«Giro per la prima volta nel nuovo reparto psichiatrico: hanno dimenticato le stanze per i colloqui. […] Sarò pure giovane, ma sono sicuro: per i colloqui, mi serve la stanza per i colloqui, perdio».
Così scrive Paolo Milone nella prima pagina del suo libro, L’arte di legare le persone (Einaudi, 2021, pp. 191), si descrive come quello psichiatra che vuole dare dignità alla persona malata, ci vuole parlare e vuole fargli spazio, letteralmente, adibendo una stanza per i colloqui. È così che nelle prime nove pagine – già dalla decima cade la maschera – questo testo rischia di sedurti proprio nel senso etimologico del termine, ossia rischia di portarti a sé perché descrive un giovane psichiatra che si aggira per l’Istituzione ospedale, nel nuovo reparto psichiatrico, cercando uno spazio adeguato in cui poter parlare con la persona malata, che porta avanti una pratica clinica diversa e umana: «Quando ero un giovane psichiatra alla Salute Mentale, si stupivano se mi chiudevo in una stanza a parlare con un paziente. In manicomio non si usava […]» (pag. 8).
Ma io sono diffidente per natura e mi domando “dov’è la fregatura?”
Continuo a leggere, giro pagina e arrivo alla dieci:
«[…] scoprirti le braccia e poi, aiutato da due infermieri, il corpo acerbo, mentre tu scalci e sputi, offesa. Hai trenta tagli freschi di oggi, alcuni profondi. Ma sei cretina? Ti urlo in faccia. […] Ti ricovero, ti dico. Non voglio. Ti faccio il Tso. Basta chiedere un permesso in Comune e avvisare il giudice tutelare: un’ora e sei nella rete, pesciolino» (pag. 10).
L’avevo detto che alla decima pagina cade la maschera: questo libro incarna il “fascino discreto del manicomio” e in queste pagine Milone traccia il profilo del perfetto legatore, la cui prima caratteristica è proprio il tentativo di condurre a sé.
Si apre una lettura molto pesante e noiosa, composta da questi frammenti molto brevi e superficiali che mozzano di netto il vissuto emotivo delle vicende, spesso profondamente drammatiche, che descrivono.
Questi due elementi mi paiono rilevanti nel ritratto del perfetto legatore: processa tutto in maniera cognitiva e frammentata, appunto. Non gli è possibile costruire una narrazione complessa che integri anche le parti affettive ed emotive: questo, come dicevo, è evidente nella struttura stessa del libro. In linea con quanto appena detto, ogni persona, ogni paziente rappresentato nel libro ha, sì, un nome proprio ma viene ridotto a un’accozzaglia di comportamenti/sintomi che fanno capo a una diagnosi. Ci sono diversi punti del libro in cui l’autore traccia dei ritratti comportamentali in base alla diagnosi di appartenenza: i depressi sono così; gli euforici cosà, gli schizofrenici, gli agitati ecc. Tutto è segno, indizio che fa capo all’inquadramento diagnostico: gli occhiali con cui Milone osserva e descrive il mondo sono quelli delle liste dei sintomi del DSM. Il mondo che vede non può che essere fatto di diagnosi e non di persone; di sintomi e non di bisogni; di checklist e non di pensiero e di relazione, il che porta, inevitabilmente, all’uso della forza “per il tuo (quello del paziente) bene”. È una realtà piatta, come la narrazione di questo testo, dove tutto è uguale per tutti: la depressione è uguale per tutti i depressi; la nevrosi per tutti i nevrotici; la psicosi per tutti gli psicotici, ecc.
Non esiste la componente soggettiva legata all’individualità della persona che è unica e irripetibile, anche nella sua sofferenza.
«Io seguo più pazienti che posso, per non affezionarmi troppo a nessuno» (pag. 116), scrive Milone.
Del resto, penso che sia più facile usare la forza, la contenzione – chimica meccanica che sia – contro una diagnosi fredda e impersonale piuttosto che su Laura, Enrico, Giada di cui conosco la storia di vita, le mancanze, i dolori, le gioie e che magari carezzano i miei vissuti personali sviluppando una profonda vicinanza relazionale. A quel punto sarebbe quasi come contenere al letto se stessi, un paradosso: «A conoscere qualcuno, si hanno dei doveri. Meglio non conoscere nessuno» (pag. 103).
Milone si vanta:
«Sono andato a un seminario sulle contenzioni, c’è un collega che insegna come farle. En passant dice quante contenzioni ha fatto nella sua vita: sono quante ne faccio io in un anno» (pag. 155).
Verso la fine del libro, la maschera cade ulteriormente e si svela il vero volto dell’autore, Milone non fa segreto della facilità con cui è ricorso a TSO e contenzione nella sua pratica clinica, ma poi fa anche di peggio e cioè cerca di promuovere il suo operato – ecco che torna il tema del se-ducere.
