[È uscito per i tipi di Orthotes il saggio di Pietro Barbetta dal titolo Una tomba per Antigone. Clinica del delirio borderline (2024). Pubblichiamo una intervista con l’autore di Gioele Cima].

«La tenerezza può essere astratta quanto la follia», scriveva David Lynch sulla copertina della colonna sonora di Una storia vera (1999). È un’espressione che mi è tornata in mente in questi giorni, leggendo un libro che, effettivamente, fa di questo difficile connubio la sua cifra. Il libro si intitola Una tomba per Antigone. Clinica del delirio borderline e reca la firma di Pietro Barbetta, una voce importante nel panorama della salute mentale italiana, di quelle che quando scrivono non lo fanno per convincere o “convertire” l’interlocutore, ma per ispirarlo. E forse, a mancarci più di ogni altra cosa in tema di salute mentale, oggi, è proprio una certa dose di ispirazione. Ve lo dico subito però, il libro è impegnativo, perché impegnative sono le questioni che pone: il destino della condizione borderline e del femminile nella contemporaneità, il fragile spazio tra la legge che nutre e la sottomissione che affama, ma anche quello tra la diagnosi che accoglie e quella che incatena, tra una clinica delle domande e, per parafrasare il caro Fachinelli, una clinica delle risposte. È un saggio che, come si sarà capito, si muove lungo i bordi, e – ve lo garantisco – lo fa senza attenuanti di sorta. Non per nulla, la protagonista di questa avventura, il nome a cui ciclicamente Barbetta fa ritorno come fanno i poeti con le loro muse, è quello di Antigone: figura di grazia, certo, ma di una grazia che, alla luce della nostra tradizione, non desta soavità, bensì turbamento. Di questo e altre faccende, ne ho parlato un po’ con l’autore, che ringrazio.

Pietro Barbetta, Una tomba per Antigone

Gioele Cima: Una tomba per Antigone è un libro di un centinaio di pagine, ma estremamente ricco. Dialoghi con tanti autori di diverse discipline e citi esempi provenienti da fonti non immediatamente imparentate alla clinica. Era da molto che ci lavoravi? O si è trattato piuttosto di un cosiddetto “momento eureka”?

Pietro Barbetta: Di Antigone mi occupo da più di vent’anni, la rilettura di George Steiner mi ha molto stimolato nel tempo, l’idea che Antigone esca dal palcoscenico della tragedia di Sofocle per entrare nelle case delle giovani donne lobotomizzate negli Stati Uniti, clitoritomizzate nel Regno Unito in epoca vittoriana e ora in alcune aree del mondo con pretesti religiosi. Donne che condividono con Antigone la tomba, la discesa nell’Ade, prigioniere come Persefone. Insomma, il ratto delle giovani donne che la “civilizzazione” patriarcale indoeuropea ci ha imposto e che passa sotto il velo della normalità.

GC: Antigone, fai notare, è una figura – se non la figura – dell’invischiamento, della famiglia polimorfa: è sorella e figlia di Edipo, zia e sorella di Polinice, e così via. Eppure, ricordi anche che è saggia, che la sua condizione le conferisce una conoscenza delle leggi degli antenati che altrimenti non potrebbe possedere. Credi che questa doppiezza (invischiamento e saggezza) appartenga anche alla condizione borderline?

