[Questo articolo collettivo è il risultato della trascrizione di una conversazione avvenuta tra Francesca Maccani, Matteo Meschiari, Stefano Tevini, Viviana Valenti e Antonio Vena. A cura di Claudia Boscolo].
Perché siamo qui? Per discutere di un libro anomalo, che non è un romanzo con una trama lineare, ma un’opera la cui complessità impedisce al momento di inscriverlo all’interno di un genere. Dead Astronauts [d’ora in poi D. A.] di Jeff VanderMeer è un libro di visioni, che offre una prospettiva fluida. Lo sguardo soggettivo dei protagonisti è viziato, deforme, si potrebbe definire onirico, se questo termine fosse connotato in senso neutro e non generalmente positivo. Nonostante si tratti di una narrazione per nulla lineare, si può raccontarne l’abbozzo di trama entro cui si muovono le figure che animano la vicenda. Tre personaggi escono da un deserto e giungono in una città. Da quel momento, cioè dall’uscita dal deserto, ha inizio l’osservazione di questi corpi e di queste menti da parte di entità terze. Queste entità sono una volpe blu (la Blue Fox) e un’anatra orrenda, zoppa e dai denti terrificanti. Altre entità sembrano umane, ma molto della loro storia è andato perduto, quindi vengono per lo più immaginate. Alcune le si incontrerà brevemente nel corso della narrazione. Se si giudicasse dalle forme di questi personaggi si potrebbe pensare di avere a che fare con un horror: dal deserto escono mostri che giungono in una città di mostri. Tuttavia, l’incipit – in generale l’atmosfera del romanzo – ricorda il genere Western.
Un’altra entità presente nella narrazione è la Compagnia, che osserva, manipola e determina i destini. Tutta la storia è una rappresentazione di menti frantumate, che hanno subito abuso e violenza, e in questo senso è ragionevole pensare a D. A. come a una sorta di poema epico frammentario, una storia in cui gli umani e i loro strumenti narratologici sono approssimativi. Si tratta forse di una vera epica post-umana.
Davanti a un’opera così complessa si nota la difficoltà della critica. Le recensioni americane di D. A. sono estremamente fumose, poiché in assenza di una trama definita, risulta complicato parlarne semplificando per i lettori ciò che è difficile da comprendere anche per un esperto.
Altri si sono misurati con operazioni simili sul romanzo, per esempio, i fratelli Strugackij con La chiocciola sul Pendio o Volodine con Terminus Radioso. Esiste una tendenza a creare forme ibride e inclassificabili per lo più presso autori incasellati come scrittori di fantascienza. È come se partissero da simboli, o singole unità immaginifiche che funzionano come filamenti di DNA narrativo, o come se venissero posti dei germi su un vetrino e si stesse ad osservare cosa succede.
È curioso notare come i primi romanzi di VanderMeer siano più simili a D. A. rispetto alla Trilogia dell’Area X, e tuttavia l’autore torna a questa modalità narrativa solo a carriera avanzata, quando ormai ha raggiunto il successo. Ogni suo libro è opzionato per l’adattamento cinematografico, ma proprio quando è diventato famoso decide di pubblicare quest’opera anomala, di cui pochissimo si parla. È un libro che forse può permettersi di far uscire solo ora. Subito dopo D. A. escono A Peculiar Peril e Hummingbird Salamander, un thriller dalle sfumature più “pop”.
