mentre l’alieno gli si avvicina alle spalle per trucidarlo, il gatto inizia a soffiare di fronte all’uomo che cerca di raccoglierlo, dimostrando la sua totale ostilità a ciò che gli si para di fronte. A questo punto, la macchina da presa, tramite una serie ripetuta di campi e controcampi, crea una sovrapposizione perfetta tra l’alieno e l’uomo. A chi soffia il gatto, dunque? All’uomo o all’alieno? In un certo senso, a entrambi e alla stessa cosa: alieno e uomo sono lo stesso, l’uno alberga nel profondo dell’altro.
Il paradigma di una minaccia esterna, tipica del cinema dell’orrore classico, viene allora sostituito da uno sguardo che articola l’orrore all’interno dell’uomo, e per estensione a ciò che lo definisce come tale, le relazioni sociali. Se vogliamo porlo in una prospettiva storiografica, Alien va letto insieme a lavori coevi come La Cosa (The Thing, 1982) e Halloween (1978), entrambi di John Carpenter, regista che più di ogni altro concettualizza l’orrore declinandolo all’interno del quartiere borghese e sonnacchioso dell’America di fine anni ’70 (Halloween), o addirittura rendendolo funzionale alla diffidenza reciproca che distrugge i rapporti sociali e ogni senso di etica solidale dell’America reaganiana (La Cosa). Rispetto a questi lavori, però, Alien è più netto nel dare una lettura psicoanalitica alla natura dell’orrore che rappresenta: esso costituisce il ritorno di un rimosso che fa collassare la sovrastruttura simbolica e sociale che lo comprime (non a caso, ogni film, ad eccezione del terzo, termina con un’esplosione che non lascia alcunché alle spalle)5. Intuitivamente, infatti, il fatto che l’estraneo emerga non da fuori, ma da sotto, rimanda in termini quasi topografici alla psicoanalisi freudiana. L’alieno erompe dall’interno dei corpi che infetta, e come un virus decostruisce e scompagina le regole e le gerarchie sociali rappresentate dalle geometrie algide della nave spaziale in cui si ambienta l’azione del film, quelle stesse regole e strutture che si reggono proprio nella misura in cui escludono la realtà simbolica di ciò che l’alieno rappresenta per fondarsi.
L’iconografia del mostro che il designer svizzero Hans Ruedi Giger ci ha regalato è eloquente nel suggerire di quale rimosso si stia parlando. La testa oblunga del mostro ricorda un fallo, la sua doppia mandibola che si protende all’infuori per uccidere le sue vittime ricalca la forma del membro maschile e la meccanica dell’erezione, mentre il face-hugger, lo stadio larvale della creatura, assomiglia ad una vulva tentacolare. La sua fisicità, unta, sudata, umida, lubrificata, ricorda liquidi e umori corporei tipici dell’atto sessuale, mentre la sua nascita, violenta e traumatica, rappresenta gli aspetti più grafici e sconvenienti della riproduzione, del momento del parto. L’alieno, insomma, ha a che fare con la sessualità umana. Non solo, alcune scelte narrative e di regia connettono il mostro ad altri aspetti della vita umana, tutti fisiologici, tutti riconoscibili perché “bassi”, socialmente sconvenienti, rimossi. La sua nascita, in uno dei momenti più carichi di tensione del film, avviene nel contesto di un pasto, mentre la sua morte, in pressoché ogni capitolo del franchise è associata a un’espulsione nello spazio profondo. In Resurrection, il mostro viene risucchiato fuori da un piccolo foro su un oblò, riducendosi in poltiglia nel processo: un ano che espelle materiale fecale liquido. Sesso nella sua dimensione riproduttiva e meccanica, digestione, processi fisiologici, feci: il mostro di Scott rappresenta tutti questi aspetti variamenti associati alla nostra animalità, che, come tali, escludiamo dallo spazio sociale, di cui ci vergogniamo, da cui distogliamo lo sguardo, ma che nondimeno ci definiscono come esseri umani.
