Avere ogni giorno sotto gli occhi il disastro causato da una violenta tempesta significa convivere con l’iperoggetto. Scrivevo già lo scorso anno della nuova dimensione su cui ci trasporta l’attraversamento della foresta fortemente compromessa da fattori correlati al cambiamento climatico. Per raggiungere il luogo dove insegnavo, attraversavo con il treno zone boschive molto ampie contrassegnate tuttora da segni visibili della tempesta Vaia che nell’ottobre del 2018 ha devastato i boschi del Nord-Est, ridotti a un tappeto di alberi lasciati a marcire laddove non si è potuto recuperarli. Ma se l’iperoggetto continua a esistere solo come fantasia, è percepito come fenomeno immaginario e non temuto come manifestazione reale di una trasformazione di cui siamo tutti parte, cosa implica trasportarlo su un piano empirico, esperire su di sé il mutamento di percezione che, mediante la sua stessa presenza, esso imprime ai sensi? Tramite la vista si colgono le molteplici stranezze quotidiane, moscerini dove non dovrebbero essercene, il diradarsi o viceversa l’infoltirsi della vegetazione, la presenza di specie invasive esogene; tramite la pelle si percepisce una umidità anomala, un vento persistente.

«È la struttura della società borghese che impedisce di dare credito a scenari da cataclisma», scrive Ghosh ne La grande cecità (p. 67), una struttura in cui siamo tutti incastrati, che si regge anzi proprio perché aderiamo ostinatamente ai nostri ruoli irrinunciabili, li replichiamo poiché così ci è stato insegnato. Abbiamo imparato a imitare una formazione, dei percorsi, ad applicare degli automatismi, grazie ai quali si rimane al sicuro entro il perimetro della propria classe sociale. Poco importa dove accada, poco importa se la mobilità sociale sia una illusione o una realtà: è l’ultimo dei problemi, visto che in qualsiasi stazione si salga sul treno, la destinazione è sempre la stessa, ovvero un capolinea che si chiama società borghese. La trama che la compone è quella della letteratura che la rappresenta: la società e il romanzo borghese, due fenomeni che sono lo specchio l’una dell’altro e viceversa. Non si dà una senza l’altro. Scrivere romanzi oggi significa continuare a ripetere uno schema consunto, anche quando lo si rinnova introducendo le tematiche più pressanti dello stadio evolutivo attuale della società. Anche quando il romanzo è di denuncia, o contiene espressioni di criticità interne alla società borghese, ne riflette le aporie, le contraddizioni, anche in quel caso non fa che replicare, ripetere uno schema narrativo. Ad aggravare la questione è la moltiplicazione infinita delle tecniche, il ruolo delle scuole di scrittura, che insegnano come ottenere un prodotto commerciale perfetto. Da quando il romanzo ha abdicato alla sua funzione essenziale, che era quella di fornire alla borghesia delle chiavi di lettura per decodificare i propri comportamenti e mettere in crisi le proprie certezze, e si è trasformato in pura rappresentazione di rituali cristallizzati – di cui anche una stanca autocritica è parte importante –, la tecnica ha avuto la meglio sull’invenzione. Nella storia delle arti, fra cui la letteratura, questo fenomeno ha un nome: manierismo.

Lo scossone che transita la rappresentazione verso una nuova forma proviene dall’esterno dell’arte e non dall’interno: non è la volontà di distruggere un codice che porta davvero a distruggerlo, è piuttosto l’irrompere di una istanza che rovescia il tavolo e costringe a fare i conti con modalità rappresentative inadatte allo scopo.

«Perché è difficile tradurre il cambiamento climatico in narrazione?» si chiede sempre Ghosh, in quello che rimane il saggio capitale della nostra epoca nel campo della teoria della letteratura. Uscito nel 2016, The Great Derangement. Climate Change and the Unthinkable, è stato tradotto in italiano nel 2017 con un titolo che non fa giustizia alla drammaticità della questione sollevata dall’intellettuale indiano. Ponendosi innanzitutto il problema del genere, analizza la scarsa considerazione che la società letteraria riserva agli scrittori di fantascienza, ad esempio, poiché si occupano di catastrofi, di scenari altamente improbabili nel tranquillo scorrere della quotidianità produttiva e costitutivamente ottimista del capitalismo. La distopia non è contemplabile in una società che ragiona in termini di produttività, di crescita, in breve di profitto. Lo abbiamo visto molto chiaramente in questo anno di pandemia: dalle lenzuola colorate con messaggi speranzosi, alle musiche sui balconi, alle challenge su tik tok, non c’è stato spazio per il lutto, per la salute mentale, per tutti gli aspetti più grevi della vita quotidiana all’epoca della pandemia.