Prima di leggere D. A. è utile affrontare il suo Borne per disporre di un quadro più completo, ma va innanzitutto chiarito che D. A. non è un prequel, il primo capitolo di una saga, ma una backstory, il retroterra su cui posa tutta la vicenda. Per quanto weird possa essere definito Borne, è comunque un classico racconto post-apocalittico, con un plot lineare e dei personaggi definiti. In Borne incontriamo già i tre astronauti morti, i cui scheletri sono rinchiusi dentro le loro tute. Borne decide di usarli come arredamento. I due romanzi vanno pensati forse come un unicum, ma in un multiverso: quello di Borne è uno degli universi, una delle molteplici versioni delle missioni dei tre astronauti. Il punto fermo di entrambi i romanzi, l’antagonista in termini narratologici, è la Compagnia. Gli astronauti e la Compagnia sono complementari, uniti. Gli astronauti si chiamano Grayson, Moss e Chen. Grayson ricorda l’Oracolo di Matrix, è una donna di colore con un occhio cieco, dotata di poteri divinatori, un topos letterario, il personaggio che vede quello che altri non riescono a cogliere, l’indovino cieco, una figura classica ma al contempo la più umana. Gli altri due sono estremamente fluidi, per quanto riguarda sia il loro genere sessuale sia le loro caratteristiche fisiche. Molto enigmatica è anche la Compagnia: è indecifrabile, onnipotente, indescrivibile. Sembrerebbe rispecchiare la complessità dei problemi della nostra civiltà: ambientali, economici, relativi alla catastrofe climatica e al collasso del sistema. La Compagnia si configura come emblema di tutto ciò che caratterizza il tardo-capitalismo nel suo stadio terminale.
In D. A., come nella Trilogia dell’Area X è presente il tema dell’uomo che abusa della natura, portato al suo estremo nel personaggio della Volpe Blu, che rappresenta la natura violentata dall’uomo. Vi è una pagina in cui la Volpe descrive lo sterminio, facendo ritorno nelle pozze di raccolta degli scarti degli esperimenti biotech di Borne. La malvagità dell’uomo è accentuata dalla stupidità che è alla sua radice. L’uomo riduce in brandelli la vita, fino a quando non rimane che un deserto. Nella Trilogia dell’Area X tutto ciò che resiste e recupera forza risulta dalla liberazione dalla presenza infestante dell’umano.
Una figura centrale del romanzo è quella di Charlie X, che in Borne è però soltanto uno scavenger folle, rovista tra i rifiuti e viene assassinato senza riguardo. In Borne gli astronauti sono già morti e la Compagnia cade una volta assassinato Charlie X, e vi sono delle volpi non blu che si aggirano nella città di Borne. I due romanzi sono usciti in ordine contrario rispetto allo svolgersi della vicenda. Avevamo quindi già incontrato i tre astronauti in Borne, in cui l’universo sembra più stabile e gli elementi di continuità emergono più chiaramente, mentre in D. A. appare più complesso trovare questa unità.
Si può fare un paragone con il mondo dei romanzi di Volodine, in cui è rappresentata l’Europa tra le due guerre mondiali, il terrorismo di estrema sinistra, lo spettro del fascismo, la risposta degli apparati di sicurezza per fermare la rivoluzione. Dopo decenni, sorge una nuova Unione Sovietica che comincia a costruire piccoli reattori nucleari per alimentare l’industria e la rivoluzione. Trascorrono altri decenni, la rivoluzione e la guerra civile e conflitti contro altre potenze capitaliste falliscono, i reattori esplodono, le radiazioni si diffondono. Alcuni individui mutano, gli intellettuali sopravvissuti diventano superumani, vivono centinaia di anni, deformi e folli. In questo mondo post-apocalittico da globalizzazione e rivoluzione interrotta diventa post-esotico: tutto è stato esplorato, tramutato, non c’è un luogo sul fronte esteriore dove esista del mistero. Da Lisbona ultima frontiera a Gli animali che amiamo, ci si trova in mezzo a un’era che sembra immobile: il terminus radioso.