Istinto, ragione, cura
Nonostante la radice lovecraftiana del discorso di Alien, è evidente allora come la serie di film se ne discosti nettamente, collocando l’estraneo e il mostruoso in relazione di prossimità e intimità con l’umano. L’alieno è l’estraneo in quanto umano, è ciò che viene escluso dai processi di significazione che reggono le strutture sociali, fondandole però al contempo. Non solo, poiché l’alterità rappresentata dall’alieno ha bisogno di ibridarsi con l’uomo per definirsi in quanto alterità, il film contiene una tesi netta sulla relazione tra identità e differenza: non esiste alterità che non instauri una qualche forma di relazione costitutiva con l’identità di ciò verso cui si definisce estranea. Un’affermazione, questa, che ricorda allo stesso tempo il perturbante freudiano, quel sentimento che sorge di fronte al ritorno di un familiare contaminato con un’estraneità che ci inquieta. La dimensione perturbante, liminale e ambigua dell’alieno, capace di scompaginare ogni distinzione netta tra umano e inumano, rappresenta la cifra narratologica di tutta la saga.
Ogni film di Alien rappresenta una problematizzazione ossessiva di ciò che ci definisce in quanto esseri umani. Pensiamo al primo film. Contrapposta all’animalità selvaggia e priva di coscienza dell’alieno il film tratteggia la figura di Ash, un androide che di contro incarna la fredda logica della razionalità strumentale pura, completamente priva di empatia. È forse Ash il vero antagonista della storia, nella misura in cui fa di tutto, all’insaputa del resto dell’equipaggio, per conservare l’alieno all’interno della nave, mettendo in moto la catena di avvenimenti del film. In questo modo, due personaggi che rappresentano due aspetti idealtipici delle nostre personalità, due modelli semplificati e apparentemente opposti dell’umano, finiscono per sovrapporsi diventando quasi indistinguibili. Ce lo spiega Ash stesso, in una delle scene più importanti del film: l’androide dice di ammirare l’alieno, perché rappresenta un organismo del tutto privo di coscienza e di moralità, una perfetta macchina da guerra, la più efficiente mai conosciuta. La posizione di Ash è emblematica. Di fatto, dell’alieno Ash ammira i tratti che possono essere attribuiti a lui stesso in quanto androide: privo di coscienza morale (l’androide non la possiede, essendo il suo codice comportamentale eteronomo e anempatico), estremamente efficiente nello svolgere lo scopo per il quale è programmato. L’efficienza, tratto tipico della ragione calcolante, astratta, diventa ciò che più accomuna l’alieno e l’androide, figure quindi della stessa estraneità perturbante.
Questa logica inumana, improntata all’efficienza e all’economia delle prestazioni, è forse la vera grande antagonista del film. È incarnata, soprattutto, dalla compagnia, la big corporation spaziale che gestisce la nave cargo Nostromo, pronta a sacrificare ogni vita umana pur di mettere le mani sull’alieno per trarne profitto. Se nel primo film la compagnia è un’entità che agisce sullo sfondo, pur influenzando direttamente gli eventi del film, in Aliens essa acquisisce un volto, quello subdolo di Burke, burocrate meschino, pronto a infettare addirittura una bambina pur di mettere le mani su un esemplare alieno. Oltre al carattere quasi archetipico della compagnia, anche l’umanità messa in scena dalla crew del Nostromo è degradata, non solo per il fatto che rappresenta una sorta di classe operaia spaziale, sfruttata e abbruttita dalle condizioni di lavoro estreme a cui è sottoposta, ma anche perché ogni membro, in misura diversa, introietta la logica economicista propria della compagnia. Con la notevole eccezione di Ripley e del Capitano (che però reagisce alla situazione in cui si trova in modo emotivo, scomposto e disperato), i pochi scambi tra i personaggi che il film sfrutta per presentarli allo spettatore sono focalizzati sull’esaltazione degli istinti primari (l’attrazione sessuale verso i componenti femminili dell’equipaggio, ad esempio) e centrati su costanti recriminazioni salariali, sul denaro, e in generale sulla condizione materiale, più immediata, della propria esistenza.
