Il documentario The feminist on Cellblock Y, diretto e prodotto nel 2018 da Contessa Gayles, segue per vari mesi il workshop di auto-coscienza maschile “Success Stories”, gestito dal detenuto ventiduenne Richard Vargas, nel carcere di Soledad in California. In questi incontri decine di uomini reclusi trovano, forse per la prima volta in vita loro, uno spazio in cui è possibile esprimere la propria fragilità e dove si può dialogare sugli immaginari maschili patriarcali che hanno contribuito alla loro incarcerazione e a una vita piena di malessere e rimorso.
I workshop possiedono una struttura costituita da due elementi. Il primo è la teoria femminista, spiegata da un singolo individuo alla classe, come fosse una lezione universitaria, sfruttando al meglio possibile i pochissimi mezzi didattici a disposizione in carcere, ad esempio attaccando fogli al muro in assenza di una lavagna. Il secondo elemento è composto dal dialogo e dalla condivisione di esperienze, a volte più formalmente basati su esercizi da presentare davanti alla classe, altre volte più liberamente in discussioni tra gruppi, ragionando assieme sul passato e sulle motivazioni che le hanno rese le persone che sono. Il clima è spesso imprevedibile, passando dal dolore dei ricordi di violenze inferte e subite all’ilarità delle battute tra amici. È sicuramente questo l’elemento che più risalta in tutta la pellicola, che brilla di luce propria per la meraviglia con cui questi uomini (spesso delle classi sociali più povere per capitale economico e sociale) sono in grado di re-significare la propria vita. Qui emergono mille e più esperienze diverse, e mai positive. Il pubblico viene a conoscenza di svariati aspetti intimi di questi maschi, come la sofferenza di essere visti “diversi” alle elementari, poiché molto più bassi della media e con problemi neurologici; la frustrazione di essere in prigione assieme al proprio figlio; la confusione adolescenziale del mescolare l’essere rispettati con l’essere temuti; il dolore di perdere la propria famiglia a causa dell’alcolismo, e tanto altro. Ma non è solo il pubblico a scoprire il ruolo di queste esperienze: è la classe stessa che solo in quello spazio privo di giudizio diventa capace di guardare al proprio passato, e capire parti di sé per la prima volta, dando un nuovo significato a un insieme di eventi che, in un modo o nell’altro, hanno influito su tutti quegli uomini, in mille modi diversi. Queste esperienze sono però sempre legate da argomenti in comune: la difficoltà a vivere la propria fragilità, la paura di essere inferiori o diversi, e quel bisogno patriarcale di essere invulnerabili e rispettati.
«What’s important? My mum. Shit, my mama wasn’t out there important when I was firing that pistol. My ego was this important: You stepped on my ego, I’m feeling this type of way, BAM! I wasn’t thinking about moms, that’s B.S., you feel me?», spiega Mannie ai compagni, seguito da un basso in crescendo di volume che si interrompe di colpo, proprio quando Mannie imita il gesto di premere il grilletto di una pistola, in uno dei pochi momenti in cui regia e colonna sonora costruiscono del cinema.
È degna di nota la capacità registica (e politica) di non avvicinarsi mai all’appiattimento di questi uomini ai propri ruoli di “carcerati” o, peggio, di “criminali”, deumanizzandoli. Di loro si sa poco o nulla dei crimini compiuti, se non qualche accenno informale, forse involontario (ma mai tentando di celarlo), come il colpo sparato da una pistola, una rapina, o la fuga da persone pericolose, forse poliziotti, forse no. Nient’altro. In questo modo la regista rende ancora più fluida l’emersione dello stupore nel pubblico: questi non sono (solo) galeotti, ma uomini che hanno seguito imperativi patriarcali maschili, come tanti, ma lo hanno fatto in un ambiente più povero e violento di altri. O forse, più genericamente, solo composto da contingenze più sfortunate di altri.
Il documentario non brilla per immaginario artistico-poetico, avendo un taglio molto classico, quasi “televisivo” si potrebbe dire: non sperimenta, non rischia e non si permette di uscire dal percorso più ovvio. Eppure, il suo s/oggetto, questi incontri di decostruzione maschile in chiave femminista, è troppo prezioso per non rendere l’intera pellicola meritevole di una visione. Ovunque, in un periodo in cui finalmente “femminismo” è diventato un termine mainstream, ancora oggi troppo raramente si parla di “auto-consapevolezza maschile” o “decostruzione di immaginari maschili”. Questo perché spesso (non sempre!) siamo in grado di notare i problemi delle donne, ma non di responsabilizzare tutti gli uomini, come classe sociale.