PB: Invischiamento è un termine che introdusse Salvador Minuchin in psicoterapia familiare. Minuchin dirigeva un centro che si chiamava Child Guidance, a Philadelphia, che ebbi la fortuna di visitare nel 1993. Le famiglie invischiate di Minuchin erano anche definite “multiproblematiche”. Vivere negli slums, in una baracca, o in uno spazio ristretto, privo di confini, con il gabinetto esterno, i ratti in circolazione e la promiscuità sessuale è un’esperienza umana essenziale. Ricordo lo sguardo di queste madri; è lo stesso che ho ritrovato, tempo dopo, nel lavoro etnoclinico con le donne dell’Africa subsahariana: soprattutto nomadi nigeriane, come Ade, che appare nel libro in questione e compone l’intero capitolo conclusivo del mio libro precedente, Linguaggi senza senso.
Spesso queste donne, se sono madri – se i funzionari delle istituzioni non tolgono loro i figli – vengono con i bambini, se li portano dietro. Lo sguardo non è quello della sofferenza psicologica o psichiatrica classica, è uno sguardo di rabbia e orgoglio. Orgoglio per essere riuscite a farcela ad attraversare il mare, nel caso delle donne africane, e a sopportare la violenza patriarcale dei padri, dei mariti e delle istituzioni giuridiche e sanitarie. È uno sguardo saggio, che ricorda la letteratura femminile post-coloniale: Toni Morrison, Buche Emecheta, per esempio, autrice di Cittadina di seconda classe. Emecheta racconta la storia di una donna picchiata, abusata e abbandonata dal marito, costretta a lavare i piatti per mantenere i figli, poi diventata professoressa alla School of African and Oriental Studies di Londra. Forse la saggezza borderline femminina nasce proprio dall’invischiamento, dalla ripetizione di una storia che si ripete dal neolitico: la lingua schiava è lingua saggia, ma non viene ascoltata, non si capisce, come in Cassandra.

GC: Nel nostro immaginario culturale tendiamo, quasi in automatico e quasi da sempre, a sessualizzare alcune diagnosi. Ad associare, per esempio, l’isteria e il disturbo borderline alla donna, il narcisismo e il disturbo antisociale all’uomo. È davvero così? O si tratta, per accontentarci di un eufemismo, di un errore di prospettiva?

PB: La diagnosi, come ogni altro tipo di categorizzazione, guasta il nostro modo di pensare, se non si distingue il piano ontologico dal piano epistemologico. Isteria, borderline, schizofrenia, ecc. sono distinzioni introdotte da un osservatore esperto nelle pratiche discorsive. Sul piano ontologico c’è l’incontro, l’esistenza concreta e singolare. I saperi categoriali, le distinzioni che introduciamo nel discorso clinico, e l’ascolto della voce, dell’urlo, del canto, del rumore sono tra loro eterogenei. I primi corrispondono a questioni funzionali e strutturali, l’ascolto ha una dimensione estetica, poetica. Il clinico è costretto a lavorare in questa doppia contingenza: la distinzione epistemica e la condizione ontica, l’aspetto estensivo, che risponde alla logica assiomatica, e quello intensivo, che riguarda la “nuda vita”.
Poi c’è il problema dell’attribuzione: ai maschi i narcisismi e le sociopatie, alle femmine gli istrionismi e i tratti borderline. Quanto tutto ciò dipende dalle nostre abitudini a categorizzare anche fuori dall’ambito psichiatrico o psicologico? Ognuno di noi è abitato da una quantità di pregiudizi, molti di questi pregiudizi sono condivisi ed è impossibile non averne. L’urlo emanato da una voce femminile ci fa pensare all’isterica, da una voce mascolina ci spaventa e assume il senso di aggressione. Il primo prelude al pianto disperato, il secondo all’aggressione. Lo sappiamo già, abbiamo questo pre-giudizio. La diagnostica psichiatrica si fonda in gran parte su pregiudizi e il pregiudizio più radicato è l’idea che esista una struttura stabile del soggetto, che non sia possibile pensare a una identificazione performativa, direbbe Judith Butler.

GC: La condizione borderline è forse una delle più controverse che la storia della salute mentale abbia mai conosciuto. Alcuni la ripudiano a priori, altri la accolgono ma senza riuscire ad accordarsi su una definizione univoca. I manuali diagnostici la disperdono in cluster di sintomi confusi. Un tempo, quando si voleva conservare un disturbo che non si riusciva a circoscrivere con precisione, si ricorreva al termine ombrello di “sindrome”. La condizione borderline è forse una sindrome, oppure ci sta sfuggendo qualcosa?