Contrapposta ai poli antitetici ma sovrapponibili della bestialità dell’alieno e della razionalità perversa della compagnia e di Ash, si staglia la figura della protagonista, il tenente Ripley. Ella stessa, come vedremo, è un elemento alieno nel corpo dell’equipaggio, sia in quanto donna (nonostante la presenza di un altro membro femminile, Lambert, la cui caratterizzazione, donna debole e terrorizzata, serve prevalentemente ad esaltare per contrasto le qualità di Ripley), sia perché portatrice di un modello etico irriducibile a quello di tutte le altre forme di agency tratteggiate nel film. In un mondo degradato, ridotto agli istinti primari e all’urgenza di sopravvivere, vuoi nella forma dell’uccisione e della riproduzione nel caso dell’alieno, vuoi nella forma della mera sopravvivenza ad una minaccia esterna nel caso degli umani dell’equipaggio, Ripley si staglia come alternativa etica, un’alternativa che si manifesta nell’esercizio della cura e della responsabilità nei confronti degli altri. Ciò è espresso da una situazione apparentemente secondaria, ideata di primo acchito solo per aumentare la suspence della pellicola, ma che forse nasconde il cuore etico del film. Ripley, a un certo punto, pur avendo la possibilità di salvarsi, decide di mettersi nuovamente a rischio, addentrandosi ancora una volta nei corridoi mortiferi della nave, per recuperare e portare con sé il gatto Jones. Un atto di solidarietà e cura, addirittura interspecifica in questo caso, che sconfigge ogni istinto di sopravvivenza o di lealtà al proprio gruppo (o alla propria specie), che contrappone Ripley in maniera netta sia ad Ash che all’alieno antagonista. In Aliens, questo tema ritornerà in maniera più netta nella decisione da parte di Ripley di prendersi cura dell’orfana Newt, mentre in Resurrection questo aspetto è compromesso, proprio nella misura in cui Ripley perde parte della sua umanità essendosi ibridata con l’alieno, e in lei si manifestano logiche di affiliazione di branco più che di abnegazione altruistica. Insomma, nel momento in cui a sopravvivere nel primo film saranno solo Ripley e il gatto, la tesi morale del film è chiara: l’unico antidoto a un’umanità degradata, ridotta a logiche opportunistiche e istinti primari, è l’esercizio etico della cura e del sacrificio per gli altri.
Anche gli androidi sognano alieni
I sequel, d’altro canto, continuano a riflettere sullo statuto ambiguo dell’umano utilizzando ancora l’espediente del cyborg, concettualizzandolo però in termini sempre diversi. Ogni regista porta avanti un discorso autonomo sull’androide. Se Scott accentua la natura estranea della razionalità “calcolatrice” dei cyborg, Cameron ne enfatizza invece la somiglianza con l’umano, mentre Jeunet torna a rimarcare la differenza, lo scarto con l’umano, in un confronto però che risulta peggiorativo per l’umanità stessa. Anche la valutazione che i film conferiscono alla figura del cyborg cambia: negativo nel caso di Scott, neutrale nel caso di Cameron, positiva nel caso di Jeunet.
In Aliens, l’androide di bordo è Bishop, di cui Ripley, memore della passata esperienza con Ash, non riesce a fidarsi. Il film gioca con l’aspettativa dello spettatore, pronto ad assistere al tradimento del cyborg ai danni di Ripley, ma ciò non avviene: sarà proprio Bishop a pilotare la scialuppa di salvataggio che recupera Ripley e l’orfana Newt, prima che la base della colonia esploda. Di contro alla freddezza anaffettiva e inumana dell’androide di Scott, Cameron quindi opta per una rappresentazione opposta: Bishop è uno di cui ci si può fidare, perché così è stato programmato. All’interno della filmografia di Cameron, questo tema verrà esplorato, qualche anno più tardi nella figura del T-800 protagonista positivo in Terminator 2. Qui, come e di più che in Aliens, Cameron esplora l’indistinzione morfologica e cognitiva delle macchine con gli umani. Il corpo di Schwarzenegger e il trucco prostetico offrono l’occasione all’occhio del cinema di catturare la sovrapposizione tra carne e macchina, allentandone le differenze e ponendoli su un piano di assoluta continuità. In Aliens, questa intuizione visiva torna nell’epilogo del film, in cui una Ripley bardata di un esoscheletro robotico che le potenzia le prestazioni, fronteggia e sconfigge la madre aliena. Sia nel caso di Bishop e del T-800, che in quello dell’esoscheletro, la tecnologia assume un forte valore salvifico, un tema che acquisisce una dimensione metacinematografica se la poniamo nel contesto della filmografia di James Cameron: un cinema di costante e continua sperimentazione e innovazione tecnica, un cinema in tutto e per tutto tecnofilo.6