L’impressione è di star visionando né un documentario fatto di stacchi, domande e risposte, né uno basato su un vero e proprio filo conduttore, se non quello, indiretto, degli scritti di bell hooks, dalle cui letture autonome Richard trae molti concetti teorici. La sua capacità di trasportare poi queste teorie alla realtà carceraria maschile Californiana, infatti, denota tutta la sua brillante sensibilità: «We probably never heard anybody saying “oh he objectifies women, therefore I feel like he’s a real man”. Nobody says that. But instead, we say, – “He’s a pimp, He’s a player, he got hoes, he got b1tches”. Same thing with violence. We might not say “Oh, he’s willing to be violent, therefore I respect his manhood” but what people might say is “he’s with it, he got hands, he’s down, he’s a good dude”», afferma in una lezione, parlando dell’oggettificazione delle donne e della violenza maschile. Al di là di questo, però, il documentario sembra piuttosto un insieme di dialoghi (se non monologhi) sorti spontaneamente, senza una precisa idea o domanda dietro, se non la gioia di parlare (e ascoltare) per la prima volte di queste emozioni. Il sentimento chiave di questi 75 minuti di riprese è, per questo, lo stupore, e la gioia energica che porta a seguire questo sentimento finché regala nuove scoperte, su di noi e sugli altri. Conoscersi per la prima volta, infatti, non può che spingere inesorabilmente a raccontarsi e a cercare un pubblico: fuori e dentro a queste lezioni, questi uomini sembrano spiritati dalla voglia di condividere ciò che stanno imparando su se stessi. Particolarmente significativi per questo aspetto sono gli occhi serafici di Roy Duran, quando si indigna in camera: «Men are superior to women? That’s ridicolous! I’m supposed to be the head of the house just because I’m a man? That makes no sense». Dietro quel “that makes no sense”, sputato con disprezzo come se fosse ovvietà (oggi, forse, lo è diventata per lui, ma non lo è per chiunque), si celano due interi mondi. Un primo mondo fatto di violenza patriarcale, ma anche un nuovo mondo, fatto di consapevolezza e rigetto di questi imperativi che non hanno portato nelle loro vite altro che insensata prevaricazione.
Benjamin sintetizza così questi workshop a cui partecipa regolarmente: «We all have a story basically, we all have pain, we all have a past, we all have stuff that we’re carrying around, we all have dark secrets that we don’t think anybody else is gonna understand. And as soon as we start talking about it, somebody else who doesn’t look like us or talk like us, gets it. And by opening up that unhealed wound, somebody else is getting freed too.». Perché The feminist on Cellblock Y non è solo la prova dell’utilità di pratiche femministe di autocoscienza per gli uomini, ma anche la commovente dimostrazione del potere del dialogo tra persone tanto diverse e tanto simili. Conoscere gli altri per conoscere sé e liberarsi dalle catene delle imposizioni sociali. «La libertà comincia quando si conoscono i fattori che la limitano», ha scritto Boschetti. «Facendo emergere il sociale in noi, ci dà gli strumenti per tentare di sorvegliarlo e di conquistare il piccolo margine di manovra che ci è concesso per diventare qualcosa di simile ad un soggetto» (A. Boschetti, Postfazione a P. Bourdieu, Questa non è un’autobiografia, 2005, pp. 120-121).
Complessivamente, questo mosaico di esperienze violente diventa un toccante spaccato di una parte della società che abbiamo cercato di rimuovere, dimenticare, relegata dietro le sbarre di una prigione. Mettere in dubbio l’utilità del carcere è ancora oggi un tabù, anche a sinistra, così come è tabù parlare del loro passato, delle ingiustizie sistematiche che hanno contribuito ad una vita contro la legge: non bisogna più parlarne perché non sono come noi, non sono più completamenti umani, coloro che stanno in carcere, in quanto cittadini e cittadine di serie b.
Il documentario si conclude con l’uscita dalla prigione di Richard Vargas, in procinto di scontare il resto della pena in un carcere di sicurezza inferiore, ma Success Stories non termina lì: il programma ha già trovato Roy, l’ormai ex compagno, pronto a prendere in mano questi workshop. L’energia micro/rivoluzionaria di questi dialoghi maschili non si esaurisce cambiando il volto di chi li dirige: gli uomini hanno bisogno di parlare della propria fragilità, ancor più quando violenti. Considerando il numero esorbitante di uomini dietro le sbarre statunitensi, questi seminari continueranno a fare del bene per ancora molto tempo, anche se verrebbe da chiedersi: malgrado la necessità di ragionare su sé e sui propri ideali maschili, quando avremo la fortuna di vedere sulla CNN un documentario sulle ragioni materiali, di povertà economica e sociale, che portano così tanti giovani uomini sulla strada della criminalità? Se abbiamo superato l’ottocentesca credenza per cui la società fa da sola l’individuo, quando supereremo l’idea che i problemi comunitari debbano essere risolti solo agendo a livello individuale, e tratteremo società ed esseri umani allo stesso livello, in continua interazione reciproca? Domande forse troppo pesanti e rivoluzionarie per un pur pregevole documentario televisivo, che inevitabilmente subisce l’influenza del tempo in cui è stato pensato; un tempo che, si sa, riduce ogni fenomeno a livello individuale.
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Immagine di copertina:
Contessa Gayles, The feminist on Cellblock Y, 2018