«La città sull’albero era un insieme di case, strade, edifici, fibre e filamenti, tutti coesistenti nel medesimo istante e nel medesimo spazio. Certo, la dimensione di tale spazio era estesa, ma tutta raccolta in un unico involucro, un unico insieme. Su una cartina dalle giuste proporzioni l’albero sarebbe stato un punto: perché, allora, era necessario interagire fisicamente con il tempo e lo spazio per muoversi al suo interno?» (p. 87)

Non tutto il male di Andrea Cassini (Effequ, 2021) è ambientato sulla chioma di un enorme albero. Qui è stata costruita una città, Tula. Fin dall’inizio sappiamo che l’albero è malato, e questa sua condizione è, agli occhi del lettore, un simbolo della natura sofferente. Il tempo del racconto è quello del mito, dove tutto è indefinito, ma si percepisce un’atmosfera apocalittica.

Andrea Cassini, Non tutto il male, copertina

Nel tentativo di guarire la malattia dell’albero, il Governatore che presidia la città ordina, novello Nerone, di appiccare un incendio purificatore e di eseguire dei sacrifici umani. Le vittime sono individui considerati impuri. In questo mondo che sta crollando dove il lettore è stato gettato, si scopre che le strade di Tula sono infestate dai fantasmi: ciascuno di questi si lega a un essere umano, assumendo la forma dei suoi traumi e sentimenti più intimi. Solo Zero, il protagonista, e il Cartografo che lo accompagna non hanno un fantasma: questa loro condizione desta più di un sospetto, e fa sì che il Governatore ne ordini la cattura per gettarli nel fuoco purificatore. Zero, che lavorava in un’industria di conservazione delle carni, gestisce un forum online per aspiranti suicidi, che lo contattano sia per la composizione dei preparati chimici necessari a condurli verso una morte dolce, sia per scrivere loro dei biglietti di commiato.

La condizione di alienazione subita dagli abitanti di Tula ha come conseguenza che il tasso di suicidi in città sia elevatissimo, al punto che esiste una squadra apposita per la rimozione dei cadaveri di coloro che si gettano dai palazzi e dagli edifici più alti.

Zero, grazie alla scrittura dei messaggi di commiato, comprende a fondo le motivazioni che inducono i suoi concittadini al gesto estremo, e capisce come le persone si amano così tanto da voler smettere di provare dolore. Non c’è un motivo condiviso per togliersi la vita, né un motivo giusto e uno sbagliato, in ogni caso è una risposta a un dolore che ha un’unica radice, e che è strettamente legato all’amore. Questo dolore totalizzante e irredimibile è il leitmotiv di tutto il libro.

Il Cartografo si pone nei confronti di Zero come un novello Virgilio, che guida il compagno nel tentativo di rispondere ai numerosi dubbi derivanti dal vivere in un mondo totalmente snaturato, lontano dall’uomo e dalla sua sensibilità, un mondo alienante frutto di aberrazioni e violenze continue.

«Tutti pensano a non causare dolore a sé stessi, qualcuno pensa anche a non causare dolore agli altri, ma nessuno pensa a eliminare la ragione stessa del dolore» (p. 93).

Questa frase è ricorrente nel romanzo, ed è pronunciata dal Cartografo, durante la loro ricerca della natura e delle cause più profonde del malessere che attanaglia gli abitanti di Tula.

L’atmosfera dantesca di cui è permeata l’opera rimanda a scene infernali e a diverse forme di contrappasso, principalmente attraverso due elementi: il fuoco dell’incendio perenne dell’albero e della città di Tula, e l’acqua, che però non viene presentata come antagonista del fuoco ma come ulteriore elemento di morte. Ecco un esempio di questo ambiente infernale:

«I fantasmi stavano migrando dall’altra parte, stretti fra le sette fessure, vedevo soltanto le code degli ultimi della fila che guizzavano per darsi la spinta. Giù nel catino, i corpi di uomini e donne affioravano sulla superficie, gambe incastrate sulle braccia e teste incassate sui petti, poi iniziavano ad affondare un po’ per volta, a grappoli, i cadaveri trascinati sul fondo dai polmoni pieni d’acqua» (p. 108).

Il numero sette compare simbolicamente negli incubi del protagonista più e più volte. Sette sono infatti le parti in cui i corpi delle persone uccise in sogno vengono smembrati, settecentosettantasette gli strati di pelle da scorticare e strappare, sette le linee del glifo di ghiaccio, il portale spazio-temporale che si apre subito dopo il suicidio dei clienti di Zero.

scorticavo e strappavo e sfogliavo i suoi settecentosettantasette strati di pelle, lo svisceravo, lo tranciavo in sette parti, la testa, le due braccia, le due gambe, il tronco, il sesso, maschile, le lanciavo in aria e lasciavo che il vento le trasportasse in sette direzioni diverse» (p. 113).

