Forse davvero non bastano più – pur se necessari – i discorsi e le analisi riguardanti l’argomento ‘cambiamento climatico’. Ogni cosa, di questi tempi, rischia di finire nel tritacarne dell’iperinformazione, della ridondanza dei messaggi, tutto rischia di essere sopraffatto dal grido d’allarme di turno che rischia di non allarmare più nessuno. Nel libro La tempesta e l’orso (edito da Industria & Letteratura nella Collana Sarvatā, diretta da Laura Liberale), Claudia Boscolo racconta la tempesta Vaia, ciclone extratropicale che ha devastato i boschi del Trentino e del Veneto alla fine di ottobre 2018, spazzando via in una notte 42.525 ettari di bosco. L’autrice lo fa partendo da un episodio della vita quotidiana apparentemente insignificante e che ben presto si rivela come l’inizio di una devastazione immane e di un fenomeno di una gravità mai esperita in quelle zone.
«All’inizio era qualche goccia, poi divenne un rivolo. Scendeva in modo uniforme lungo una trave e ricadde sull’intonaco che se ne imbevve rapidamente. Si formò una chiazza umida mentre da un’altra trave, una di quelle portanti, il getto si riversava sul bambino. Erano circa le undici di sera e il piccolo era addormentato, di un sonno profondo. […] Quando iniziò a piovere si aspettavano che l’acqua sarebbe gocciolata lungo le travi, era già successo. Delle infiltrazioni così, però, non le avevano mai viste. […] Nel frattempo il vento si era fatto più violento […] L’oscurità non permetteva di vedere cosa stava accadendo lì fuori, ma alcuni tonfi, dei rumori sordi anticipavano lo spettacolo che si sarebbero trovati di fronte al mattino presto. […] Lo spettacolo fu spaventoso…» (pp. 7-9).
Ecco, nelle pagine iniziali del libro Claudia Boscolo ci mostra con un crescendo di emozioni e di incredulità l’arrivo dell’inatteso, dell’impensabile. Dalla sera al mattino seguente un’intera comunità si è trovata a vivere una condizione di sgomento profondo procurato non solo dalla paura della morte individuale, ma anche e soprattutto dalla paura «di scomparire letteralmente come specie». Di fronte alla vastità di fenomeni che travalicano la nostra esperienza e i nostri punti di riferimento spazio-temporali – e qui Claudia Boscolo cita gli iperoggetti di Timothy Morton – è impossibile seguire un filo lineare della narrazione, è necessario ‘pensare per storie’, bisogna spaziare abbordando l’argomento da ‘n’ punti di vista, apparentemente disparati e lontani l’uno dall’altro. Qui l’autrice ripercorre la storia delle terre colpite da Vaia. Molta parte degli alberi abbattuti dalla furia del vento erano stati impiantati sull’Altipiano per ripristinare il paesaggio devastato dalle battaglie e dagli insediamenti militari durante la prima guerra mondiale. La scelta cadde sugli abeti rossi, senza tener conto della biodiversità e delle condizioni ambientali. «Alla guerra degli uomini si è sostituita quella dell’atmosfera contro le decisioni scellerate dovute alla fretta e alla necessità di ricostruire un ambiente […]» (p. 10). I danni causati dalla ‘finalità cosciente’, per dirla con Bateson, sono sotto gli occhi di tutti e non solo nelle regioni devastate da Vaia.
