Il caos, con la sua imprevedibilità, ha sempre turbato l’essere umano.
Da sempre lottiamo per contrastarlo e arginarlo grazie ad apparati conoscitivi e tecnologici in grado di restituirci quel senso di prevedibilità e controllo che ci tranquillizza.
C’è chi da milioni di anni, da 500 milioni di anni, in maniera silenziosa ma sistemica si adatta a questo caos mentre cambia il contesto con flessibilità e capacità quasi sovrannaturali se considerate dal punto di vista umano, ovvero le piante.
Le piante, invece, sono capaci di pensarsi sistema. Sono fin dall’inizio insieme. Collettività. Colonia. Nessuna pianta può dirsi definitivamente individuo (in-dividuus).
Noi esseri umani non siamo abituati a pensarci sistema, non sappiamo pensare oltre alla nostra individualità, cerchiamo sempre una realtà lineare, una spiegazione deterministica più comoda possibile in una stretta logica di causa – effetto. Cerchiamo di darci spiegazioni e di costruire realtà governabili.

La vera sfida della complessità, come sostiene il filosofo e sociologo francese Edgar Morin ne La sfida della complessità, ci chiede di andare oltre la nostra educazione ipersemplificata che scarta tutto ciò che non rientra nello schema della riduzione e della decontestualizzazione.
Nella realtà nessuna tipologia di organismo può sopravvivere davvero isolata dal resto, inclusi noi essere umani, senza eccezioni. Niente può essere effettivamente trattato in modo isolato: flussi, relazioni, informazioni, dati in cui ci troviamo immersi quotidianamente. Essere consapevoli delle interconnessioni di un sistema può essere determinante per saperci stare dentro e per farlo evolvere. Vivere in una realtà interconnessa a questo punto necessita forzatamente di nuovi schemi cognitivi e paradigmi, quindi anche di nuovi modi di guardarla.
Le piante, a mio parere, ci offrono un modello cognitivo alternativo, un’intelligenza a disposizione per la nostra consultazione nell’ambito della gestione di scenari complessi.
Il confronto con un sistema vivente che prevede come naturale ciò che a noi appare come soprannaturale, ovvero la gestione della complessità, senza semplificarla o tendere alla lettura lineare, credo possa esserci di fondamentale utilità.
La capacità di apprendere in questo caso diventa forse quella di disimparare, un’occasione preziosa, ispirarci al più grande sistema vivente per imparare l’approccio sistemico ai problemi e alla complessità.

Le piante rappresentano un modello di adattabilità capace di captare in maniera particolarmente sensibile l’ambiente, il proprio contesto e di rispondere retroagendo ai suoi cambiamenti.
Il verbo adattare d’altronde deriva dal latino aptus che significa connesso, collegato, unito.
L’adattabilità è quindi una strategia di connessione con il contesto che abitiamo in cui ci troviamo ad agire. Rimanere sempre in connessione, consapevoli di un legame, di un’associazione con l’ambiente per poter agire in maniera diversa e sostenibile nel tempo.
Le piante sono in grado di fare sistema fra loro, nel tempo si sono strutturate come un’organizzazione multicentrica, in cui le funzioni chiave non sono concentrate in punti specializzati, ma distribuite. Gli esseri vegetali fanno della modularità la chiave di volta della loro organizzazione.
Sono inoltre a mio parere assimilabili a un sistema aperto e dialogante, una sorta di learning organization che dialoga continuamente con l’esterno.
Riescono infatti ad analizzare un’enorme quantità di dati e di informazioni riguardo a luce, pressione, gravità, umidità e temperatura, oltre naturalmente a rilevare continuamente elementi chimici utili o dannosi alla presenza di altri esseri viventi. Così imparano evolvendo, cambiando forma (morfogenesi) e strategia.
Esistono quindi diversi “schemi cognitivi” deducibili utilizzati dalle piante come punti di forza evolutivi come ad esempio: interdipendenza, sensibilità al contesto, capacità di adattarsi al contesto e farlo evolvere, intelligenza collettiva, capillarità comunicativa, cooperazione.

