I fatti sono noti. C’è un meme transfobico, che gira fin dal 2014 negli ambienti della maschiosfera e dell’alt-right, e c’è una certa Isabel Fall che prende quel meme, lo lavora, lo scioglie in un testo narrativo: una novella di fantascienza militare, che prende il titolo da quel meme – I Sexually Identify as an Attack Helicopter – ed esce sul magazine Clarkesworld il primo gennaio del 2020.
Isabel Fall è un nome sconosciuto, e il titolo dà nell’occhio. C’è chi legge la novelette come satira e critica delle ideologie transfobiche, chi la legge come espressione letteraria di quella stessa omofobia, c’è chi accusa Fall di transfobia e neonazismo. C’è una shitstorm su Twitter, c’è Isabel Fall attaccata su due fronti. Da ciò il suo coming out come donna trans, la sua richiesta di cancellare quel testo da Clarkesworld, la pressione che mette a rischio la sua incolumità e la sua vita.
Poco dopo Neil Clarke, direttore di Clarkesworld, chiarisce che quella cancellazione è stata chiesta dall’autrice; riferisce che, usando quel meme, Fall intendeva depotenziarlo; che prima della pubblicazione il testo del racconto è stato sottoposto a sensitive readers, che non vi hanno trovato elementi offensivi per le persone trans, e si scusa con chi si è sentitƏ feritƏ leggendolo.
Fall accoglie le critiche provenienti dalle comunità queer e sceglie un nuovo titolo per la novelette, che riappare come The Helicopter Story e nel 2021 è finalista al Premio Hugo. Fall destina tutti i proventi della pubblicazione a Trans Lifeline, associazione no-profit che opera a sostegno delle persone trans.
Nell’aprile del 2022 la casa editrice indipendente Zona 42 pubblica in Italia Il racconto dell’elicottero. È la quattordicesima uscita della collana 42 nodi, nata nel 2020, curata da Chiara Reali e dedicata alla narrativa breve di fantascienza e dintorni. Contestualmente alla pubblicazione, Zona 42 dona a Genderlens, associazione italiana di supporto e informazione di e per genitori con minori LGBTQIA+, una somma analoga a quella devoluta da Isabel Fall a Trans Lifeline.
A tradurre in italiano la novelette è Marzia D’Amico, che ne firma anche la postfazione, mentre la prefazione è a cura di Antonia Caruso: si tratta di due elementi paratestuali fondamentali, che inquadrano oltre al caso editoriale e al contesto critico lo specifico della novella e la plurale ricchezza dei suoi messaggi. E – per restare sul paratesto – la quarta di copertina mostra un passo de Il racconto dell’elicottero, un passo che letteralmente ci interroga:
«Siete consapevoli del vostro corpo? Sentite la spina dorsale quando state in piedi, i fianchi quando camminate, la tensione e la massa del vostro nucleo? Quando vi guardate, che occhi usate? I vostri?» (p. 49).
Tra le voci che hanno parlato del Racconto dell’elicottero dopo la sua apparizione in Italia (tra parentesi, l’edizione italiana è l’unica in formato cartaceo che esista, a tutt’oggi, di The Helicopter Story) vorrei qui ricordare Nicoletta Vallorani, che in un lavoro apparso su “Leggendaria” nel 2023 pone il Racconto dell’elicottero nell’ampio quadro contestuale di quella science fiction che si fa «portavoce di un sociale altrimenti invisibile e dimenticato, raccogliendo eredità significative e scombinando i giochi rassicuranti del canone letterario», evidenziando i rischi corsi da «quei profili socialmente marginali che “entrano in scena senza che li si veda arrivare: non solo le donne […] ma anche i coloured, i poveri, i non normodotati, le persone non binarie. Invadono territori comanches pericolosissimi, e spesso pagano un prezzo molto alto per farlo. 1
Fine aprile 2022. Entro nella lettura del Racconto dell’elicottero attraverso quel paratesto – le parole di Caruso e di D’Amico – passaggio necessario e luogo di incontro dialettico, un luogo come una piazza, come un ponte. La novella è bellissima, rileggo il testo in traduzione e in lingua, la traduzione è bellissima. Il tempo passa. Ogni volta che rileggo il Racconto dell’elicottero mi assale la furia.