Ghosh si chiede perché le espressioni culturali del capitalismo non affrontino il cambiamento climatico. Ci si è chiesti molto spesso se il romanzo, in quanto espressione culturale di questa società fosse davvero in grado di rappresentarla nel suo momento più cupo, nel frangente in cui un irrapresentabile iperoggetto incombe su di essa e ne disgrega i fondamenti: lavorare, produrre, consumare. Senza lavoro, con la produzione ferma e tutti i luoghi del consumo serrati, dove si svolge la vita borghese? Cosa può rappresentare il romanzo, se i fondamenti su cui poggia si stanno sgretolando?

Ecco che torna la questione posta da Ghosh, rispetto ad alcuni sottogeneri letterari tradizionalmente disprezzati dai letterati colti: la fantascienza – esperta in scenari catastrofici; il fantasy – esperto nella costruzione di mondi; il fantastico – esperto nella traduzione letteraria dell’inquietudine profonda. Catastrofi, costruzione di mondi, inquietudine. Sono questi tre aspetti narrativi che ci sono oggi più famigliari che mai: nella nostra quotidianità modificata dalla pandemia lo spettro della catastrofe economica e sanitaria ci ha accompagnati ogni singolo giorno, ci ha portati a desiderare un altrove irraggiungibile dove riparare, ha fatto emergere terrori sommersi, la paura della solitudine, la paura della vita stessa, che priva di socialità costringe all’ascolto profondo delle nevrosi. L’incapacità di prepararsi per ciò che è inconcepibile, per citare sempre Ghosh, l’ottusa fiducia in una risoluzione positiva nella gestione di qualsiasi fenomeno che sia platealmente fuori da ogni controllo, anzi l’idea che qualsiasi fenomeno si presti a un margine di controllo, ha impedito in questo anno di ripensare radicalmente ai settori produttivi, dall’industria alimentare alla filiera del libro. La chiusura degli stabilimenti tessili in certe zone dell’India ha provocato una catastrofe nella catastrofe, precipitando nella povertà più estrema i nuclei familiari che vivevano di lavoro operaio femminile in quel settore e causando una inversione di marcia epocale nell’emancipazione femminile indiana. Ovunque, le principali vittime del crollo del sistema produttivo sono state le donne. Tuttavia, nell’ultimo anno è stato ricordato più volte che durante una piccola catastrofe climatica, nel 1816, una donna inventò il romanzo di fantascienza. Attualmente la scrittura femminile di fantascienza propone soluzioni all’avanguardia rispetto a questioni di crisi climatica e di sottorappresentazione di gruppi sociali in letteratura: Jemisin, Okorafor, Atwood, Lessing per citare solo le più note e celebrate scrittrici di fantascienza contemporanea.

Gli eventi di rottura con la regolarità, quelli che Morton chiama gli iperoggetti, «una pioggia fuori dall’ordinario, un inusitato ciclone, una chiazza di petrolio sul mare hanno su di noi un effetto spaesante» (Ghosh, p. 37 e n. 42 p. 99). Lo spaesamento causato dalla stranezza degli eventi climatici che stanno avvenendo intorno a noi ci porta a riconoscere la prossimità di interlocutori non-umani. Nell’ultimo decennio, rileva Ghosh, l’interesse accademico per tematiche come il non-umano ha portato all’ammissione che «nel mondo esistono entità, come le foreste, pienamente capaci di inserirsi nei nostri processi di pensiero» (p. 38). Gli elementi che segnalano il cambiamento climatico sono spaesanti, sono creature anomale, che non hanno nulla di umano o di rapportabile con l’umano. In questa categoria rientrano gli eventi catastrofici che esulano da qualsiasi strategia di contenimento e dall’ottimismo della scienza, in grado di prevedere e arginare i disastri naturali. È necessario allora trovare un altro modo di immaginare gli eventi pensabili della nostra era.

Come spiega Ghosh, la costruzione di mondi nel romanzo passa attraverso la creazione dello scenario in cui il lettore si immerge, finché gli sembra reale e ne diventa parte; tuttavia, le connessioni dello scenario col mondo esterno devono stare sullo sfondo, come accadeva ad esempio per i sistemi imperiali nel romanzo dell’800. Gli scenari dei romanzi non sono decontestualizzabili, poiché il mondo del romanzo impone limiti di tempo e spazio, cioè è un mondo concluso, che funziona per esclusioni. Se gli iperoggetti – come definiti da Morton – sono soggetti narrativi vischiosi, poiché aderiscono in modo permanente alle nostre vite, ma impediscono di pensare in termini realistici, nei modi in cui si muove il romanzo, come si può trattarli alla stregua di una foresta, di un oggetto che può a tutti gli effetti spostarsi dallo sfondo e divenire protagonista di una narrazione? La sfida narrativa di questa epoca – proprio questa in cui stiamo vivendo l’esperienza più disturbante della nostra vita su questo pianeta – è degnare l’oggetto di autonomia narrativa, ovvero rinunciare all’antropocentrismo e decolonizzare dallo sguardo umano tutti gli oggetti, inclusi gli iperoggetti definiti da una continuità di esperienza che travalica i confini e le nazioni.