In Alien: Resurrection abbiamo una nuova riproposizione del concetto di cyborg. In questo caso, l’androide Annalee Call, interpretata da Winona Ryder, è non solo un personaggio positivo, è anche il cuore affettivo della pellicola, nella misura in cui ci viene presentata come un androide di nuova generazione dagli spiccati tratti umani. Call prova empatia, si commuove e si batte per il futuro di una specie non sua, tutti elementi che la mettono in contrasto stridente con gli altri protagonisti della pellicola. Da una parte, infatti, abbiamo un gruppo di mercenari senza scrupoli, che fino a quel momento erano occupati a trafficare esseri umani e che si trovano loro malgrado a sgomitare per sopravvivere in una nave infestata da alieni, e dall’altra abbiamo Ripley stessa, che in questo film è l’esito di una clonazione che l’ha resa di fatto un ibrido uomo-alieno dalla dubbia lealtà. Il film opera allora un ribaltamento ardito ma interessante: il cyborg, qui, è più umano degli umani. Se nel capostipite, in maniera molto tradizionale, la figura dell’androide assume lo statuto di un caso limite costruito per sottrazione rispetto a ciò che contraddistingue l’essere umano (Ash è un uomo meno la componente affettiva e morale), in Resurrection il cyborg è una figura pienamente umana, costituente l’ideale di ciò che l’uomo può ambire ad essere (e che non è più: almeno, nel futuro distopico descritto nel film). Il fatto che il film ci dica anche che gli androidi come Call siano stati progettati e costruiti dalla generazione di androidi precedenti ci fa capire quanto siano incapaci, o più probabilmente disinteressati, gli esseri umani a costruire replicanti che coltivino tratti superflui come l’empatia e le emozioni primarie. L’antropologia di Resurrection, allora, cupa e nichilista, rappresenta una vittoria totale dell’ideale di disumanizzazione rappresentato dalla compagnia del primo film: è un’antropologia degradata, tendente verso il basso, dedita a interessi spicci e istinti brutali, al confronto della quale la tenera emotività di una donna artificiale risulta ancora più stridente. Tutto il film, del resto, è permeato da questa idea di degradazione, che nel contesto fantascientifico della saga non può che fare riferimento all’acquisizione dei tratti più tipici degli alieni. La stessa Ripley, abbiamo detto, è un ibrido, essa stessa un alieno nel corpo della sgangherata umanità rappresentata dagli altri protagonisti.
Madre e guerriera: lo spazio del femminile
Il legame che la serie Alien istituisce tra identità e alterità, collocando la seconda all’interno della prima, acquisisce un’ulteriore elaborazione se si riflette proprio sulla figura di Ripley. La protagonista della saga è sempre rappresentata nei termini di un corpo estraneo all’interno delle dinamiche sociali, misogine e patriarcali, che le pellicole mettono in scena. È Ripley stessa ad essere un alieno. Lo è, in primo luogo, a partire dal contesto in cui si muove. Nel primo film, la protagonista si distingue per essere in costante discordanza con gli altri membri dell’equipaggio, vuoi nei termini di caratterizzazione, come specificato sopra, vuoi nel disaccordo reiterato che manifesta con il Capitano, tratteggiato come un individuo in definitiva incapace di agire con lucidità e di assumersi la responsabilità del proprio ruolo. In Aliens, Ripley è l’unico membro del gruppo a non essere un soldato (se si esclude Burke), a non conformarsi all’ethos machista e sbruffone dei militari, una posizione di estraneità in virtù della quale riuscirà ad arrivare a comandare il gruppo di sopravvissuti esattamente come nel primo film. In Alien 3, invece, Ripley precipita in un pianeta che funge da colonia penale per soli uomini: la sua presenza è in tutto e per tutto un’eccezione che viene dall’esterno, un virus in un corpo estraneo che, tra l’altro, conduce l’alieno all’interno della comunità maschile. Un alieno che assume, in questo caso, la dimensione metaforica del flusso di desiderio maschile che viene riattivato dalla presenza di una donna in un contesto di soli uomini violenti e repressi. In Resurrection, infine, Ripley è estraneità in un senso ovvio: è una donna che viene dal passato, che è lì solo perché clonata, e che non è più totalmente umana.
La saga, inoltre, spesso tende a enfatizzare un legame quasi simbiotico tra Ripley e la creatura, andando così a sovrapporre lo spazio dell’estraneità simbolica rappresentato dall’alieno con quello interno e più familiare incarnato dalla nostra protagonista. Questo è del tutto evidente in Aliens, dove lo scontro tra Ripley e la regina aliena è presentato anche come lo scontro tra due madri o, meglio, tra due manifestazioni diverse della maternità. Se la regina, ancora una volta, rappresenta gli aspetti più istintuali della generazione, di contro Ripley le contrappone una concettualizzazione della maternità come scelta e non destino: Ripley, infatti, sceglie di prendersi cura dell’orfana Newt, sceglie di farsi carico della relazione di cura nei suoi confronti, sceglie di rischiare la propria vita per proteggerla, e così via. Come già specificato sopra, è la dimensione squisitamente umana della cura rappresentata dalla maternità scelta che trionfa sull’urgenza meccanica, biologica e primordiale della riproduzione fine a sé stessa.
