Da quando, nel 1866, il biologo Ernst Haeckel coniò la parola “ecologia” per indicare quel settore della biologia che studia l’interazione tra organismi e ambiente naturale, la popolarità del termine è andata crescendo, per oltrepassare le scienze biologiche e raggiungere oggi un discorso diffuso. Un discorso che da tempo riguarda, sotto molteplici punti di vista e discipline, la ridefinizione dell’epoca nella quale viviamo, l’epoca storica, ma non solo, l’epoca geologica, che all’alba del XXI secolo alcuni specialisti proposero di chiamare Antropocene. Si tratta di un processo di ridefinizione complesso perché, come accade nelle epoche di trapasso, quello che si trasforma è l’intero spettro di molte società umane, in una rivoluzione che avviene per fratture, discontinuità ma anche con riprese di elementi passati. Maurizio Corrado, per esempio, architetto, scrittore e curatore, propone di ripensare alla storia profonda per ritrovare i gesti e gli strumenti che possono aiutare a sopravvivere in un pianeta affetto dai molteplici collassi degli ecosistemi che conosciamo.
Le ricerche di Corrado su ecologia del progetto sono di lungo corso, iniziano negli anni Novanta e sbordano da sempre oltre i confini delle discipline e dei media e il suo ultimo libro, recentemente pubblicato da Terracqua edizioni a cura di Antonia Santopietro, Pleistocity. Frammenti di un discorso ecologico, riprende materiale di quasi un decennio. Il libro sistematizza infatti, attraverso una struttura suddivisa in quattro macro sezioni, una serie di interventi precedentemente pubblicati in un blog del quotidiano La Repubblica nella sezione Design e Architettura dal 2013 al 2020, con l’aggiunta di un’intervista finale di Valentina Lucherini all’architetto Paolo Soleri, precedentemente pubblicata sulla rivista Nemeton: Hight Green Tech Magazine.
Raccogliere scritti che sono stati redatti su un arco temporale abbastanza lungo è un’operazione privilegiata di scrittura, che evita il lavoro in decompressione che caratterizza molta editoria e dunque molti scrittori contemporanei e si permette il lusso della ripetizione, della ripresa, del ripensamento e, in questo caso, anche del frammento, quest’ultimo in quanto dichiarata e felice citazione Barthesiana. Il discorso frammentario si presta bene ad accogliere la questione ecologica, esula da un eccesso di strutturalismo accademico, procede per lampi, analogie, allo stesso tempo scardina il discorso narrativo in cerca di nuove voci oltre lo stesso giro dell’umana quotidianità. La scrittura, per Corrado, è dichiaratamente un dovere e uno strumento temporaneo e provvisorio per divulgare saperi, come viene esplicitato nel paragrafo intitolato Paradigma Pleistocene scritto insieme a Matteo Meschiari e Francesco Gori: «bisogna farlo perché se i tempi saranno duri dobbiamo munirci fin da ora di strumenti per resistere dentro, coltivando forza e tenerezza sufficienti per non perderci» (p. 25).
Il libro è dunque suddiviso in tre macro aree più le interviste: Pleistocity, Architettura, Design e Interviste. L’idea di fondo che sottende al ragionamento di Corrado è una precisa idea di relazione tra l’umano e il paesaggio, nonché un’idea di paesaggio piuttosto ampia e che oltrepassa, a volte un po’ frettolosamente, i principali studi sul tema e l’etimologia stessa della parola, per andare indietro nel tempo fin dentro le grotte del Paleolitico. Secondo questa teoria, sviluppata tra gli altri dal geografo Matteo Meschiari nella Landscape Mind Theory, «il cervello umano è stato modellato sul paesaggio e dal paesaggio, siamo programmati per conoscere il paesaggio perché il paesaggio ci ha programmati per conoscerlo» (pp. 13-14). Questo legame tra il paesaggio e l’evoluzione umana ha risieduto nell’essere stati per millenni cacciatori-raccoglitori nomadi e nell’essere sopravvissuti in ambienti ostili, come quelli dell’ultima glaciazione del Paleolitico superiore. L’arte rupestre di cui si sono rinvenute tracce in diverse grotte europee e gli animali che vi sono rappresentati sarebbero visti, in questo contesto, come simboli e astrazioni, immaginazioni e nostalgie, immaginari potenti che hanno permesso di sopravvivere in ambienti difficili.
«Questo “paradigma pleistocene” (…) si riassume in un’idea indimostrabile: noi siamo chi eravamo, fatti per muoverci e per stare fuori, siamo memoria genetica e incarnazione attuale dell’uomo del Paleolitico, i nostri gesti, i nostri processi cognitivi sono abitati dai suoi» (p. 17).
Secondo questo paradigma, le tracce di questa presenza sono state cancellate dalla cosiddetta rivoluzione neolitica, quando le società umane diventano stanziali e la casa diventa un elemento centrale, così come la proprietà. Che si tratti di un’«idea indimostrabile» è dichiarato dagli stessi autori che desiderano smarcarsi da un eccesso di intellettualismo in favore di una «saggezza dionisiaca» che procede appunto per lampeggiamenti più che per spiegazioni lineari. Questo modo di procedere fa sì che Corrado possa semplificare al massimo i processi di mise en place della rivoluzione neolitica, che oggi sappiamo essere stato un processo molto meno lineare di quello che si è pensato, come hanno mostrato David Graeber e David Wengrow nel loro studio L’alba di tutto. Così come meno netta di come viene mostrata dall’autore è la separazione tra caccia e raccolta e agricoltura nel corso della storia umana, considerato che le prime tracce di coltivazione di cereali risalgono a 110.000 anni fa nell’attuale Mozambico, ben prima dunque della rivoluzione neolitica, come mostrano Jean-Pierre Williot e Gilles Fumey nella loro recente Histoire de l’alimentation. Inoltre, non sempre agricoltura è uguale a possesso, chiusura e mercato, come dimostra l’agricoltura naturale praticata da Masanobu Fukuoka e basata sulla non-azione, ma così come moltissime altre forme di agricoltura e di giardinaggio sempre più attive dagli anni Settanta a oggi stanno dimostrando, una tra tutti il giardino in movimento di Gilles Clément, che scardina l’idea di stanzialità. L’archeologia oggi, penso in particolare al volume di Oliver Creighton, Designs upon the Land Elite Landscapes of the Middle Ages, ci mostra addirittura come l’idea stessa di hortus conclusus medievale non sia sempre corretta, ma come esistessero spazi e giardini molto più aperti e interconnessi.