La voce narrante appartiene a una persona che, quando era una donna, si chiamava Soo Ji Hee. Poi si è sottoposta a un intervento neurochirurgico e il suo genere è stato riassegnato dall’Esercito: ora il suo nome di battaglia è Barb, «che non è l’abbreviazione di Barbara» (p. 20), e il suo genere è elicottero d’attacco.
È in corso la guerra degli Stati Uniti d’America contro la Commissione Bilancio di Pear Mesa: una cooperativa di credito, un governo gestito da un’intelligenza artificiale, uno dei pochi governi locali sopravvissuti tra quanti sono emersi dopo una catastrofe ambientale e sanitaria negli stati americani della Costa del Golfo. Barb pilota un elicottero Boeing AH-70 Apache Mystic («L’America dà ai suoi elicotteri i nomi delle persone che ha sterminato») e assieme al mitragliere Axis, con cui condivide il grado di ufficiale di volo, il genere e il sistema urinario (sono imbragati e cateterizzati assieme in cabina di pilotaggio), sorvola territori nemici, il deserto del Mojave e la Highway 40. Nel corso del racconto, che si svolge tutto durante il volo, colpiranno un obiettivo strategico – un liceo – e subiranno l’attacco di un aereo nemico.
Barb racconta della guerra. Di come è diventato il suo corpo, di come è diventato il mondo. Dice che le piace uccidere, le piace la violenza ed essere usata. Quando la novella uscì, ci fu chi non credeva che potesse essere opera di una donna: come osserva Antonia Caruso nella prefazione all’edizione di Zona 42, questi elementi apparivano come fantasie maschili e
«quello che era in gioco era l’autorialità di genere di tale Isabel Fall. Probabilmente la narrazione queer ha ancora talmente tanto bisogno di verità a zero layer da non poter accettare che si possa scherzare su alcune cose. Capisco il bisogno perché dopo decenni di narrazioni dominanti fasulle, la verità – una certa verità su di sé – sia una priorità».2
E fin dall’incipit della novella – il medesimo del vecchio meme omofobo – Barb parla del genere. Dice come la scelta, e come la mancata scelta, sono legate al genere: «quando ero una donna ero sempre consapevole di essere sorvegliata. La minaccia degli occhi puntati su di me, la possibilità che superata una qualche soglia di rilevamento diventassi un bersaglio» (p. 23). Sotto attacco, in pericolo («ero continuamente consapevole di quanto ero piccola: consapevole che le persone potevano farmi del male», pp. 31-32), Seo Ji Hee ha consentito a una riassegnazione di genere tattica: ha scelto di essere conforme, di diventare altro da una donna. Davvero poteva scegliere?
Niente di tanto futuristico, purtroppo, nella narrazione de Il racconto dell’elicottero: come annotava Marzia D’Amico nella postfazione alla novelette, già nel 2022,
«temi tristemente non-così-futuristici quali utilitarismo di sesso, genere, identità come assoggettati al potere, uso improprio dell’intelligenza artificiale, cambiamento climatico, militarizzazione dei corpi e delle menti, medicazione al servizio dell’imperialismo, espansione colonizzatrice capitalistica» (p. 81).
E niente di tanto sorprendente nemmeno nella ricezione, nel caso editoriale, nei malintesi di cui sopra; né stupisce che un testo così sottile, così intessuto attorno al genere, all’identità, al dominio, così tramato di controsatira, possa aver vissuto tali avventure.
Leggo Il racconto dell’elicottero e ogni volta, ogni volta mi prende la furia. Niente di strano, certo. E ogni volta vorrei argomentare, staccare dal chiodo alcuni attrezzi dialettici, poi non lo faccio mai. Il fatto è che anche io come Seo Ji Hee, e molto spesso nella mia vita – anch’io ho desiderato di essere qualsiasi cosa tranne che una donna.
