Il titolo del libro di Tiziano Possamai, La pazienza della libertà. Foucault Sloterdijk Bateson (Mimesis, 2023) ci porta immediatamente all’oggetto d’indagine dell’autore: la “libertà”, valore etico e teoretico per nulla scontato, «sempre compromesso con la storia» individuale e collettiva. «Pazienza della libertà», perché la ricerca della libertà connota ogni attimo della nostra vita e richiede un esercizio quotidiano, “paziente” appunto. Tiziano Possamai cita al riguardo Foucault che definisce questo nostro esercizio «un travaglio paziente che dà forma all’impazienza della libertà» (p. 34). L’indagine svolta dall’autore si pone all’intersezione del pensiero di tre grandi autori: quello, prematuramente interrotto, dell’ultimo Foucault che affronta la questione del costituirsi della soggettività, quello di Sloterdijk con la sua Critica della ragion cinica e il suo studio dell’antropotecnica, e infine quello di Gregory Bateson, prendendo in esame di quest’ultimo soprattutto la questione del “doppio vincolo” e delle implicazioni epistemologiche delle nozioni di mappa e territorio. Il libro, pertanto, si compone di tre parti, ciascuna delle quali è dedicata a uno dei tre autori; parti separate, ma intimamente connesse dai punti di contatto e di reciproca implicazione fra il pensiero di Foucault, Sloterdijk e Bateson. C’è un altro fil rouge che attraversa i tre capitoli: la ricerca del valore gnoseologico ed etico dell’esperienza artistica.
Negli ultimi anni della sua vita Foucault fu interessato al pensiero della libertà, o meglio dello spazio di libertà che un soggetto “costituito”, cioè dominato dal contesto storico e personale nel quale è cresciuto, può conquistare per ripartire, per divenire soggetto “costituente”, antagonista rispetto alle condizioni di partenza. Un soggetto antagonista e “in rivolta”, come ha scritto Mario Galzigna in Rivolte del pensiero. Dopo Foucault, per riaprire il tempo (Bollati Boringhieri 2013).
Proprio nel seminario del 1982, sottolinea Tiziano Possamai, iniziò da parte di Foucault lo studio delle pratiche filosofiche capaci di dare una svolta radicale alla vita di un soggetto determinato e condizionato. Questo significava per Foucault approfondire una riflessione storica sul soggetto collocato nel mondo, delineandone appunto una “ontologia storica”. Proviamo a immaginare un’indagine genealogica «su come costruiamo noi stessi, sull’origine delle idee che ci facciamo della nostra vita e del mondo, su cosa significa diventare (o non diventare) un soggetto» (p. 21). La morte prematura di Foucault ci ha privati degli ulteriori sviluppi delle sue riflessioni e Tiziano Possamai sottolinea l’importanza dello slancio teoretico ed etico dell’ultimo Foucault: mediante le “pratiche di sé”, indicare le vie di fuga e di riconquista di spazi di libertà a un soggetto storicamente determinato, condizionato, controllato e inglobato dal potere. Certamente, avverte Possamai,
«su tali questioni si gioca adesso, ancor più degli anni in cui Foucault le mise a tema, il nostro futuro, individuale e di specie; adesso, ancor più di allora, non vi può essere cura di sé senza cura dell’altro, nel senso più ampio e inclusivo del termine. Aver ignorato ciò ci ha condotti alla crisi ecologica odierna, chiamata da alcuni proprio per questo (per l’incapacità dimostrata dagli uomini di prendersi cura di sé stessi andando al di là di sé stessi) Antropocene» (p. 22).
L’indagine dell’ultimo Foucault, incentrata sul ruolo attivo del soggetto, è anche un tentativo di superare un’epistemologia deterministica, che riscontriamo anche nelle considerazioni dello strutturalista Lévi-Strauss che nel 1969 affermava: «ciò che in apparenza è l’elemento più arbitrario del pensiero umano è in realtà rigorosamente determinato».1 Si tratta quindi di disegnare uno spazio di libertà possibile. Occorre allora operare un’apertura etico-politica a partire dalla nostra collocazione nel mondo. Evitando sia il pessimismo e la rassegnazione di fronte all’esistente e ai condizionamenti, considerati ineluttabili e insormontabili, sia il delirio di onnipotenza e di autosufficienza del soggetto. «Detto altrimenti, dietro la cosiddetta svolta soggettiva della filosofia moderna, Foucault intravede il gesto di un soggetto storicamente determinato che a un certo punto della sua storia pone sé stesso come determinante» (p. 26). Il soggetto, così, si è dedicato alternativamente all’espulsione dell’“altro” dentro di sé, dando la caccia alla follia o sopprimendo l’universo del rimosso, o dell’“altro” fuori di sé, perseguitando e spesso eliminando l’alterità esterna, e di questo purtroppo la storia ci ha fornito molti esempi. Scrive Possamai:
«Soggettività e libertà in Foucault finiscono non solo per implicarsi a vicenda, ma anche per mostrare che una certa infedeltà del soggetto a sé stesso può essere la forma più alta di fedeltà a sé stesso e, viceversa, che una certa fedeltà del soggetto a sé stesso può essere un segno del suo venir meno come tale, della sua incapacità di aprirsi a quella che Merleau-Ponty chiama “un’infinità di possibili” e del suo rimanere bloccato in una ripetizione senza differenza» (p. 42).