Qualcosa di simile forse accade anche in VanderMeer. Nei suoi romanzi precedenti alla Trilogia dell’Area X c’erano altre “città”, delle enclave umane, con mondi occulti o sotterranei dove vivono animali, mutanti, post-umani, e questi abitanti altri in qualche modo sono pronti a prendere il controllo anche del mondo di sopra, quello che manca, dei rifugiati umani inconsapevoli. Ora, è la Compagnia che costruisce queste città? Sembra di sì. È l’entità che distrugge il mondo per salvarlo, forse l’unica entità che sopravvive al collasso dell’ecosistema. La protagonista di Borne è una rifugiata climatica che descrive l’andamento ondulatorio del mondo, del suo assetto geopolitico e della sua infanzia da migrante. Una cosa in ogni caso è chiara: c’è uno slittamento nell’immaginario dell’Entità: la Compagnia non è la mega-corporation descritta nella letteratura cyberpunk. Alza dal nulla città che sembrano grandi esperimenti a cielo aperto e allo stesso tempo appare, dalla sua inutile onnipotenza, simile a una corporation o a una agenzia parastatale, come nella cinematografia di Nolan. La Compagnia costruisce una sua immensa sede nella Città, tanto grande da permettere che al suo interno convivano adoratori di Mord e ribelli. Sono tutti stranded asset questi membri della Compagnia, carnefici e vittime. È la corporation da Antropocene finale, dove il fronte interiore ed esteriore collassa, e tutti, anche i tre astronauti, sono in qualche modo schegge impazzite, orfani del tardo capitalismo. Asset che non vuole più nessuno.
Un altro elemento di continuità nel mondo di Borne/D. A. è Balcony Cliff, lontana dal centro, ma con la vista panoramica migliore. Un punto strategico in Borne, un nome come altri, impresso nelle memorie genetiche delle varie versioni dei tre astronauti.
Dal punto di vista stilistico e dei vari riferimenti letterari che si possono rintracciare in questo romanzo, molte scene ricordano The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge. Ad esempio, il motivo dell’uccisione dell’albatros – che ovviamente rappresenta la violenza contro la natura stessa – in seguito al quale hanno inizio i deliri dei marinai: il mare comincia a ribollire di creature, le allucinazioni impazzano, la realtà si frange. In D. A. abbiamo una situazione simile, in quanto le creature, mostruose, in forme di serpente, di Leviatano, pesci squamati escono da ovunque. È la fine di ogni armonia, l’orrifico, il terribile: l’uomo non può più affrontare la reazione della natura. La Volpe Blu può essere invece interpretata come energia primordiale, la forza del caos liberato, in quanto la natura resiste, si adatta, indipendentemente dall’uomo. Riesce a modificare sé stessa davanti agli input negativi, è una energia ingovernabile che assorbe la violenza e la rielabora a modo suo. L’operazione compiuta dalla Compagnia è la stessa che troviamo nel momento in cui il marinaio uccide l’albatros: si crea la dissipazione, e gli strappi nella realtà. La cattiveria è proposta come peculiarità dell’umano, e non ve ne è traccia nelle entità non umane: queste sono tutte entità senza padre.
Il fatto che D. A. sia uscito dopo Borne può essere letto come un riflesso del collasso cognitivo. Come umanità facciamo sempre più fatica a elaborare la realtà. VanderMeer racconta prima una storia piuttosto lineare in cui introduce alcune tematiche, e poi in D. A. compie un salto all’indietro in un flashback, perché stiamo regredendo nella comprensione del mondo. VanderMeer crea letteratura anche scegliendo cosa far uscire prima: pubblica la seconda parte che in realtà è la prima, e anche questo è un modo per simulare il collasso cognitivo. Prima esce il romanzo più lineare, poi quello in cui l’approccio epistemologico è più faticoso.
La volpe in D. A. è diventa blu attraversando l’ennesima vasca, l’ennesimo esperimento. Una delle volpi in Borne diventa blu, forse è da lì che ha inizio il viaggio allucinato di D. A. Non sappiamo chi abbia creato la Volpe blu, ma di certo il miracolo riesce dopo che migliaia di esseri sono stati straziati dagli esperimenti. La storia è a modo suo semplice: vengono massacrati milioni di animali, al punto che uno di questi, sotto tortura, è diventato autocosciente. Questo ce lo racconta la Volpe Blu stessa: ci dice che migliaia di animali e altri esseri viventi sono morti in modi differenti. La volpe ha raccolto nella sua coscienza il dolore di tutti quegli esseri come di altre volpi. Ciò che era molto improbabile si è verificato ed è diventato qualcosa di non veramente comprensibile, se non per estrema approssimazione.