Ho imparato, da giovane, che ciò che accade ai testi scritti, quando vengono pubblicati e vanno per il mondo, è altro rispetto ai testi stessi: mi hanno insegnato a stare sulla pagina (serviva a ragionare, a imparare un mestiere?, ad avere pazienza, o a tener duro?), mi hanno insegnato a stare sul testo. Provo sempre ad allontanarmi dal paratesto, dall’extratestuale, da ciò che sta attorno a un testo scritto. Ci provo anche con questo racconto.
Questo racconto ha un meccanismo come di sistole e diastole, una struttura a contrazioni e rilasci. Una bivalve. Barb racconta ciò che accade in volo, le parole con Axis, i comandi e i dettagli del pilotaggio e degli attacchi; racconta della guerra e del mondo, racconta il suo corpo e la sua storia. Poi, parla a noi che leggiamo. Dice voi, ci parla: letteralmente ci interpella. Previene le nostre ipocrisie, le nostre obiezioni, il nostro panico morale:
«Se non siete d’accordo con la guerra, buon per voi: chiedo la vostra empatia, non la vostra simpatia. Risparmiate la pietà per i poveri legislatori che hanno dovuto inventarsi un quadro costituzionale per dichiarare guerra a una cooperativa di credito» (p. 20).
Ci fa domande:
«Ma quanto spesso pensate davvero alla grande strategia del genere? Al pasticcio di storia e sociologia biologia e teoria dei giochi che ha dato origine ai vostri pantaloni e ai vostri capelli e al vostro stipendio? Al casus belli? Spesso, potreste dire. Sempre. Non mi dà tregua. Allora voi, più di chiunque altro, avete contribuito a crearmi» (p. 21).
Ci fa domande, sa dove conducono e conclude. Questa alternanza si ripete lungo tutto il testo. Barb apre, Barb chiude.
Barb argomenta, Barb decostruisce: sente che Axis sta maturando una disforia di genere, cioè – nel caso specifico – che Axis sta iniziando ad avere dubbi sulla missione, sul compito, sul mandato di uccidere. Come donna, Barb decostruirebbe anche questo disagio, questa inquietudine, ma come elicottero d’attacco deve ignorarli. Sistole, diastole. Valve che si aprono e si chiudono.
Cerco di stare sulla pagina, di leggere il testo per quel che è: un tentativo ingenuo, davanti a queste sistole e diastole. Con quali occhi sto leggendo? «Quando vi guardate, che occhi usate? I vostri? Io sono sempre dentro di me», dice Barb, «non mi vedo con gli occhi del mio partner» (p. 49).
Di quei molti anni fa, di quando stavo là seduta (spesso desiderando di essere tutto, tranne che una donna) seduta a studiare i testi, di quel tempo ricordo spesso un libro. O quello che un libro mi portò: la logica dell’inconscio, la logica simmetrica secondo lo psicanalista e psichiatra cileno Ignacio Matte-Blanco.3 La faccio breve, che è tardi.
Due sono le leggi di questa logica simmetrica con cui funziona l’inconscio. Secondo la prima, ogni individuo è elemento di una classe, che a sua volta è sottoclasse di una classe più ampia, e via così in una progressiva generalizzazione. La seconda, invece, stabilisce che ogni relazione è simmetrica: dunque se A è maggiore di B, allora anche B è maggiore di A.
Ne conseguono l’assenza del tempo, poiché se A è prima di B, anche B è prima di A; lo spostamento, perché se A è parte di B, allora anche B è parte di A, e quindi A è uguale a B; l’assenza di una mutua contraddizione e la condensazione: perché A e non-A diventano identici e intercambiabili. Alla fine tutto è uguale a tutto. Non esiste lo zero. Non esiste la negazione né la morte.
Antilogica, tendenza all’infinito. E noi, nelle nostre vite, mentre obbediamo alla struttura cerchiamo l’entropia.