La seconda parte del libro è dedicata al pensiero di Sloterdijk a partire dalla pubblicazione del libro Critica della ragion cinica, uscito in Germania nel 1983. Si ha davvero l’impressione che nell’analisi della «ragion cinica» venga raccolta in parte l’eredità dell’ultimo Foucault, quando Sloterdijk fa un elogio della saggezza e della libertà conquistate dal cinico antico, del tutto imparagonabile al cinico moderno. Lo stesso Foucault aveva indagato il pensiero dei filosofi antichi che con l’esempio della loro vita virtuosa avevano incarnato l’intreccio indissolubile tra sapere e potere. Sia in Foucault che in Sloterdijk, il soggetto anela a liberarsi dalle pastoie del potere costituito al quale è assoggettato. Questo, in entrambi i filosofi, può avvenire solo a patto che si verifichi un totale “capovolgimento” della situazione di partenza. Di fronte a un potere dinamico e produttivo, capace non solo di reprimere la nostra libertà ma anche di orientare le nostre scelte (ed è questo un altro punto che accomuna le riflessioni di Foucault e Sloterdijk) è necessario calarsi nel mondo, ritrovare nelle pieghe dell’assoggettamento e dell’alienazione qualcosa che assomigli alla nostra soggettività perduta, come suggerisce l’ultimo Foucault, oppure – ed è questa la direzione che prende la ricerca di Sloterdijk – partire dalla ipertrofia della «falsa coscienza illuminata» (Possamai ben spiega le ragioni di questo ossimoro) e muoversi verso nuove forme di esperienza fino ad avvertire l’irresistibile «forza delle cose». Il capovolgimento che accomuna Foucault e Sloterdijk porta quest’ultimo ad abbandonare l’imperativo cinico “rimani come sei” per intraprendere un cammino su un terreno del tutto sconosciuto che consenta una radicale rifondazione di sé. Nella poesia che Rainer Maria Rilke scrive in seguito all’emozionante visione dell’Apollo arcaico del Louvre, risuona l’imperativo del poeta: “devi cambiare la tua vita!”. Sloterdijk raccoglie questo invito ad allontanarsi da sé, anche a costo di provare spavento davanti all’idea di essere sull’orlo di un baratro. Allontanarsi da sé, avventurarsi in «una vita acrobatica senza fine». Come spiega mirabilmente Possamai:
«…Ritornare dove non siamo mai stati. Rimpatriare dove non abbiamo mai avuto residenza, luogo, dimora. Si tratta di un esercizio di libertà – e al contempo di verità – ulteriore, che amplia lo spazio della nostra identità nel momento stesso in cui la mette in questione e ridimensiona» (p. 75).
Un senso di libertà assoluto, tale da dare persino le vertigini, come se si vivesse una nuova «esistenza sulle vette» (p. 65). Eppure, solo da quella postura si possono prendere le distanze dal mondo e da sé stessi, per rifondare sé stessi e tornare ad operare nel mondo. La vera vita libera, perché libera dal potere, è quella di Diogene e non quella del potente Alessandro. L’ammirazione per il valore della vita di Diogene o l’esperienza estetica di profondo spaesamento davanti all’Apollo del Louvre che continua a guardarci pur avendo perso il volto nella temperie dei secoli, o ancora la lettura dei versi di Rilke (Torso arcaico di Apollo, 1908, p. 63) hanno il potere di condurci lontano dal quotidiano, di indicarci le tante vie possibili per dar nuova forma alla nostra vita.
La terza parte del libro segue alcuni itinerari del pensiero di Bateson e lo fa partendo dalle riflessioni di Foucault che
«compie un percorso storico genealogico, nel senso nietzschiano del termine e cioè come indagine di ciò che ci fa essere quello che siamo, attraverso alcuni regimi o “epistemi”, come li chiama Foucault, del dicibile e del visibile. Mediante un lavoro di scavo […] Foucault individua alcune grandi linee di frattura nella storia del pensiero occidentale, che si susseguono e che segnano i confini delle nostre formazioni discorsive. Egli mostra che ciò che è possibile dire o non dire, ma anche vedere o non vedere, non è scontato, non è sempre uguale, muta a seconda delle conoscenze, delle teorie, dei modi di pensare di una determinata epoca» (pp. 85-86).