Se si legge la Trilogia dell’Area X è inevitabile iniziare a riflettere su ciò che rappresenta per l’autore, e per noi, un confine. Il passo successivo è cercare confini anche in diverse scritture che apparentemente parlano di altro, come Il nero è un colore di Grisélidis Réal, e quello ancora successivo è individuare confini e aree X tra le crepe della realtà che ci circonda. Ovunque ci sia una crepa, lì c’è un confine. Per ogni confine, c’è un’area X, e per ogni crepa un collasso.
Possiamo pensare alle crepe come fratture che si generano tra la realtà ordinata dentro la quale si muovono moltitudini, e le realtà collassate di altre. Questo guscio, che sta tutto intorno alle società normate e le protegge, ha infinite crepe. Le aree X sono un prodotto di queste crepe, e finiscono per riversarsi, anche se respinte e avversate con forza, sulla società regolare e uniforme e placida come un acquario in cui viviamo. L’ossessione di pattugliare il Confine dell’Area X per terra, per cielo e per mare, descritta nella Trilogia di VanderMeer, è paradigmatica. Più che impedire ingressi non controllati nell’Area X, è necessario bloccare la fuoriuscita dall’Area X di qualcosa che possa infettare/contaminare/cambiare il mondo normale. I soggetti che si muovono all’interno della Southern Reach e della Centrale non comprendono, non conoscono soluzioni efficaci, e pur tuttavia pensano di poter contenere l’Area X. Ma l’Area X, come tutte le Aree X del mondo, non è perimetrabile. Percola dai tetti, si insinua tra le fessure, viene fuori dai tagli, quasi che sotto il primo strato di epidermide, nel derma più profondo ci siano semi di Aree X in silenziosa attesa, pronti a germinare.
È interessante, poi, che dall’esterno l’Area X non venga rilevata né percepita. Ci dice Jeff VanderMeer che, sorvolando, mappando, percorrendo tutto il perimetro dell’Area X e spingendo lo sguardo oltre il confine invisibile, ciò che sta al di là sembra esattamente uguale a ciò che sta al di qua. Appare tutto in ordine, simile in ogni aspetto al mondo noto. Il Confine e l’Area X stessa non sono dunque oggetti visibili e tangibili, ma una condizione della mente e dello spirito. Ci vuole coraggio a varcare un confine e a guardare l’Area X dritta negli occhi. E per quanto le Aree X tracimino talvolta fuori dalle crepe, una percezione monca della realtà impedisce di vedere sia le crepe sia ciò che ne viene fuori e ci passeggia accanto ogni giorno. Rileggendo Il nero è un colore, questo passaggio colpisce particolarmente:
«Cerchiamo una stanza. In una pensione vecchiotta tenuta da una coppia di mummie in ciabatte ci viene chiesto, con uno sguardo scrutatore:
“Siete sposati? Se no è inutile registrarvi, qui”.
“Ma insomma”, risponde alla moglie il vecchio appoggiato sui suoi bastoni, “lo vedi da te, dato che hanno due figli”. […] Io sorrido in silenzio nell’ombra del corridoio. Non hanno visto che i bambini sono bianchi!» (G. Réal, Il nero è un colore, Keller 2019, p. 64).
Vi è qui una sorta di dissociazione dall’ambiente, dalle persone, da un fenomeno che è lì, sotto il naso dei gestori della pensione, ma rimane talmente estraneo e alieno alla realtà sperimentata fino a quel momento da non essere neppure percepito sensorialmente.
Il Washington Post intitola la recensione In Jeff VanderMeer’s ‘Dead Astronauts,’ time travelers try to rescue a ruined world. Il titolo è approssimativo, perché più che viaggiare su linee temporali diverse, gli astronauti si muovono su dimensioni alternative, universi alternativi, il multiverso. Sappiamo dai tre astronauti che ci sono altre città, che la Compagnia le ha costruite, ma non sappiamo perché. Sappiamo che il mondo si trova in una situazione di collasso ecologico ormai definitivo. Forse la Compagnia sta provando a fare un reboot del mondo.