Penso a quel libro, a quella logica simmetrica, non solo quando ne leggo i segni in letteratura – soprattutto nella parte eretica della letteratura, la parte erotica gnostica o mistica – come quel libro mi insegnava. Ma ci penso mentre sto nel mondo, ascoltando la retorica politica, il non-tanto-dissimile discorso del marketing, osservando i fiumi di narrazioni, fallacie, imposture, inferenze – e il fango, e gli argini sfiniti.
Ci penso sempre più spesso, ultimamente. E non so perché, ma sempre quando torno al Racconto dell’elicottero.
Cerco di stare sulla pagina, attenta all’elicottero in volo e a questa voce che mi interroga, che mi conosce, e sento che quelle sistole e diastole mi portano lì. Alla bi-logica. Alle due logiche conflittuali – quella che si trova in superficie, nei luoghi che chiamiamo realtà o ragione, e quella laggiù, che produce un numero infinito di insiemi infiniti.
Poi penso che vorrei capire perché, perché questa scrittura mi porta lì; mi sembra che Barb voglia dirci di fare attenzione, dirci che non è mica tutto uguale, che non siamo né l’Uno, né l’Altro, e non lo siamo mai stati;4 che scelta e genere e potere e dominio è nel reale e nel corpo che li conosci, non nelle bolle di cavitazione del simbolico; che se caschi nel relativismo, alla fin fine, sei idiota; questo sento e vorrei tirar giù dallo scaffale Millepiani, il paradosso di Russell, la mia scatola del cucito strutturalista, attrezzi di prosodia per far le pulci al tappeto sonoro. Argomentare, insomma: affrontare questo sentire come un problema. Argomentare. Ma è tardi.
«Restare a contatto con il problema richiede la capacità di essere veramente nel presente, ma non come un anello di congiunzione tra passati terribili o idilliaci da un lato e futuri salvifici o apocalittici dall’altro: bisogna essere presenti nel mondo in quanto creature mortali interconnesse in una miriade di configurazioni aperte fatte di luoghi, epoche, questioni e significati»
ha scritto Donna Haraway.5
Argomentare. Stare con il problema.
E allora torno a quello che ho imparato poi, all’unica cosa cui alla fine do retta, cui alla fine credo: il corpo. La postura che smaschera l’impostura.
Cerco di vedere i personaggi in situazione – «volare è il loop di macchina e pilota, il senso del movimento dei comandi tradotto in coppia e portanza, la reazione della cellula che modella il movimento successivo fino a quando il ciclo si chiude e macchina e pilota diventano una cosa sola. La consapevolezza sprofonda nel momento» (p. 49). Cerco di vedere la scena.
Di Axis, che Barb definisce l’unico sistema senza spie all’interno dell’elicottero, «il mio coniuge, il mio mitragliere» (p. 24) e «il mio matrimonio, il mio pilastro, il completamento del mio genere» (p. 18), di Axis vedo ben poco. È nascosto nel muso dell’elicottero, e di lui Barb vede solo il casco e le spalle della tuta. Così ci dice Barb, precisamente: solo questo vede, mentre volano.
Quindi, nemmeno io lo vedo tanto bene.
Invece, vedo benissimo Barb.
Barb in prospettiva frontale, e come se il muso dell’elicottero fosse trasparente. È un effetto della scrittura di Isabel Fall, della qualità della voce narrante, di come il testo suona in italiano, del mio modo di leggere ascoltando?
Vedo Barb in prospettiva frontale, in posizione di volo, in un’inquadratura specifica. Non in primo piano, non in campo lungo. Vedo Barb in Piano Americano.