Inoltre, Le parole e le cose è l’opera nella quale Foucault «indaga i territori da cui derivano le mappe utilizzate dagli esseri umani nel corso del tempo per pensare, sentire e agire» (p. 88). Gregory Bateson media la metafora di mappa e territorio da Alfred Kozybski che, introducendola in ambito sociale, afferma «la mappa non è il territorio». Bateson fa suo questo concetto e, introducendolo nella sua epistemologia, sottolinea che tra il mondo animato o inanimato (il territorio) e le parole o le immagini che utilizziamo per raffigurarlo (la mappa) non potrà mai esserci identità. Innanzitutto, tra territorio e mappa c’è una differenza di ordine logico: la mappa è a un livello superiore rispetto al territorio. Con questo Bateson ribadisce che il territorio non è il mondo delle cose in sé di kantiana memoria. Anche la vista di un oggetto non rappresenta l’oggetto in sé (la Ding an sich), ma è l’immagine dell’oggetto impressa sulla nostra retina, quindi la “cosa” è sempre mediata dal nostro apparato sensoriale. Con la metafora della mappa in relazione simbolica con un territorio Bateson supera “l’incubo” del dualismo cartesiano. È questo un punto fondamentale nel quale Possamai intravede un collegamento tra Foucault e Bateson: i territori non sono paesaggi estranei all’umano, ma a loro volta sono «codici fondamentali d’una cultura – quelli che ne governano il linguaggio, gli schemi percettivi, gli scambi, le tecniche, i valori, la gerarchia delle sue pratiche» (p. 88). Tra mappa e territorio c’è una differenza di ordine logico e non ontologico, come tra la cosa e il nome della cosa, come tra una pipa reale e l’immagine della pipa nel famoso quadro di Magritte, che anzi sottolinea questo intimo «tradimento con il messaggio “verbo-visivo”. Questa non è una pipa» (p. 93).
Proprio nell’arte è molto visibile, più che in altri ambiti, la relazione fluida tra mappa e territorio. Il movimento delle mappe può avvenire in orizzontale, perché esse si ampliano fino ad abbracciare territori precedentemente esclusi o ignoti, o in verticale, quando le mappe si superano e diventano territori di sé stesse. Nota puntualmente Possamai:
«Ciò che a un certo sguardo appare come un territorio, a un altro livello di sguardo può mostrarsi come mappa. Al contrario ciò che a un certo sguardo appare come una mappa a un diverso livello di osservazione (non necessariamente più profondo) può rivelarsi un territorio […] e così via all’infinito» (p. 96).
Nella teoria del doppio vincolo, Bateson collega l’insorgere di una grave patologia mentale, la schizofrenia, a un particolare comportamento umano. Soprattutto questo può avvenire nella relazione madre-bambino, connotata da grande coinvolgimento emotivo, quando ad esempio il bambino, in modo reiterato, riceve dalla madre due messaggi contraddittori, ciascuno dei quali smentisce l’altro. Il bambino non ha strumenti per decodificare la contraddizione e mettersi al riparo dall’angoscia: egli semplicemente riceve proprio dalla madre una continua disconferma che, se ripetuta nel tempo, condizionerà anche in futuro la sua capacità di cogliere metamessaggi, di elaborare metafore, di passare da un contesto all’altro. Cosa che invece avviene nel gioco e nell’arte. Se Bateson ha messo in relazione la teoria del doppio vincolo con lo sviluppo di comportamenti patologici nel bambino, altri autori come Pierre Bourdieu, Abdelmalek Sayad, Edward Sayd l’hanno utilizzata per spiegare la lacerazione e il «senso di continua disappartenenza che accompagna l’immigrato/emigrato» (p. 127): egli si sente due volte presente e due volte assente nel Paese d’origine e nel Paese nel quale è approdato per dare una svolta alla propria vita. Così anche in psicoterapia le situazioni di doppio vincolo possono essere utilizzate dal terapeuta per aiutare il paziente a uscire dall’impasse che gli causa sofferenza. Anche l’arte, come luogo della metafora, della connotazione, della polisemia, può essere terapeutica, può esercitare su di noi una formidabile spinta «ingiuntivo-trasformativa» (p. 159). Essa, portandoci lontano da noi stessi e dal quotidiano, provoca in noi quel senso di straniamento che allarga la nostra visione del mondo e ci rende liberi, capaci di intendere meglio proprio quel quotidiano dal quale pensavamo di esserci allontanati. L’arte, quindi, non come evasione, ma come strumento potente che ci aiuta a dar nuova forma alla nostra presenza nel mondo. La libertà, allora, si nutre di immaginazione, di metafore, di analogie. Un pensiero libero è un pensiero della complessità, dei concetti posti in relazione, dei passaggi da un ordine logico all’altro. «Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra?» Così scriveva Gregory Bateson in Mente e Natura. Un’unità necessaria (Adelphi, 1984, p. 21).
Con La pazienza della libertà Tiziano Possamai ci ha mostrato in modo originale e approfondito come Foucault, Sloterdijk e Bateson, partiti da diversi assunti e percorrendo diverse vie di ricerca, abbiano ricollocato al centro dell’attuale scenario teorico-politico il tema della libertà. Il messaggio forte che attraversa i loro percorsi è che non vi può essere liberazione di sé senza la liberazione dell’altro.
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1) Cit. in Mario Galzigna, Rivolte del pensiero, p. 9. La frase di Lévi-Strauss è tratta da Paolo Caruso (a cura di) Conversazioni con Claude Lévi- Strauss, Michel Foucault, Jacques Lacan, Mursia, 1969, p. 28.
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Immagine di copertina:
torso di Apollo arcaico, sala delle antichità greche, Louvre