In Alien 3, la sovrapposizione tra gli antagonisti è del tutto evidente: non solo Ripley introduce l’alieno nella colonia penale, portandolo con sé, ma è lei stessa l’alieno, nel momento in cui si scoprirà che al suo interno sta crescendo una nuova regina. In questo senso, Alien 3 è tra tutti il film più cupo e disperante: la soluzione alla rottura dell’ordine causata dall’arrivo di Ripley non può che essere affermata tramite la sua morte. Sua, e quindi dell’alieno. Non c’è alcuno spazio profondo in cui scaraventare la creatura, non c’è alcun fuori in cui farlo ritornare, perché il fuori, nel contesto claustrofobico del film, è Ripley stessa, che è così costretta a sacrificarsi. Inoltre, il film è particolarmente crudele nel momento in cui annulla l’opposizione tra i due concetti di maternità tratteggiata nel film precedente: Ripley è infatti condannata a essere madre proprio dell’alieno. Nell’attimo prima dell’immersione del corpo di Ripley nel metallo fuso che la ucciderà, assistiamo al parto sanguinolento dell’alieno, che erompe dal suo petto: l’estremo pervertimento della generazione umana viene letteralmente a coincidere con la morte della madre, e il suicidio di Ripley diventa allo stesso tempo l’unica forma di autodeterminazione che le rimane.
Resurrection, infine, riafferma la sovrapposizione tra le due figure riproponendola su un piano materiale e corporeo. Ripley, infatti, torna in vita come ibrido umano-alieno, cosa che ne accentua ancora di più i tratti di pura alterità rispetto agli altri esseri umani. Il clone protagonista del film, non a caso, è il numero otto, esattamente come l’alieno è l’ottavo membro dell’equipaggio della Nostromo nel primo film. Non solo, anche gli alieni acquisiscono tratti umani, in particolare la regina, che darà alla luce un mostruoso ibrido con cui Ripley, ancora una volta, instaurerà un perverso, ma a suo modo tenero, legame materno.
In tutti i casi qui analizzati, il registro dell’estraneità e del mostruoso a cui Ripley è indissolubilmente legata ha a che fare con la maternità. Già lo aveva evidenziato Barbara Creed, nel suo saggio sul “femminile mostruoso” (monstrous feminine):
«The science fiction horror film Alien is a complex representation of the monstrous feminine in terms of the maternal figure as perceived within a patriarchal ideology. She is there in the text’s scenarios of the primal scene, of birth and death; she is there in her many guises as the treacherous mother, the oral sadistic mother, the mother as a primordial abyss: and she is there in the film’s images of blood, of the all-devouring vagina, the toothed vagina, the vagina as Pandora’s box; and finally she is there in the chameleon figure of the alien, the monster as fetish-object of and for the mother».7
Il tema del ritorno del rimosso subisce in Creed una evidente torsione femminista, nella misura in cui l’alieno assume la forma espressiva del femminile e del materno visto tramite gli occhi repressivi di una società patriarcale che costitutivamente li teme e li rimuove. Alien non si limita però a declinare il femminile solo in questi termini, meramente negativi. Se così fosse, non saremmo troppo lontani dalle coordinate dei film slasher degli anni ’80, in cui l’emancipazione sessuale delle donne veniva brutalmente punita dal mostro di turno, sconfitto quasi sempre da una final girl più conforme all’ideale patriarcale della donna docile e casta. In Alien, invece, Ripley è sì, se vogliamo, una final girl, ma che nella sua lotta con il mostro acquisisce i tratti tipici del dominio maschile, quelli del leader e del guerriero. Di fatto, nella saga di Alien il femminile viene risemantizzato, riconcettualizzato in modo tale da riappropriarsi di alcuni ruoli tradizionalmente preclusi alle donne. Insomma, Alien non è solo la rappresentazione di ciò che il femminile è agli occhi di un patriarcato repressivo (il mostro), come rivela Creed, ma è anche e soprattutto, come sottolinea molto bene Sasha Vojkovic,8 un tentativo di utilizzare il registro dell’estraneità e dell’alterità per disegnare positivamente un nuovo spazio per la rappresentazione della donna e il suo potere (Ripley).
