[Esce per Mimesis edizioni uno dei testi più influenti dell’epoca contemporanea, L’ultimo Messia di Peter Wessel Zapffe, pubblicato per la prima volta nel 1933. In questo breve saggio, non privo di accenti poetici e narrativi, il filosofo norvegese prende in esame la genesi della coscienza umana, mostrando come l’evoluzione storica e culturale della specie si sia concentrata sul suo arginamento. Da tale indagine emerge una malinconica proposta di estinzione universale: un primo passo verso la genesi del pessimismo contemporaneo].

Nel corso degli ultimi tre anni la mia vita ha subito vari cambiamenti, dal trasloco con la mia compagna in un’area meno urbanizzata di Roma, all’adozione di un cane piuttosto vivace, fino alla nascita di un figlio. Nel corso del primo anno, avendo perso gran parte delle connessioni con le mie cerchie di familiari e amici, ho cominciato a trascurare il tempo libero e mi sono ritrovato sempre più a dedicarmi al lavoro, alla scrittura e alla casa; tutti aspetti della vita che, allora, mi davano ancora un certo grado di soddisfazione. Qualche tempo dopo, però, ho iniziato a perdere d’occhio anche il riposo e, poco a poco, il corpo e la salute.

Non so ben dire cosa sia accaduto di preciso, fatto sta che la mia coscienza sembra non aver “retto” alla serie di rapidi mutamenti. Venivo (e sono ancora oggi) assalito da ondate inarginabili e incontrollabili di emozioni “negative” – in particolare paura, ansia e rabbia. Perdere il controllo del proprio corpo è di certo qualcosa di spiacevole, ma sentire che la tua stessa mente si sta spezzando e dividendo è una sensazione che non avrei mai pensato di poter provare, e che potrei descrivere solo in termini di sdoppiamento di personalità. Qualcosa che avevo visto solo nei film e nei fumetti.

In psichiatria, si è arrivati a stabilire che le differenze genetiche tra individui arrivano a lambire la sfera emozionale: c’è chi vive le emozioni in modo misurato, forte anche di una buona educazione emotiva ricevuta da bambino; chi si sente più a suo agio nel controllare e reprimere le emozioni, sulla scorta di una costellazione familiare dalla scorza dura; infine, c’è chi vive le emozioni come se fossero amplificate dal sistema nervoso, fino al cortocircuito totale. Purtroppo e per fortuna (la non-dicotomia è d’obbligo, in questo caso), ho scoperto di appartenere a quest’ultimo gruppo.

Questa carenza si è andata a combinare con lo stress e il cambio di abitudini. Non frequentare più i luoghi e le persone di prima e, soprattutto, non dedicarmi più agli svaghi con la stessa libertà, ha indebolito una capacità della quale, con ogni probabilità, ero già carente fin da prima: quella di auto-costruire un modello simulativo dei comportamenti, dei pensieri e delle emozioni miei e altrui, un meccanismo denominato “mentalizzazione”. In breve, avevo disimparato a interpretare le azioni degli altri come atti compiuti da agenti autonomi, dotati di interiorità, sentimenti e scopi. Una regressione all’egocentrismo infantile che, ben presto, ha fatto strada a pensieri e atteggiamenti paranoici.

La mia vita era sull’orlo della distruzione. Quel che è peggio, però, è che io stesso lo ero. Più perdevo me stesso, più la situazione si faceva incontrollabile e viceversa.

È in questa cornice esistenziale – o, meglio, in periodo di apparente e relativa bonaccia – che ho ricevuto la prima traduzione italiana del filosofo norvegese Peter Wessel Zapffe: L’ultimo Messia, un piccolo testo già apparso nel 2023 sulla rivista web L’indiscreto (sempre nella traduzione di Michele Corioni). Si tratta di una breve ma profonda esplorazione di cosa significhi davvero essere umani, della differenza tra l’essere umano e gli altri animali e delle tecniche psicologiche che impieghiamo, a livello subconscio, per dimenticarci di essere vulnerabili, fragili, mortali.