La rappresentazione del tempo specifica del romanzo fa sì che da un lato i personaggi si muovano in un tempo formalmente lineare e continuo, dall’altro la percezione del lettore è quella di un’apparente immobilità che deriva dalla ripetizione al limite dell’ossessivo di incubi e situazioni. Inoltre, la scelta del tempo imperfetto conferisce un’impronta straniante alla narrazione, gettando il lettore in un limbo temporale che lo allontana dal già accaduto e che dà la sensazione di un perpetuo protrarsi dell’azione, e che non concede requie.

La parte descrittiva del testo è dettagliata e resa con grande accuratezza, ogni parola è soppesata e armonica e ciò risulta in una musicalità di sottofondo alla narrazione.

Scorrendo le pagine di Non tutto il male il lettore intraprende un viaggio dai contorni onirici che si dipana in un dedalo di suggestioni al crocevia fra l’angoscia e lo straniamento. La sensazione è quella che la morte volontaria sia un processo di auto-purificazione, di catarsi, e che il congedo finale, anche attraverso il forum di discussione sui social gestito da Zero, costituisca una sorta di sdoganamento del tabù della morte. Tula è costretta continuamente a fare i conti con la morte e il dolore, e la reazione a questa angosciante condizione è una sorta di rito funebre collettivo. Questo contesto in cui Tula è immersa porta i suoi abitanti a interrogarsi continuamente sul significato profondo della vita e sul suo valore. I personaggi, infatti, non fanno altro che cercarlo, dando corpo ai fantasmi che normalmente sono invisibili, e portando in primo piano le tenebre in contrasto con la luce delle fiamme. In un certo senso si disperdono anche le illusioni e i personaggi sono costretti ad affrontare di continuo tali tenebre e i loro fantasmi. Non vi è una gerarchia morale che indichi una via per muoversi nell’oscurità, e vi è certamente una nota nichilista nella considerazione che la vita potrebbe non avere un significato profondo o avere un significato detestabile. Il senso dell’esistenza che traspare dalla visione della vita propria degli abitanti di Tula è vicino alla radice nobile del pessimismo, che invita comunque alla riflessione, all’azione e all’amore attraverso l’accettazione del dolore. All’autore pare stia a cuore soprattutto esplorare le zone buie, senza doverle per forza illuminare. Tutti questi aspetti sono affini a quanto Cassini ha scritto insieme a Claudio Kulesko in Blackened, (Aguaplano, 2021, qui una recensione), una raccolta di scritti che mappa il pessimismo contemporaneo nelle sue molteplici e spesso inaspettate manifestazioni.

«Idiota. Ragioni al contrario come il Questore, te l’ho già detto. Tu pensi questo: poverini, li capisco, vivono in un mondo così brutto, è colpa dell’incendio, dei fantasmi… e invece il mondo è brutto esattamente perché esiste gente che vuole uccidersi. Ti dirò di più: finché esisterà un singolo uomo che voglia uccidersi, questa terra sarà il più indesiderabile dei luoghi» (p. 160).

Il Cartografo con queste parole formula una tautologia che sta alla base di tutta la filosofia del racconto: la gente si uccide perché vive male a Tula o a Tula si vive male perché la gente vuole morire? Il desiderio di morte può essere un morbo che si propaga esattamente come le fiamme dell’incendio perpetuo, una gigantesca egregora? Pensando a Mark Fisher o a Byung Chul Han, si vuole evidenziare il fatto che un problema come la depressione sia una malattia sociale, collettiva più che individuale e si vuole riconoscere quelli che vengono ritenuti parassiti da bruciare come qualcosa che fa parte integrante di questa stessa natura/albero/città da salvaguardare. Laddove non si può più evitare la caduta nel baratro, quello che fa Zero forse serve anche a capire chi e cosa si può salvare.

È necessario dunque interrogarsi anche sul senso di colpa per quello che accade a noi e al mondo, su come questo senso di colpa passi da individuale a collettivo e viceversa, su come opprima l’umanità. Il Questore, Zero e il Cartografo danno tre letture diverse di cosa stia accadendo alla città e ognuno di loro cerca di trovare una diversa soluzione, ma tutte vertono sul tentativo disperato di trovare una guarigione e una soluzione alla malattia che ha colpito l’albero.

Tula, più che un luogo reale, appare come una sorta di Bardo, la condizione intermedia dell’esistenza, il processo che inizia quando la persona è in punto di morte, nel momento in cui la coscienza viene separata dal corpo. A Tula i morti viventi cercano solamente di accelerare la propria dipartita. Gli abitanti vivono infatti una condizione analoga a quella di uno zombie, legati a un fantasma come con un palloncino, in una condizione insopportabilmente dolorosa e straniante.

Il romanzo di Cassini vorrebbe indicare un cammino per acquisire una maggior consapevolezza, mostrando gli innumerevoli rischi di una deriva dell’umanità sempre più assuefatta a ogni tipo di aberrazione e violenza.

Non tutto il male riflette a un livello profondo sull’idea che salvaguardare la natura sia la priorità assoluta in questo momento storico, in quanto gli uomini in nome del progresso e del consumismo stanno condannando sé stessi a morte sicura, correndo come un gregge impazzito verso il baratro.

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Immagine di copertina:
Vincent van Gogh, Gelso, 1889, olio su tela (particolare), Norton Simon Museum, Pasadena.