PB: Ci sfugge il contesto storico-sociale in cui si manifesta questo delirio. Quando dico delirio, lo intendo letteralmente come dissenso radicale dal modo di pensare dominante, non come patologia psichiatrica. Il contesto nel quale la condizione borderline si diffonde è il confinamento. Viviamo in un periodo di confinamento, deportazioni, marginalità. L’immagine che mi viene in mente sono quelle piccole tende che stanno sotto le mura del cimitero di Saint-Germain a Parigi, oppure i carrelli della spesa pieni di cartoni e coperte che spingono le donne homeless al bordo di Central Park. Viene in mente il titolo di un libro che studiavamo ai bei tempi, The Homeless Mind, di Peter e Brigitte Berger e di Hansfried Kellner.

GC: Noto che preferisci il termine “disordini” mentali a quello più convenzionale di “disturbi”. C’è un motivo preciso?

PB: Intanto è la corretta traduzione del termine inglese. Già il DSM è un disastro diagnostico, se poi lo traduci male, diventa anche peggiore! Mi pare che disordine abbia una valenza sociale che disturbo non possiede. Mi viene in mente un metalogo di Gregory Bateson con la figlia: “perché le cose finiscono in disordine”. Si indica un rapporto, quello con l’ordine. Inutile ricordare il titolo di un lavoro di Felix Guattari, Caosmosi, che riprende il termine caosmos: Carroll, Joyce. Insomma, uno slittamento dalla psichiatria ufficiale verso la letteratura. Il clinico non può restare prigioniero delle proprie premesse scientifiche.

GC: Eppure, paradossalmente, a essere affamati di ordine, oggi, sono proprio i non addetti ai lavori. La nostra società sembra aver sviluppato una pericolosa fascinazione per l’etichettamento terapeutico, una tentazione a scovare sintomi ovunque e inquadrare come patologiche situazioni che un tempo avremmo ritenuto del tutto ordinarie…

PB: Di recente è venuto da me un giovane che si è autodiagnosticato un “disturbo ossessivo”. Sa tutto del suo “disturbo”, prende farmaci, ha fatto terapie cognitivo-comportamentali e strategiche. Si è bardato di ogni cura medica che potesse confermare la sua diagnosi. In lui le distinzioni psichiatriche sono diventate forme dell’esistenza, un’esistenza piena, senza mancanze. Impossibile scalfire le sue sicurezze, i suoi rari sogni sono ridotti a fasi REM del ciclo del sonno e servono a poco, ma, “chissà perché”, uno psichiatra gli ha consigliato la psicoanalisi. Si potrà pensare che si tratti di un caso limite, ma questo tipo di domanda di psicoterapia è sempre più diffusa. Se conosco la mia diagnosi, divento eguale a tutti gli altri che hanno la stessa diagnosi: faccio lo stesso intervento psicologico, prendo lo stesso farmaco, vengo omologato e questo mi rende parte di un meccanismo. In un mondo così esistono solo funzioni; un uomo così è come una macchina banale, serve a produrre beni da consumare, ma l’inconscio è una macchina desiderante, produce intensità indefinite. Queste intensità sono la “parte maledetta”, il carburante della macchina funzionale. Kristeva direbbe l’abiezione. Sul piano storico-sociale Foucault e Pasolini avevano osservato che il razionalismo illuminista contiene una parte oscura, sadica: il dominio dispiegato della tecnica, i droni che funzionano come gli ISSR. Il totalitarismo decreta l’estinzione dell’inconscio e del suo lavoro.

GC: Da qualche parte, si continua a dire che le questioni politiche debbano rimanere fuori dallo spazio della clinica. Conoscendoti, direi che questa posizione non ti appartiene. E infatti nel libro associ la condizione borderline alla virtù della disobbedienza, alla rivendicazione di una “giustizia diversa”. E, soprattutto, lasci intendere che l’inflazione diagnostica e culturale di un simile disturbo sia proprio frutto della sua de-politicizzazione. Sbaglio?