Zapffe, L'ultimo messia

Lo scritto si apre e si chiude all’insegna della fiaba, del mito o, ancor meglio, della parabola: un uomo e una donna preistorici aprono gli occhi e si vedono per la prima volta; la loro mente e il loro corpo non sono più integrati l’una nell’altro ma si sdoppiano e si ricongiungono di continuo. È il risveglio della coscienza, la perdita dell’immediatezza. Come fa ogni giorno, il primo uomo esce per cacciare ma c’è qualcosa di diverso in lui: ha perso “il balzo della tigre”, la furia omicida che gli consentiva di togliere la vita al prossimo senza batter ciglio. Nell’animo del primo uomo si è estinta ogni minima differenza tra la sua vita e quella degli altri animali; ora, egli riconosce in tutti quanti, nessuno escluso, una comune condizione di sofferenza. Così, il primo uomo si lascia morire di fame. La mutazione casuale che ha permesso ciò, tuttavia, si propaga di nuovo in nato in nuovo nato, costringendo l’intera specie a istituire una serie di “barriere” psichiche e culturali per consentire la normale prosecuzione della vita. Tra queste, potremmo dire, la più ovvia e nota è la sepoltura dei morti, la quale si accompagna (per affinità tanto materiale quanto simbolica) all’occultamento degli escrementi.

Millenni dopo, la specie umana è cresciuta e si è moltiplicata, dando vita alla civiltà, alla storia e alla tecnologia. Homo sapiens è riuscito ad arginare le epidemie di follia e i meccanismi protettivi si sono tramutati in qualcosa di profondamente radicato nell’animo umano; solo pochi casi individuali, di quando in quando, sfuggono alle maglie del controllo capillare. È a questo punto, alla fine della storia, che giunge l’ultimo Messia, il quale annuncia che il vero destino della specie è rinunciare a proseguire il viaggio e arrendersi una volta per tutte. Il suo messaggio è un Vangelo dell’estinzione, un percorso di auto-annientamento che conduce verso la serenità e la pace della non-esistenza. Per questo, l’ultimo Messia pagherà con la vita: non c’è posto, al mondo, per chi dice la verità. La nostra stessa esistenza non è che una somma di illusioni.

È la quinta volta, dal 2012, che leggo questo testo (pubblicato in inglese nel 2004 in Philosophy Now #45); ciò significa che ho cominciato a interessarmi al pensiero di Zapffe quando ero ancora poco più che un adolescente. L’eco del suo pensiero mi accompagna da allora, e non sono mai davvero riuscito a lasciarmi alle spalle le implicazioni etiche e metafisiche di questo testo in particolare. L’aspetto più brillante dell’Ultimo Messia è il modo in cui Zapffe sancisce la componente destinale dell’autocoscienza umana: pur trattandosi di un organo spirituale ipertrofico e, per certi versi, grottesco, essa è ciò che più ci caratterizza in quanto specie.

Nel testo, Zapffe confronta questo stato di cose con la storia di un’antica specie di cervo, il Megaloceros giganteus, dotato di un palco di corna così grande da aver condotto l’intera specie all’estinzione. Ad accomunare Homo sapiens e megalocero è l’esacerbazione di una singola facoltà a discapito delle altre; ciò che li distingue, invece, è la capacità di abbracciare tale natura fino in fondo. L’essere umano è meno autentico, più castrato, più represso, più incapace di accettare se stesso di un animale estintosi, ormai, più di quattrocentomila anni fa. È questa la nostra condanna: essere gli unici davvero in grado di guardare in faccia l’orrore, eppure, non volerlo farlo.

