(Cormac McCarthy, The Road)
È il 15 ottobre 2021, fa caldo. Chiedi la differenza tra tempo e clima. Racconta una storia dell’orrore, subito: c’è un’apocalisse in cui continui a pagare il mutuo. Ci pensa su, continua a camminare. L’auto più diffusa nelle vie intorno sembra essere la Porsche Panamera Sport Turismo Ibrida, tecnologia di passaggio, 80 litri nel serbatoio, 3 chilometri al litro, station wagon, pochissime fermate per far rifornimento. Forse i ricchi, alcuni, vorrebbero non essere mai costretti a fare il pieno, quella macchina è la loro migliore chance al momento, un compromesso con la termodinamica. Guarda le macchine perché sono un segmento del paesaggio possibile più veloce, hanno meno inerzia dei palazzi, della Galleria, cambiano, segni del cambiamento. Ancora, altro. Telecamere ovunque, le telecamere sono inutili, non ci sono abbastanza occhi per tutti quegli schermi. Camminando la quantità di negozi, punti luce di pregio chiusi diventano una moltitudine. Vetrine bloccate da compensato nero, luci accese forse per l’illusione del movimento. Gli altri, quelli aperti, sono vuoti ad eccezione di commessi e addetti alla sicurezza che ogni tanto guardano fuori. Il tempo dei contratti garantiti, delle fidejussioni. L’osservazione è inutile, il controllo è impossibile, il cacciatore di segni è un illuso. Pensa, i marchi del lusso devono essere nelle mani di pochi, winner takes all, l’Estremistan, Taleb. Nessun cliente in giro, autisti dormono dentro Mercedes in leasing con l’aria condizionata accesa, l’orologio biologico regolato sullo spremere le batterie ma non del tutto. Forse è l’ora sbagliata, i clienti arriveranno o sono già andati e tornati, forse l’unico modo per non cadere è diventare troppo grandi, trasferire il rischio, imparare dalle crisi bancarie, ghiaccio sottile solo a tratti e solo per alcuni. Kind attraversa adesso via delle Spiga, è in anticipo di due ore alla cena, capisce una frase di Cormac McCarthy solo adesso. Una coppia giovane, probabilmente bella, attraversa la via su un Suv raro e veloce: lui, un cenno di barba studiata, fa rombare il motore, lei porta in braccio un cane minuscolo, bionda, un qualche intervento alle labbra forse riuscito. La coppia sull’auto sportiva si allontana, sono un attentato al confine tra realtà e fiction. Devono essere un futuro, adesso. Un altro è poco lontano, di fronte al Duomo: una ventina di persone sedute a terra, in cerchio, al centro della piazza. Alla fine della strada altre Porsche, altri negozi chiusi. Continua a cercare un ristorante, deve essere uno bello, tipico, la roba che piace a Makhno. Un tavolo all’ultimo momento, un buon tavolo in centro a Milano, di venerdì. Chiama, è un posto appena dietro la Scala, teme che gli rispondano ridendo e ridendo, una risata di gusto, isterica, di quelle che si scatenano contro chi è fuori dal mondo. Ecco, se il tipo al telefono rispondesse così sarebbe una seconda ferita al tessuto della realtà. Prima storia dell’orrore: una pandemia volge verso la fine, è il momento di tornare nel mondo reale, uscire, riprende contatto con la realtà, il buon vecchio normale sta tornando e un personaggio esce, va nella città che non è fragile, vede una coppia che sembra uscita da uno scrittore moralista perché povero e poi, subito dopo, è in American Psycho, a farsi sbeffeggiare per un tavolo impossibile in un ristorante all’inizio del weekend. La donna dall’altra parte del telefono dice che un tavolo c’è, nessun problema, a più tardi. Seconda storia: raccolto del grano in Canada disastroso, il disastro è misurabile, l’orrore è dire, dirsi, siccità e, lentamente, giubbe rosse, neve, vecchie scuole di provincia con giardini verdi in cui sono stati seppelliti centinaia di bambini indigeni, Canada. È l’Antropocene, baby. Anche Makhno è in anticipo. Vestito di nero, le scarpe da trekking, il braccialetto paracord, nessun orologio, non ha ancora il dono dell’invisibilità.