Il tema della maternità stessa di primo acchito non propriamente emancipatorio nella misura in cui sembra incatenare la donna alla sua funzione riproduttiva, nella storia e nella figura di Ripley si declina sempre e comunque a prescindere da qualsiasi legame con il maschile, che in tutta la saga è sempre ostacolante, sempre oppositivo, e in definitiva, sempre vittima della voracità famelica dell’alieno. La saga di Alien, in altre parole, tenta costantemente di tematizzare la riappropriazione del materno da parte della donna, contro qualsiasi riduzione dello stesso a mero istinto riproduttivo, e soprattutto contro qualsiasi tentativo maschile di ridurlo a strumento di sottomissione e dominio. Ciò è possibile proprio nella misura in cui Ripley abita lo stesso spazio dell’estraneità occupata dall’alieno, uno spazio che nessun uomo conosce e che lo rende fatalmente vulnerabile alla distruttività della creatura. Non a caso il maschile che sopravvive è sempre un maschile “demascolinizzato”: è il caso del soldato Hicks in Aliens, unico sopravvissuto della truppa proprio nella misura in cui decide di spogliarsi del suo ruolo e sottomettersi in tutto e per tutto alla leadership di una donna.
Per comprendere l’assoluta unicità dell’operazione compiuta dalla saga di Alien sulla rappresentazione del femminile, è utile un confronto con l’altro simbolo del girl power degli anni ’80, la protagonista di Terminator, Sarah Connor. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una donna madre e guerriera, ma questi ruoli acquisiscono valore in relazione alla protezione del figlio maschio: di un altro uomo, quindi. Sarah, in questo senso, è una figura mariana, più vicina alla Maria madre di Cristo che a Ripley: nel primo film il suo valore è definito solo in funzione del Messia post-apocalittico che porta in grembo, così come nel secondo la sua missione esistenziale si esaurisce nella protezione del figlio, della prole (non diversamente, se vogliamo, dalla regina aliena in Aliens). L’ultimo bistrattato sequel del franchise, Dark Fate, di fatto quasi un remake del primo film, cerca di riproporre la formula di Terminator andando proprio a modificare la rappresentazione della donna protagonista, rendendo ella stessa, per una volta, il Messia da proteggere. In Alien, di contro, tale esigenza sarebbe superflua. La saga, nel suo complesso, in virtù del suo essere una riflessione sull’estraneità, può anche essere letta come una meditazione su quell’estraneo sociale che è rappresentato dalla donna in una società patriarcale e maschiocentrica, e così facendo, si sforza di rendere rappresentabili nuove possibilità per il femminile, oltre e indipendentemente da qualsiasi forma di sguardo e interesse maschile.
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1) S. Zizek, The Sublime Object of Ideology, Verso, Londra, 1989, p. 79.
2) In questa sede si utilizzeranno i nomi originali inglesi delle pellicole. I cambiamenti, ben poco funzionali, nelle versioni italiane riguardano rispettivamente il secondo e il quarto film, Aliens – Scontro finale, e Aliens – La clonazione.
3) L’approccio qui seguito alla saga si rifà ad alcuni lavori di cultural theory statunitense, su tutti il seminale A. Kuhn (a cura di), Alien Zone: Cultural Theory and Contemporary Science Fiction Cinema, Verso, Londra, 1990.
4) M. Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, Minimum Fax, Roma, 2018.
5) Si veda D. Punter, The Literature of Terror, London, Routledge, 1980 per un’elaborazione di questo tema nel gotico. Si veda anche S. Zizek, op. cit. p. 79, per una lettura lacaniana del rimosso specificamente in Alien, in cui si determina come ciò che è escluso dalla significazione dall’atto della significazione stessa.
6) Per un’introduzione ai temi della cinematografia di Cameron, si rimanda a D. Dottorini, Filmare dall’abisso. Sul cinema di James Cameron, ETS, Pisa, 2013.
7) B. Creed, Horror and the monstrous feminine – an imaginary abjection, in S. Thornham (a cura di), Feminist Film Theory. A Reader, New York, New York University Press, pp. 251-266.
8) S. Vojkovic, What Can She Know, Where Can She Go? Extraterritoriality and the Symbolic Universe in the Alien Series, in New Review of Film and Television Studies, N. 1, Maggio 2010, pp. 101-130.