Zapffe, che nichilista non è, pone più volte l’accento sulla “miracolosità” di tale dotazione, sottolineando (come Schopenhauer prima di lui) come essa sia frutto del caso che domina la natura. Si tratta di un punto cruciale dell’opera del filosofo norvegese, nel quale si fa strada un primo, timido elemento spirituale: un eccezionalismo umano depotenziato del suo lato antropocentrico e finalista. È pur sempre grazie a tale facoltà ipertrofica, di fatto, che siamo al contempo divenuti in grado di porre sotto controllo la nostra coscienza.

A tale constatazione fa seguito un elenco dettagliato delle quattro principali barriere mentali che, fin dall’antichità profonda, la nostra specie ha adottato per tutelarsi da se stessa. Per certi versi, si tratta della parte più noiosa del testo, ma ci torneremo a breve.

È questa cavalcata al cuore dell’assurdo e del fatale che ha plasmato il mio modo di intendere lo spirito umano e il destino ultimo della specie, ed è per questo che sono grato a Zapffe. Non sarebbe esagerato dire che si tratta della più grande innovazione nel campo del pessimismo filosofico dai tempi di Arthur Schopenhauer.

C’è qualcosa, però, che è cambiato, e me ne rendo conto solo ora. In passato, ho posto maggior attenzione alla questione antinatalista, ai suoi legami con il pessimismo antico e moderno, alle sue conseguenze logiche e ai suoi bias, alle controversie che la accompagnano e via dicendo. Vedevo l’estinzione umana come qualcosa non di desiderabile ma di affascinante, persino necessario. Non sono mai stato antinatalista ma, sempre grazie a Zapffe (e a Thomas Ligotti), non ho mai smesso di indagare il “lato oscuro” del venire al mondo; lo vedo in mio figlio, che è ancora molto piccolo, ma che, fin dai primi giorni, ce la mette tutta per far fronte alle difficoltà della vita. Questa parte di me è intatta. Ciò che è mutato è la considerazione nei confronti della lista delle quattro barriere mentali: se prima la trovavo un’interessante ricapitolazione di Pascal, Schopenhauer, Leopardi, Seneca e via dicendo, ora la trovo fondamentale.

L’isolamento è la prima barriera, la più basilare, consistente in un rifiuto generalizzato dei pensieri negativi o sconfortanti. Fin da piccoli, ci insegnano a non mettere in imbarazzo gli altri parlando del sesso e della morte. Un’educazione radicale che ci porta, da adulti, a evitare di pensare che, un giorno, tanto i nostri cari quanto noi moriremo. Lo stesso accade per la nutrizione: uccidiamo per continuare a vivere, ed è solo processando il cibo, confezionandolo e servendolo in maniera appropriata che riusciamo a sopportare la cosa. È per questo che il cannibalismo e i film di zombie ci riempiono di disgusto.

L’attaccamento (o ancoraggio) è uno dei principali effetti che deriva dall’isolamento. Allontanando la negatività, entriamo di diritto a far parte di una famiglia, di una comunità, di una cultura, della specie umana. È il segno che non siamo stati allontanati, che facciamo ancora parte di qualcosa. Siamo al sicuro, sia dal punto di vista fisico sia da quello psichico.

La diversione (o distrazione, per dirla con Pascal e Leopardi) è ciò che ci aiuta a far fronte alla più ambigua delle passioni, la noia. Annoiarsi significa dondolare in punta di piedi sul baratro dell’angoscia, poiché la noia è ciò che segnala la nostra assenza di destinazione. Non appena restiamo senza nulla da fare, i pensieri negativi si fanno strada attraverso di noi, insinuandosi nel nucleo dell’Io; lo vediamo già da bambini, in tutti quei casi nei quali l’irrequietezza si trasforma in distruzione o autodistruzione.

Essere isolati significa essere ancorati, così da potersi garantire sempre nuove distrazioni: una partita a tennis, un aperitivo, un’uscita tra amici, un bel carico di lavoro da portarsi a casa dall’ufficio. Non c’è alcuna possibilità di scampo per il pessimista, il folle e il profeta di sventura: tali figure sono accettate solo in veste di giullari o personaggi da compatire e, perciò, sono destinate all’esilio, alla condanna a morte o al suicidio. L’esistenza stessa dei dispositivi psichiatrici di contenimento testimonia di ciò.