Educare a vivere nella complessità non può prescindere dalla conoscenza del contesto in cui ci si muove e le piante lo sanno bene.
Dalla mia ricerca speculativa sul sistema vegetale, approdata nella pubblicazione Pensa come una pianta, ho imparato che spostare l’attenzione su un’altra vita, quasi aliena a noi, può realmente sviluppare modi non convenzionali di vedere, sentire le cose, l’ambiente, mettere in evidenza la relatività delle cose e delle relazioni così come le abbiamo pensate finora.
Oggi, come ci ricorda sempre Edgar Morin, il nostro bisogno storico è quello di trovare un metodo che riveli e non nasconda i legami, le articolazioni, le solidarietà, le implicazioni, le connessioni, le interdipendenze, la complessità. Io credo fermamente di aver trovato questo metodo nel sistema vegetale.
La capacità di comprendere il nesso fra il nostro presente e il futuro possibile misura l’impatto che avranno le nostre decisioni e azioni sulla nostra vita stessa. La filosofa della scienza statunitense Donna Haraway in Staying with the Trouble ci invita proprio a restare a contatto con il “problema” e quindi di poter individuare nel tempo presente tracce di futuro o di possibili soluzioni, sviluppando alcune caratteristiche specifiche.
Il futuro lascia sempre indizi nel presente. Chi sa leggere quei dati, quegli indizi sa pre-vedere il futuro. Come scrive ancora Haraway, la chiave per gestire le sfide complesse del nostro futuro è saper restare a contatto con il problema. Saper leggere le sottili interconnessioni. Le piante lo fanno risolvendo i problemi rimanendo nel problema. Fisse senza potersi spostare. Ogni estremità della radice, ogni apice radicale, lavora insieme alle altre come se fossero collegate in una rete, un’intelligenza collettiva che sonda il presente per anticipare il futuro. Haraway apre nuovi varchi di concezione rispetto alla parola “problema” e quindi anche al modo di rapportarci a esso.

«Problema è una parola interessante. Una delle sue varianti inglesi – trouble – rivela dei legami particolari: deriva da troubler, un verbo francese del tredicesimo secolo che significa “rimescolare”, “rendere opaco”, “disturbare”. Ci ritroviamo a vivere sulla Terra in tempi confusi, torbidi e inquieti. […] A dire il vero, restare a contatto con il problema richiede la capacità di essere veramente nel presente, ma non come un evanescente anello di congiunzione tra passati terribili o idilliaci da un lato e futuri salvifici o apocalittici dall’altro: bisogna essere presenti nel mondo in quanto creature mortali interconnesse in una miriade di configurazioni aperte fatte di luoghi, epoche, questioni e significati» (Donna Haraway, Chtulucene, p. 13)

Haraway ci offre così una concreta possibilità di vivere il problema, anzi di «restare a contatto» con il problema. Non a causa di un senso di smarrimento o di incapacità di gestire la situazione. Quanto piuttosto con l’intenzione prestabilita di capire, esplorare, conoscere quel problema che tanto ci fa paura, ci blocca, ci limita. Immaginiamo di poter mutuare da altri sistemi intelligenti alcune caratteristiche che consentono di poter anticipare (almeno in buona parte) il futuro, e di leggere gli scenari complessi con maggiore abilità. Quali sarebbero? E cosa ci consentirebbero di fare?
Entrare in questo nuovo modo di pensare rappresenta una vera e propria sfida concettuale alle scienze biologiche così come ci sono giunte fino ad oggi. Scopriamo così di essere interconnessi, di essere dei biomi facenti parte di un olobionte più grande, numerosi ecosistemi raccolti ed integrati.
Nulla si crea da solo, niente è davvero auto-poietico, tutti gli organismi si assimilano a vicenda, e quindi a questo punto dove si colloca l’essere umano, che fine fa il nostro antropocentrismo?
Interrogarsi sulla posizione dell’essere umano contemporaneo nell’ambiente, rifiutando la separazione semplicistica dalla natura, rappresenta la nuova frontiera dell’ecologia che non può prescindere dallo studio attento delle interrelazioni fra tutti i protagonisti degli ecosistemi.


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foto di Chris Abney su Unsplash

 
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