-Allora, c’è questo film che devo vedere ma è introvabile. Nessuno streaming, nessun calendario d’uscita, niente torrent, niente.
-Ok.
Camminano, lungo un marciapiede che per qualche motivo dovrebbe essere affollato. “Ti do le coordinate. Una blanda epidemia finisce, il virus muta, alcuni, presumo un percentile degli infetti della prima ondata, si trasformano in pazzi assassini violentatori”.
-Ok.
-All’improvviso. Nessun contenimento possibile, human security system annientato in ore.
Ok, dice annoiato Makhno. È gentile, quindi non esclama un “e?”.
– Surprise first strike, vero cigno nero. Ambientato a Taiwan – dice Kind. Senti, Makhno lo stress, gli aerei che entrano nello spazio aereo, le difese costiere, la difficoltà di un’operazione anfibia, l’ansia di gruppo.
-Ah, è un rischio. Pareidolia da collasso. Abbiamo un ristorante?, aggiunge, elabora, nasconde il pensiero fino all’ultimo.
Da quella parte, trecento metri.
Fuori dal finestrino del treno c’è un’aria gialla, come polvere di grano, non la farina, la pula – è la stessa radice di polvere? – come se il regalo che il Neolitico ha sparato dieci millenni fa nel cervello della gente e nel pianeta dei Sapiens fosse questo, la materia del pane e l’antimateria del deserto, ormai non coltivabile. L’aria è gialla, come un filtro sui campi disabitati in una delle prime puntate di The Walking Dead, ma nei campi padani ci sono solo macchine e cavalcavia e casali in cui non si ammazzano più i maiali e l’albero degli zoccoli cresce come un grosso cespuglio incolto. Odio andare a Milano. I Saloni, adesso anche quello del libro, migrato nel cuore stanco di un neoliberismo sostenibile nell’ultimo polo nazionale del debito cronico, i bar senz’anima dei cornetti alla fretta, le micropolveri ovunque, anche tra le rughe dei ragazzi con la testa piantata come una biglia glauca nella palpebra del cappuccio. Perché sono su questo treno postatomico che sa di cipolla umana e che sta entrando in città come una sonda gastrica? Perché Kind mi ha convocato in una trattoria vecchi tempi che crede che mi piaccia, invece di essere già in qualche casale da riadattare agli scenari antropocenici di un qualche collasso già immaginato? Scendo dal treno. Linea 1. Punto di incontro. La barba di Kind sembra pettinata da uno schiaffo notturno, mi comincia a parlare di uno dei suoi film del cazzo che poi se mi sforzo di guardarli, ok va bene, avevi ragione, andava visto, e mi dice che ha trovato un posto che mi piacerà e che io penso che al massimo c’è del vino buono che aggiusterà ogni cosa, anche il conto. Ci sediamo a tavola. Il posto sembra onesto, ma tutto è anche la farsa di un altrove nel tempo e nello spazio. Come se qualcosa covasse sotto il pavimento, una catacomba di polli e cinghiali e mostri archeani divoratori di specie estinte. Oppure dei sicari. Ordiniamo. Salto la pasta e vado alla trippa. Di che colore era il pelo di questo manzo? Quanta paura ha avuto, quante tossine del terrore ha iniettato nei suoi muscoli prima di crepare? Oggi però sono le patate arrosto di Kind che mi fanno orrore. Pallide come pergamena sciacquata da un’alluvione, gli inchiostri delle parole filtrati dalle branchie dei pesci, le biblioteche bizantine rotolate nelle correnti di una piena di uomini cose bestie che si affrettano sul bordo della terra piatta, per