La quarta e ultima barriera è la più complessa e raffinata, e solo i più esigenti membri della specie ne possono trarre godimento. Si tratta del meccanismo nietzscheano-freudiano della sublimazione. Si sublima ciò che non si può metabolizzare, ciò che è troppo difficile da digerire in forma solida. La morte, la sfortuna e l’ingiustizia divengono, così, le fondamenta della tragedia. La tristezza dell’arte malinconica. La furia cieca e idiotica della natura del paesaggio sublime. La ferocia e la spietatezza del true crime. Si vanno a incastonare nella sublimazione tutte quelle tensioni estetiche che, di per sé, non rientrano nel novero del “gusto naturale”. Qui Zapffe supera sé stesso, costruendo un argomento potente e incisivo contro l’ala più affermativa del pessimismo, il cosiddetto “tragicismo” – riconducibile tanto al Nietzsche della Nascita della tragedia, quanto al Camus del Mito di Sisifo. L’interrogativo che il norvegese oppone ai filosofi raffinati è, in parole povere: perché? Perché arrivare al culmine del masochismo, pur di nascondere la nostra vera natura e quella del cosmo tutto?

Caduta una delle quattro barriere, le altre tre la seguono dipresso, una dopo l’altra. Ansia, attacchi di panico, depressione si impadroniscono del soggetto nudo e indifeso dinanzi al mondo reale, se non si interviene abbastanza in tempo da porre freno al collasso.

Oggi, ora, in questo preciso momento, mi rendo conto che è tutto vero, che assistere alla caduta delle quattro barriere è come presenziare all’ultimo giorno della Roma imperiale. La fine di un Io si approssima molto a quella di una civiltà, perché, in entrambi i casi, sono le fondamenta stesse che legittimavano tale costruzione a essere messe in dubbio. Mentre mi dissolvevo, vedevo sempre più chiaramente che non ero altro che la somma di quelle barriere, una storia frammentata, piena di incongruenze e buchi narrativi. Non c’era null’altro dentro. Un vuoto pneumatico.

Ho infine compreso che nessuno al mondo vorrebbe mai e poi mai, in nessun caso in assoluto, rimuovere quelle barriere. Sapendo a cosa va incontro, ciascuno di noi sarebbe disposto a rafforzare ogni singolo giorno, con dedizione che rasenta il fanatismo religioso, i meccanismi di protezione che lo difendono dalla disperazione. Saremmo i primi tra la folla a inneggiare alla morte dell’ultimo Messia.

In verità, dopo tutti questi anni, sono doppiamente grato a Zapffe: per avermi insegnato a diffidare della vita e a disprezzarla; ma anche per avermi mostrato come è facile caderne preda e quanto sia difficile tornare indietro.

 


Claudio Kulesko

Claudio Kulesko è filosofo, traduttore e scrittore. Per Nero ha tradotto Tra le ceneri di questo pianeta (2019) e Rassegnazione infinita (2022), di Eugene Thacker. Tra le sue opere vi sono L’Abisso personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell’orrore astratto (Nero, 2022), Ecopessimismo. Sentieri nell’Antropocene Futuro (Piano B, 2023) e la novella Al limite del Possibile (Zona 42, 2024). Ha fatto parte del Gruppo di Nun, con il quale ha scritto la raccolta di saggi Demonologia rivoluzionaria (Nero, 2020). Con Gioele Cima ha curato la raccolta di saggi Metal Theory. Esegesi del vero metallo (D Editore, 2024). Suoi saggi e racconti sono apparsi in numerose riviste e antologie. Con Moscabianca Edizioni ha pubblicato anche il saggio Il più forte del mondo. La filosofia di Dragon Ball (2024) e La palude (2024).