Quello che, ovviamente – per le ragioni suddette –, non riesce a fare Milone è descriverci il vissuto di una persona sofferente che si ritrova braccata e poi legata al letto. Non ci riesce, povero Milone, nonostante abbia così tanti anni di lavoro alle spalle, ancora non sa dire quali conseguenze emotive possano aver avuto le sue azioni. Non la può sentire la violenza che ha agito sui suoi pazienti e, forse, proprio questo lo salva, ma questo non ha purtroppo dato scampo alle persone che lo hanno incontrato in reparto.
«Essere legati da qualcuno a un letto è un’esperienza orribile. È una sorta di stupro. Inizia con un gruppo di infermieri che ti circonda, e in un attimo ti ritrovi afferrata dalle loro mani, con le voci che si fanno sempre più concitate: “Prendile le gambe!”, “Stai ferma!”, “Bloccala!” Poi un braccio ti si stringe attorno al collo, e più ti divincoli più la presa si fa stretta: “E stai buona, stai buona!” Quando abbandoni la lotta, la presa si allenta. Poi vieni portata sul letto come fossi un pezzo di carne da macello, i polsi e le caviglie ti vengono bloccati dalle fascette al fondo e ai lati della struttura. […] A volte mi addormentavo per qualche ora, mi risvegliavo, e se mi scappava la pipì o la cacca dovevo gridare di nuovo perché venissero a calarmi i pantaloni. Poi mi mettevano la padella sotto al sedere, oppure un pannolone. Avevo vent’anni e mi ritrovavo legata a un letto mani e piedi senza sapere per quanto tempo ancora sarei rimasta lì, con addosso un pannolino gigante pieno di piscio e merda. Ecco: questa è la contenzione. […] Quando venivo legata, e poi slegata, io mi sentivo senza speranza, senza futuro. Sentivo l’ingiustizia di ciò che mi accadeva, del mio stare male e del modo in cui venivo trattata. Maturavo una rabbia e un odio incredibili, e mi sentivo in guerra non più con la mia malattia, ma con l’ospedale intero. Legandomi speravano di domare la mia rabbia che invece così diventava un mostro ancora più enorme» (pag. 25). Racconta Alice Banfi in Slegalo! Usi e abusi della psichiatria.
Non credete a chi, come Milone, vi racconta che legare le persone è necessario, che se lo meritano perché sono agitati, perché spaccano tutto, perché perché. Non credetegli. Non credetegli quando scrive che “a volte sono loro a chiederlo”.
Non credetegli.
Domandatevi perché una persona arriva a distruggere un reparto di ospedale, una comunità ecc., e non datevi sempre la risposta più banale che solitamente coincide con la diagnosi che hanno appicciato su quella persona. Proviamo a rendere la dignità alle persone e la narrazione dei fatti complessa.
Ho visto persone in comunità terapeutiche/riabilitative essere ripetutamente ignorate quando chiedevano ascolto e attenzione. Ho visto queste stesse persone reagire con gli unici strumenti che hanno sempre avuto a disposizione per tentare disperatamente di gestire i loro vissuti emotivi e quindi, sì, distruggere la comunità e/o fare male a sé stessi e/o fare del male agli altri.
Ma non è mancato qualcosa prima, da parte dei curanti, dell’esplosione?
Eppure, non ci si fa questa domanda perché la posizione epistemologica del perfetto legatore si basa su una netta separazione di ruoli: psichiatra, in postazione di comando con tutte le risposte e nessun dubbio; paziente, con diagnosi e relativi sintomi pronti a spiegare qualsiasi evento.
Infatti, una volta legato il paziente: «Quindi si ricostruisce l’accaduto. Insultando benevolmente il paziente, e tutti i suoi parenti sino al sesto grado, si ringraziano i bravi [legatori] e i coraggiosi e si criticano con affetto i pasticcioni» (pag. 147).
Il perfetto legatore è colui che utilizza la «rapida, virile e chiara contenzione» per dare prova della sua forza e della sua superiorità, nonché forse – visto l’aggettivo virile che Milone ritiene opportuno sottolineare – la propria mascolinità, tossica – a tal proposito evito di citare i commenti grassofobi sul corpo femminile di cui il libro è intriso.
Continuando nel suo disperato tentativo di sostanziare la pratica della contenzione, Milone si avvale di un’analogia, quantomeno distorta, tra questa pratica violenta e l’abbraccio della madre che “contiene”. Appare ancora più evidente e profonda la confusione emotiva di Milone che non riesce a distinguere la violenza e l’arbitrio della contenzione dall’affetto delicato e consensuale dell’abbraccio.
Fortunatamente, non tutti gli psichiatri e non tutta la psichiatria usano questo approccio. Parafrasando Basaglia, voglio concludere dicendo che è stato dimostrato che un modo diverso di curare le persone è possibile.
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Immagine di copertina:
illustrazione di Nives Manara a sostegno della campagna “…E tu slegalo subito”, settima edizione del Festival dei Matti, Venezia 13-15 maggio 2016.