Non sono quindi le iniquità e le lotte rappresentate su un fondale storicamente circoscritto alla crisi del capitalismo e alla transizione verso un possibile diverso sistema economico, le protagoniste di una narrativa che possa rappresentare lo spirito di questo tempo. Per quanto il romanzo rimanga il genere letterario ideale per rappresentare la lotta, con il suo schematismo inevitabile del sistema di personaggi, dello svolgersi di una trama, una storia implica che vi sia qualcosa di degno da raccontare, e che l’oggetto della narrazione sia dotato di un coefficiente minimo di identificazione. Il cambiamento climatico e la pandemia non sono solo scenari limitati a sistemi economici: sono iperoggetti, il cui pensiero fa svanire la discontinuità data dai confini di un luogo, dallo spazio circoscritto in cui prendono forma le vicende narrate nei romanzi. L’annullamento del luogo rende sempre più difficile concepire l’ambientazione del romanzo come circoscritta e l’attuazione di tutti quei dispositivi narrativi che facilitano il processo di identificazione, da sempre alla radice del successo della forma romanzo.

Un notevole passo avanti in questo senso è stato fatto dallo scrittore americano Jeff VanderMeer. Già noto per il successo della Trilogia dell’Area X (si veda questo articolo di Luca Giudici). Qui, senza rinunciare al sistema dei personaggi e alla trama, aveva già compiuto un passo verso il declassamento della struttura narrativa a favore della rappresentazione dell’area in cui saltano i paradigmi della normalità:

«La struttura della narrazione, vista nell’economia dell’opera, rimane un elemento a latere, quasi occasionale, anche alla luce del fatto che le infinite domande che prendono corpo nel corso della lettura rimangono senza risposta nella quasi totalità dei casi. VanderMeer ti convince a rinunciare provvisoriamente alla coerenza interna del testo, regalando in cambio una partecipazione e un’adesione emotiva senza esitazioni».1

Nel suo penultimo romanzo, Dead Astronauts, compie un ulteriore passo avanti, abdicando al ruolo di romanziere e proiettandosi in un universo narrativo che è ormai privo di struttura e personaggi caratterizzati secondo il canone otto-novecentesco. Tuttavia, la prosa sperimentale di VanderMeer non cade nel tranello di riproporre gli esperimenti modernisti o postmoderni che già liberarono felicemente il romanzo dalla dittatura della trama. Quello che fa VanderMeer nella sua opera è sospendere qualsiasi coordinata per concentrarsi nella resa dell’iperoggetto, cogliendo nel modo più riuscito la lezione di Ghosh.

Una possibile forma di resistenza in quest’epoca di collasso cognitivo e narrativo si può trovare nella reintroduzione nel romanzo di eventi da esso tradizionalmente espulsi, le forze di impensabile portata che creano legami profondissimi e che finora, quando presenti, sono rimasti a titolo di sfondo. Il limite è però il rimanere ancorati a uno scenario: ne La strada, Cormac McCarthy allude all’evento catastrofico che tuttavia rimane innominato, e rappresentato attraverso segnali del paesaggio (la foresta coperta di cenere, la strada deserta, l’assenza di cibo). L’evento non è mai al centro della narrazione: nessuna voce narrante si premura in alcun modo di definirlo, di raccontarlo. La linea di ricerca inaugurata da Ghosh ha un senso in quanto cerca di evidenziare la necessità di identificare, nella ipertrofica produzione narrativa mondiale odierna, romanzi che abbiano come protagonista la catastrofe in sé in quanto iperoggetto, in un punto critico della civiltà umana in cui mentre salta un sistema, è necessario fare leva sull’immaginario per sopravvivere al salto cognitivo.

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Note:

1) L. Giudici, «Trilogia dell’Area X, una lettura al confine tra due mondi», in il lavoro culturale, 15 dicembre 2015: https://www.lavoroculturale.org/trilogia-dellarea-x-una-lettura-al-confine-tra-due-mondi/luca-giudici/2015/

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Immagine di copertina:
Armando Veve, Horizons, 2017 (particolare), illustrazione per il racconto di Jeff VanderMeer This World is Full of Monsters