Il Piano Americano, sappiamo tutti cos’è. Ma io qui voglio dirlo in modo preciso, con le parole di Antonio Paolacci, che ha intitolato Piano Americano un libro che è insieme romanzo, non-romanzo, saggio sul cinema e studio sull’editoria (e che parla, anche, dell’essere guerrieri):
«Si dice Piano Americano (PA) l’inquadratura che taglia l’attore dal ginocchio in su. Di solito viene utilizzata per incorniciare due o più persone o per dare all’attore maggior libertà espressiva e d’azione. È detto “americano” perché lo si ritiene nato nel cinema western, per mostrare le fondine appese al cinturone del cowboy, ma in realtà veniva utilizzato anche agli albori del cinema. Come ogni taglio di ripresa, il PA ha funzioni specifiche nella grammatica filmica […] Lo si può considerare una via di mezzo tra Primo piano e Campo lungo. Ci permette di dare importanza al personaggio senza toglierlo al contesto. Il messaggio arriva direttamente alla coscienza, senza bisogno di essere decifrato: l’inquadratura pone la persona sullo stesso livello di importanza dello spazio in cui si muove» (p. 62).
Potete dirmi che è impossibile che io veda ciò che vedo: che il muso dell’Apache non è trasparente, che Barb non è certo in piedi in cabina, che avrà le ginocchia piegate, altro che fondine del cinturone da cowboy!, che se vedo bene Barb dovrei vedere bene anche Axis. Dite ciò che volete, ma io non vedo né un viso da vicino (primo piano, priorità all’emozione), né un elicottero da lontano (campo lungo, priorità della scena).
Vedo, cioè sento, una persona – un individuo – che a fine racconto dice:
«Forse quello che Axis sente è l’urgenza di una nuova queerness. Una queerness che si riprenda lo strumento del genere dalle mani dello stato e dell’economia e della guerra. È un’idea che mi piace. Non posso pensarmi come un fallimento, come una cosa sbagliata, una perversione di una libertà che le generazioni passate hanno combattuto per ottenere.
Ma Axis può. E forse anche voi» (p. 66).
E subito dopo: «Ho cercato di mostrarvi quello che sono. Ho cercato di farlo senza giudizio. Lo lascio a voi» (p. 66).
E qui, lasciando a noi il giudizio, è l’ultima volta che Barb dice voi, che si rivolge a noi, perché dopo poche righe il racconto termina.
E allora sento che non ho poi tanta voglia di argomentare, che leggo e rileggo a sistole e diastole; e che non siamo né l’Uno, né l’Altro, né lo siamo mai stati, e che quella queerness è un’idea che mi piace.
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1) Nicoletta Vallorani, Territori comanche. La fantascienza e il sociale, in Leggendaria 159. Dal margine, Fantascienza e nuovi immaginari, aprile-maggio 2023, pp. 8-9.
2) Isabel Fall, Il racconto dell’elicottero, cit., pp. VIII-IX.
3) Ignacio Matte Blanco, The Unconscious as Infinite Sets. An Essay in Bi-Logic, London, Karmac, 1975 (trad. it. L’inconscio come insiemi infiniti: saggio sulla bi-logica, a cura di Pietro Bria, Torino, Einaudi, 1981), libro cui arrivai attraverso Walter Siti, L’inconscio, in Letteratura italiana. Volume quinto: Le questioni, Torino, Einaudi, 1986, pp. 717-764.
4) «Né l’Uno, né l’Altro, ecco chi siamo tutti noi, e chi siamo sempre stati. Dobbiamo diventare tutti ontologicamente più creativi e sensati all’interno di quel borioso olobioma che è la Terra, che la si chiami Gaia o con Mille Altri Nomi»: questa frase di Donna Haraway (in Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, trad. it di Claudia Durastanti e Clara Ciccioni, Roma, Nero, 2019, p. 141), questa frase che ho trascritto ormai ovunque, su agende foglietti biglietti minute, mi ricorda che il punto è stare non sul problema ma con il problema; infatti, il titolo originale dell’opera di Haraway è Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene (Durham, Duke University Press, 2016).
5) Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, trad. it di Claudia Durastanti e Clara Ciccioni, Roma, Nero, 2019, p. 13.
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Immagine di copertina:
Yishay Garbasz, Becoming, Busan Biennale 2010.