vaporizzarsi nel vuoto come una cascata abortita. La trippa è buona, cremosa di suo, non adulterata da qualche addensante sornione, sembra un romanzo di Siti, e il vino – un Valtellina superiore a qualcosa – sa di Zanzotto, e tutto per qualche attimo mi fa credere di essere davvero in qualche posto del Novecento. Ma è il 15 ottobre 2021 e il tempo che ci separa dal Ye Olde Italia è un abisso. Lo penso. Lo dico. Ce lo diciamo. Parliamo. E in quel momento entrano i cani. Per un attimo si potrebbero scambiare per cani immaginati. Un vecchio amico, entrato in demenza senile, vedeva bestie che lo attaccavano. Lui sussultava sulla sedia, la moglie lo rassicurava, tutto era come prima, il salotto, il divano, la TV, ma per lui c’erano le bestie in casa, c’era la muta deleuziana che lo mordeva fino a trasformarlo in un incubo tricofobico. Ma no, non adesso. Adesso i cani sono veri e, come cavalieri pallidi entrati dalla porta girevole della vecchia trattoria milanese, sono qui per chiedere a ciascuno una libbra di carne, altrimenti non se ne vanno. Così Kind mi spinge con un calcio giù dalla seggiola, mi spinge a due mani verso la cucina, mi spinge gridando go go go tra cuochi e camerieri in trance e mi fa uscire sul vicolo come in un grosso guaio a – dove siamo? In quale guaio ci siamo ficcati a parlare di collasso prima del tempo, a caricare i mulini a vento della Grande Negazione Nazionale? E dove sono i cani?
Abbiamo il tavolo d’angolo, in fondo alla sala, accanto il corridoio per i bagni, la cucina. “I cani sono meglio delle zecche”. Kind si aspettava un attacco di zecche, avventori eleganti che in onde crollano sulle proprie gambe, posate che si abbattono a terra, l’imbarazzo poi il panico. Makhno vede un’apocalisse delle zecche, dalla campagna si spostano alle città, zecche che si riproducono come macchine di Von Neumann e noi fottuti, nessun ricordo ancestrale, skill perdute, per evitarle. Un’epidemia da zecche pensa scoppi in Texas anche nell’ultimo romanzo di Richard Powers. Gli indigeni sapevano quali campi evitare, a quale ora non muoversi, incendi controllati. Noi no. “Pensavo avresti fatto entrare le zecche”, dice Kind a Makhno e quell’orribile piatto di frattaglie. C’è un altro film, italiano, con i comici, le star del cinema comico italiano. Sono a un corso di sopravvivenza, qualcosa del genere, anni ’80, uno degli sceneggiatori doveva essere andato in America. Ricorda l’istruttore nel film come un giovane serio, in forma, tranquillo. Trova adesso un istruttore di tecniche di sopravvivenza nella natura, la wilderness di Makhno, che non sia un po’ fascista, dall’aspetto, dal tono. L’istruttore nel film fa mangiare agli scemi ma divertenti dalla città proprio la trippa, in scatola, durata sullo scaffale almeno un milione di anni. La trippa resiste, il mio filetto no. Fai la foto del filetto, posta la fragilità del sistema. Kind guarda il cellulare, Google alert. “Un tipo, in Norvegia. Morti, molti feriti”. Makhno guarda, adesso, interessato. “Arco e frecce”. Makhno annuisce. I cani sono facili, il giovane cuoco guarda i due vestiti di nero entrare in cucina, senza correre, decisi. Uno apre la porta, l’altro afferra una bottiglia di ammoniaca che svuota dietro di sé. La porta si chiude, lasciando dietro la sinfonia del terrore. “Aumentiamo la difficoltà”.