In questo scenario drammatico fa la sua comparsa un altro personaggio le cui vicende sono emblematiche dell’esistenza di molti suoi simili: parliamo dell’orso M49 (che tristezza queste sigle alfanumeriche per indicare orsi ai quali non viene più assegnato un nome). Anche M49 si ritrova a vivere in un ambiente devastato e nel quale non trova più il cibo e l’habitat che gli era familiare. Non può fare altro che mettersi in movimento alla ricerca di sostentamento, allarmando gli abitanti delle valli. Fino a quando si sveglierà dal letargo in un ambiente in cui gli esseri umani sembrano spariti nel nulla, perché nel frattempo ha fatto la sua comparsa un altro iperoggetto: la pandemia del Covid-19. Il povero M49, dopo fughe rocambolesche, catture ed evasioni finirà immobilizzato e rinchiuso in una prigione di cinquanta metri quadri. Lui, «il camminatore solitario, crepuscolare, dall’olfatto e dall’udito acutissimi» (p. 47). La relazione uomo-orso è entrata in crisi – e qui l’indagine di Claudia Boscolo dall’analisi del presente passa a ripercorrere le epoche passate – quando durante il regno di Carlo Magno nelle foreste della Sassonia e della Turingia ci fu una terribile strage di orsi (per la verità la strage fu portata avanti per volontà della Chiesa, che abbattendo gli orsi intendeva combattere le manifestazioni di culti pagani che veneravano animali della foresta, e tra questi un posto speciale era occupato dall’orso). Fu così definitivamente infranto il rapporto di venerazione, fratellanza, emulazione, competizione che l’uomo aveva costruito con l’orso, animale totemico nelle società arcaiche del nord Europa. Una narrazione complessa, plurale quella di Claudia Boscolo fino ad approdare al presente e alla desolante politica dei nostri giorni, la quale ha bisogno di riscuotere il consenso di elettori impauriti dalla presenza di orsi sempre più vicini alle comunità umane, «con la costruzione del nemico irsuto» (p. 48). Ovviamente alla persecuzione del capro espiatorio danno il loro contributo i media conniventi. Anche l’arte dello scultore Martalar, che con frammenti degli alberi abbattuti ha realizzato enormi sculture nel segno della rinascita, ha finito per essere fagocitata dal circo mediatico del turismo di massa che poco ha a che vedere con l’amore per le montagne e i suoi abitanti, umani e non. E se anche l’arte diventa triste merce di consumo e se dobbiamo amaramente concludere che anche l’opera d’arte ha perso vitalità e senso nelle nostre vite alienate, significa che è già morto qualcosa dentro di noi, come scriveva Mario Galzigna nel 2013, in Rivolte del pensiero, «quando il terribile è già accaduto non possiamo attenderci altro se non che l’Oggetto si faccia eco esterna della distruzione già occorsa internamente» (p. 89).
L’impianto narrativo e investigativo del libro della Boscolo ha anche un profondo risvolto etico: il processo di conoscenza che interroga il Vivente, dagli alberi agli animali, appronta il campo di indagine rispettando l’Altro, in questo caso l’orso, contemplandone la dignità di soggetto all’interno di una storia naturale e culturale impigliata con la nostra nel dramma della vita. Ogni indagine scientifica, sia essa naturalistica o antropologica non può prescindere da un processo di soggettivazione dell’Altro. Ne La tempesta e l’orso l’autrice assegna all’orso una dignità di personaggio involontariamente implicato nelle nostre vicende e costretto a pagare con la vita o con la libertà le conseguenze delle nostre scelte scellerate. Da qui la domanda chiave che scaturisce dalla lettura di queste pagine: quanto grande è il debito che abbiamo contratto con l’Altro? (Cfr. Mario Galzigna: Divorare l’altro – Prefazione a Eduardo Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali, p. 8). Occorrerà per questo innanzitutto una radicale ‘decolonizzazione del pensiero’.
L’ultimo capitolo di questo libro si intitola Nessun finale: molte vittime hanno già pagato il fio della nostra hybris. Il nostro futuro è purtroppo in parte già compromesso, tuttavia ancora molto possiamo fare:
«[s]olo ora iniziamo a comprendere che non si tratta di un’emergenza, ma di un nuovo modo di stare al mondo che prevede un adattamento da parte nostra, fatto di grandi rinunce» (p. 87).
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Immagine di copertina:
Ivan Ivanovič Šiškin, Mattino in una pineta, 1889, Galleria Tret’jakov, Mosca.