Un’altra recensione su USA Today parla di prequel a Borne, e poi di seguito e si dice che gli astronauti viaggiano tra vari continuum. In un passaggio del romanzo, la parte in cui Chen, che è stato creato da Charlie X, combatte contro il suo doppelgänger, l’altro Chen riesce a far passare altri organismi da un universo all’altro, da una dimensione all’altra. Forse viaggiatori del tempo non è la definizione esatta per gli astronauti. Si potrebbe forse invece parlare di multiverso, alla Moorcock, ma in realtà si svolge tutto nella mente devastata – che vede qualcosa di cui non ha esperienza – della Volpe Blu. La Blue Fox è un prodigio inaspettato, che inizia a combattere contro altri esseri non senzienti e contro gli operativi della Compagnia inviati a contrastarla. D. A. rappresenta la prospettiva non umana della Volpe Blu, che di questo un romanzo è la vera protagonista. È una vittima di violenza e soffre di eccessi d’ira o di paura in situazioni apparentemente pacifiche. Chi è vittima di abusi, e dunque ha una mente sofferente, in questo caso non umana, vive in uno stato in cui passato, presente e futuro si intrecciano e si combinano. Rivive ancora e ancora l’estrema violenza subita. Sappiamo che Borne vuole mangiare la Volpe Blu, ma lei è il risultato di un cumulo di macerie, psicosi, assenza di esperienza nel mondo.
La Compagnia continua a mandare biotech operativi. Questa Compagnia è simile all’organizzazione dell’Area X. La Centrale prova di tutto, manipola, nasconde informazioni come la Compagnia. La realtà non risponde più agli stimoli. È un chiaro esempio di collasso cognitivo e alla Compagnia sperimentano soluzioni in un mondo che non riescono più a capire. La realtà di D. A. è collassata nel caos. In qualche modo la Compagnia e gli umani provano in ogni modo a sfruttare quello che hanno di nuovo. Tentano di afferrare qualcosa della nuova realtà. Vi è un monologo della Blue Fox in cui descrive le indicibili torture subite, ma il climax si raggiunge quando decide di cominciare a uccidere. È la scena in cui vede un pappagallo rinchiuso per sessant’anni. L’uomo è cattivo perché è stupido, non è necessario che eserciti violenza fisica, poiché anche un gesto stupido come tenere un pappagallo rinchiuso per sessant’anni rappresenta l’orrore. Gli abusi sono alla base dell’esistenza della Volpe Blu.
La Compagnia non pensava di fare del male. Ha la stessa posizione di superiorità morale, il porsi come salvatore del mondo che è un atteggiamento tipico del neoliberismo economico. VanderMeer ne parla in un’intervista su Esquire, dove sostiene che se avesse scritto D. A. vent’anni fa avrebbe descritto la Compagnia come qualcosa di più monolitico; ma il tardo-capitalismo è tentacolare, non circoscrivibile, e così è anche la Compagnia. Il sogno della Blue fox è una visione che non si può più controllare. Corrisponde all’ultimo stadio del capitalismo, in cui non esiste neppure più la merce in quanto prodotto definito, ma c’è solo eccesso di produzione e di pensiero. I paradigmi saltano e il pensiero umano non riesce ad adeguarsi a questa esplosione.
In D. A. abbiamo un caso di anti-imprinting. Se in Borne il rapporto fra Borne e Rachel è un classico caso di imprinting, in cui la creatura apprende per imitazione da una mamma adottiva, che in questo caso è Rachel, e per quanto disfunzionale possa essere il rapporto che si crea fra i due, esso funziona come un legame famigliare, in D. A. le creature provano avversione verso l’uomo, che è il nemico da annientare.