Un grosso Suv, probabilmente coreano, verde scemo, preso in concessionaria con un ottimo sconto, si ferma di fronte il ristorante, dove non potrebbe. Scendono, scimmiottano un controllo della strada, in tre, si fermano un attimo, dilettanti, incrociano e bloccano le direttive d’entrata. Nell’area tra l’arco e il dehors, il proprietario del ristorante li ferma, appena pochi secondi. Scarpe da running colorate, jeans strappati. Uno potrebbe tirare fuori un distintivo. “Sono qui per te, Makhno”, dice Kind, li vede. Un distintivo potrebbe essere vero e falso. Una pistola, gli altri con scacciacani, un manganello telescopico, spray urticante. Solo alcuni clienti guardano i tipi muoversi a tentoni tra i tavoli, gli altri si concentrano su piatti ormai quasi vuoti. “Sei Sarah Everard, hai una situational awarness di gran livello. Un uomo senza divisa vuole arrestarti, è un poliziotto ma non è un poliziotto. Sei un professore universitario in Cile. Sei a Milano e tra pochi secondi ti chiederanno di seguirli fuori”, dice Kind. “Il tempismo è tutto”, risponde Makhno. Lo vede svuotare la bottiglia di Pinot grigio nel decanter. Makhno ha buona mira, nessuno riesce a non chiudere gli occhi con un liquido che gli arriva addosso”. Raccontami il collasso di Gondor, Makhno. La storia della gara a costruirsi la tomba, il mausoleo più bello”.
La famiglia è un cappio al collo con il tuo cuore legato al capo opposto della corda. Non puoi fare nemmeno un decimo delle cose che potresti fare per fuggire, per metterti al sicuro. Hai quest’appendice di carne attraversata da reticoli di capillari sensibili che fanno del tuo zaino da prepper una comica domestica. E tu giochi a fare lo sciocco, il padre sciocco, il compagno sciocco, quello delle visioni senza possibilità e destino, perché per il momento ci hai preso solo nei dettagli, il cigno nero è volato via come una ballerina anoressica. Gondor. Ogni impero crolla, con o senza l’Anello. Ma che ne sanno nella locanda delle botti e dello stufato di coniglio? E a chi importa in realtà se non a chi si trova schiacciato, anche adesso, nella cerniera tra negazione e trauma? Gli imperi crollano perché allo specchio non si vedono più come imperi, si vedono come qualcos’altro, e proprio il qualcos’altro è la cosa più difficile da perimetrare, da decifrare, peggio della Lineare B per gli scrutatori dei collassi del bronzo. Il nostro qualcos’altro è uno spettro, in bilico tra un ristorante che somiglia a un sé stesso anteriore, una kermesse libraria che vende banchi dei pegni agli impegnati, un treno lubrificato introdotto nella gastrite padana, e un blog. Tolkien ha manipolato un mondo tra due guerre, la sua realtà era assurda ma cristallina, la nostra è tutto il prima di sempre abitato da un dopo invisibile. “La visione”, dice Makhno – e Kind come sempre tace, davanti a una parola che sa di dover ignorare per precauzione. La gente mangia seduta come se dovesse restare seduta per sempre. Il furgone verde scemo scarica merce sul retro della cucina, casse di cipolle di una filiera invisibile come il resto dell’unico presente senza alternative facili. Kind e Makhno sono in quella fase in cui se si potesse fumare dentro fumerebbero per dare un tessuto meno smagliato ai discorsi, quei fili di non assuefazione che anche a loro, alla fine, scappano via nelle secche desertiche del boh. Silenzio. Come ovunque.
Kind paga, il danno è inferiore del previsto. L’aria è fresca, la nebbia estinta, nessuno corre gridando, gli unici cani sono quelli al guinzaglio per l’ultima uscita. Dallo zaino estrae una grossa busta gommata. “La password?”, chiede Makhno che non controlla, c’è tutto. Piani, parole d’ordine, un Nokia 2G che è la cosa migliore che si può fare per l’ambiente e dovrebbe resistere alla Huawei apocalypse, contanti d’emergenza in tre valute. “Il titolo”, risponde. È l’Antropocene, baby. Da qualche parte, in un certo momento, il compito della letteratura è uno solo: non finire in uno scantinato, sotto una cucina, in una casa di campagna, da qualche parte in una foresta grigia.
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