Al netto di queste precisazioni, che chi scrive ritiene doverose, la necessità rilevata da Corrado di ritrovare «mobilità, leggerezza e manualità, ricerca dell’essenziale, materiali primari, comunità, racconto» (p. 17) è senz’altro fondamentale oggi, soprattutto perché molte società sembrano incastrate in un paradigma industriale che non lascia scampo, caratterizzato da continua produzione e dall’utopia dello sviluppo a ogni costo.
«In tutte le società industriali lo sviluppo ha avuto lo stesso effetto: ognuno è inserito in una trama di dipendenza da prodotti e beni standardizzati al cui bisogno viene costantemente educato. È in atto una progressiva sostituzione di tutto ciò che non è negoziabile con beni e servizi industriali. La dipendenza da merci e bisogni preconfezionati ha sostituito la capacità di ideare e costruire le proprie soluzioni, è avvenuto un mutamento importante: sono cambiati i desideri, la libertà non è più desiderabile» (p. 26).
Desiderio e libertà sono due presupposti che muovono il discorso dell’autore il quale parla di «ecologia come piacere», contro i vari tentativi di decrescita o di senso di colpa e sacrificio che spesso, secondo Corrado, caratterizzano il discorso attuale sull’ecologia. Questa ecologia desiderante cita Hildegard Von Bingen e vuole riappropriarsi degli strumenti individuali per vivere una vita liberata. Ricorda da vicino quella di un altro autore che è spesso citato da Corrado, Ivan Illich, in particolare per quanto concerne l’idea di «convivialità». Anche Illich, infatti, era mosso dal ritrovare libertà e piacere al di fuori da uno sviluppo che era, e continua ad essere, non solo controproducente, ma limitante e pericoloso.
«Chiamo società conviviale una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività, e non riservato a un corpo di specialisti che lo tiene sotto il proprio controllo. Conviviale è la società in cui prevale la possibilità per ciascuno di usare lo strumento per realizzare le proprie intenzioni». 1
Anche Corrado parla di riappropriazione degli strumenti per la realizzazione delle proprie intenzioni, a cominciare dai fondamentali, quelli dell’architettura e del design, ai quali sono dedicate le ultime tre sezioni del testo. Attraverso una serie di aneddoti di storia dell’architettura, l’autore procede per critiche e proposte concrete di rivoluzione nella progettazione e nella costruzione, a cominciare dalla presa di consapevolezza che è la casa stessa l’elemento problematico.
«Vista con l’ottica che mi piace assumere come ipotesi io sto fuori e mi muovo, diventa chiaro che il problema della casa è la casa, è che la maggior parte delle considerazioni derivano da una sola necessità: quella di limitare i danni che abbiamo quando dobbiamo stare dentro, negli interni, cosa che si porta dietro anche l’impedimento all’altra azione, il movimento» (p. 56).
Architettura e design diventano allora terreno privilegiato di sperimentazione di altri materiali e altri gesti, sostenibilità è un concetto molto più concreto e umano che l’essere semplicemente risparmio energetico e le città devono essere pensate come luoghi del camminare e, in alcuni casi, della non-azione, di spazi lasciati in situazione di abbandono a evocare immaginari fantastici. Scansando per un attimo l’idea di tecnologia, che resta comunque produzione di oggetti e che Corrado liquida come «roba dell’Ottocento», l’autore parte da una constatazione tanto semplice quanto, oggi, rivoluzionaria: alleggerirci smettendo di comprare.
«L’indicazione del design ecologico è semplice: smettere di comprare. Usare tutto ciò che già abbiamo al meglio, sfruttando una caratteristica propria della nostra specie: quella di trovare le connessioni fra le cose e le idee. Si tratta essenzialmente di tornare a essere uomini e non consumatori. C’è un tranello sottile nelle definizioni, nel momento in cui ci definiamo consumatori, smettiamo di essere uomini soddisfacendo di fatto esclusivamente la necessità di una sola parte, quella che produce cose e ha bisogno di venderle, perfettamente legittimo, sta a noi trovare un modo di essere consapevole e che ci faccia riconoscere i bisogni veri da quelli indotti ciò che ci appesantisce e ci fa restare fermi da ciò che libera le nostre possibilità» (p. 81).
Praticando nel quotidiano questo modo di progettare, anche il macro-spazio della città ne uscirebbe trasformato e assumerebbe la significazione che Paolo Soleri delinea nell’intervista che chiude il volume, ovvero di «massima espressione della civiltà umana», fin tanto però che rispetti e rispecchi «l’armonia e l’equilibrio presenti in natura». Solo in questo modo la città potrà trasformarsi in una pleistocity, una città di memorie vigili e attive dove gli umani possono sviluppare liberamente le proprie capacità senza danneggiare il vivente e gli ecosistemi.
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1) Ivan Illich, La convivialità, Milano, Red!, 2014, p. 15.
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Immagine di copertina:
Bifacciale acheuleano da Cintegabelle, Alta Garonna, Francia – Foto Didier Descouens.