VanderMeer crea un complesso epico al di là degli stilemi classici dell’epica. Si dovrebbe discutere di cosa sia l’epica tradizionale per comprendere come Jeff VanderMeer riesca a portare il sapore, il senso dell’epica in D. A. Gli schemi dell’epica sono assolutamente inappetibili per la nostra cultura. Se ci mettiamo a leggere un poema epico oggi, non quelli studiati a scuola, ma certi poemi germanici, delle lingue romanze, abbiamo un senso di repulsione. È come mettersi ad ascoltare musica dodecafonica dopo il rock. VanderMeer crea un apparato di stile, forme che si ripetono, che rendono il procedere della narrazione epico, diverso dal nostro modo di intendere il romanzare lineare. Il modo in cui VanderMeer intercetta l’epicità consiste nel costruire una narrazione in cui la temporalità è affidata ai singoli personaggi. Ogni personaggio ha la propria temporalità, quindi non troviamo in D. A. una idea di tempo come quella che si produce attraverso l’intreccio e la narrazione tradizionale. Sono i personaggi a rendere il tempo complesso. La complessità narrativa deve intercettare così la complessità temporale. È lo stesso modo di procedere di Nolan, che fa esplodere la temporalità in più dimensioni. Inoltre, VanderMeer è un cosmografo, è portatore di cosmicità. Questo non è un ingrediente dell’epica, ma ha sempre a che fare con il tempo. Costruisce dimensioni cosmologiche alternative, personaggi del limite, di frontiera, portatori di una propria ontologia, un’ontologia multipla. Esseri che non stanno in una tassonomia fissa, ma che al contrario sono costruiti per smontare le tassonomie fisse. Questo modo di produrre narrazione a volte crea libri di difficile lettura, il cui obiettivo è costruire trappole destabilizzanti. La sensazione che se ne ricava è vicina alla dimensione epica. Ad esempio, la costruzione temporale di Gilgameš è completamente diversa rispetto alla nostra idea di tempo; è strutturata attraverso delle scelte formulari e di stile. VanderMeer questo problema lo ha incorporato nei suoi agenti. Vi è inoltre un gusto dell’orrifico che ricorda i graveyard poets, i poeti preromantici inglesi, e il loro piacere nel celebrare il cadavere, la morte, la decomposizione che si accompagna all’idea di collasso.
Si possono selezionare alcune immagini del testo che risultano particolarmente iconiche e che rendono l’idea di come un’opera come D. A. produca immaginario: la Blue Fox che decide di vendicarsi dopo la storia del pappagallo, la piana deserta dove svetta il palazzo della Compagnia è un elemento che ricorda l’atmosfera Western; l’immagine dell’anatra con l’ala rotta, la quale ricorda a Grayson che anche qualcosa di danneggiato può trovare un diverso utilizzo, nulla dovrebbe essere gettato via, e che ciò che appare come rotto potrebbe invece essere integro. Tutto ha una funzione, uno scopo. Questo pensiero contrasta con quello del neoliberismo, il cui imperativo è consumare poiché tutto si può sostituire e quindi non ha senso riparare gli oggetti.
VanderMeer è un grimaldello culturale. Proprio per le resistenze suscitate in Italia è un terreno molto fertile che invita a impostare un discorso sulla disgregazione dell’esistente e sull’emergere di forme inedite di rappresentazione di una realtà che si sgretola davanti al collasso del sistema neoliberista. La narrativa di Jeff VanderMeer è un campo su cui si combatte la guerra narratologica del presente. Un dettaglio periferico come la copertina di D. A., ad esempio, è qualcosa su cui riflettere, poiché anche il paratesto ci aiuta a raccogliere elementi per decifrare un’opera nella sua totalità. L’immagine sgargiante ci riporta a una concezione di diffrazione animistica che è il contrario dell’inner space e della psichedelia.
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Immagine di copertina:
stampa 3D di uno scheletro di pecora bighorn del deserto (Ovis canadensis nelsoni) dallo store online di Blueprint Earth