PB: Esatto. La rarefazione del desiderio di aggregazione. Le aggregazioni sessantottine europee sono fallite, quelle identitarie anglosassoni sono entrate in crisi, il senso di giustizia sta crollando. Siamo prigionieri del dominio sadico della razionalità. Foucault e Pasolini ci avevano messo in guardia, ricordate? Kant non può fare a meno di Sade, è arrivato il suo momento. Il bisogno di giustizia negato radicalmente si scotomizza e la giovane borderline mostra i frammenti di questa protesta quando ti mostra le sue braccia tagliate, la sua forma fisica indigente, obesa, il sondino nasogastrico, il tubo del gas. È il tema dell’abiezione, così bene descritto da Julia Kristeva nei suoi Poteri dell’orrore.

GC: Ho molto apprezzato il passaggio del libro in cui fai notare come il termine “borderline” sia diventato a tutti gli effetti un insulto. Curiosamente, di recente è avvenuto lo stesso con la parola “woke”, nata per invitare le persone a svegliarsi, a fronteggiare le ingiustizie, e poi scaduta a pretesto per litigare. Ci vedi un nesso?

PB: Non saprei, mi interessa l’uso della diagnosi insulto (imbecille, idiota, narcisista, isterica, borderline, ecc.) quando diventa argomento di conversazione tra gli psicologi con il pretesto di squalificare il soggetto. È una violazione del diritto alla cura, il rifiuto di venire accolte – e scrivo al femminile perché molte sono donne, anche in questo caso – dallo psicologo o dalla psicologa con motivazioni differenti: non vuole prendere i farmaci, non frequenta le sedute in modo regolare, è aggressiva, dice cose assurde. Che un non addetto ai lavori usi la terminologia diagnostica come un insulto è increscioso, ma è ancora più grave quando questo è veicolato dall’atteggiamento dello psicologo o dell’assistente sociale del servizio minori, o del servizio sociale. Nel 1999 Bridget Penhale, con altre colleghe pubblicò Institutional Abuse, per Routledge. Un testo importante, oggi dimenticato. Su questo versante assistiamo a un decadimento dell’attenzione verso gli abusi delle istituzioni socio-sanitarie, e questo è preoccupante. Il totalitarismo passa anche per la micro-politica, per le micro-violazioni dei diritti umani.

GC: Un’ultima domanda. Il titolo del tuo libro mi fa venire in mente un vecchio testo di Felix Guattari, Una tomba per Edipo. E allora ti chiedo: cosa dovremmo farne di Antigone alla fine, tentare di riesumarla oppure lasciarla dov’è e limitarci a portarle qualche fiore di tanto in tanto?

PB: Chiaro che ho copiato da Guattari e da Maria Zambrano, La tomba di Antigone. Guattari, in alcuni dei testi che compongono Una tomba per Edipo, svolge una salutare critica alla psicoanalisi, come nell’Antiedipo o in altre sue opere, da solo o con Gilles Deleuze. L’Edipo che evoca Guattari è quello che si reca a Colono, accompagnato da Antigone. Nel libro scrivo anche di quest’altra opera di Sofocle, via di mezzo tra l’Edipo Re e Antigone, opera straordinaria che mostra il desiderio femmineo riguardo al legame familiare, un legame familiare “perverso e polimorfo”, per citare Freud, perché endogamico, parentale, incestuoso, proprio come l’amore per Polinice. Quanto alla tua domanda, Antigone è una figura perenne. Sofocle la mostra in un’opera dedicata a lei, ma Antigone è la vittima sacrificale di un rito patriarcale antico ed è la giovane disperata dell’iper-modernità, è testimone indelebile delle grandi e sottili nefandezze patriarcali.


Immagine di copertina:
Marie Spartali Stillman, Antigone

 
Crowdfunding Associazione Ibridamenti APS