Nel film di fantascienza Stalker (1979) diretto da Andrej Tarkovskij esiste un territorio presentato come fuori dal comune, la cui origine e natura sono sconosciute. Questo spazio che viene chiamato la Zona, indeterminata nell’anomalia visuale e narrativa creata dal regista, appare in un primo momento impossibile da abitare e umanizzare. È uno spazio insubordinato nella sua radicale alterità, una alterità viva e dotata di coscienza. La Zona, che è una zona con la lettera maiuscola, ossia con un nome proprio, è uno spazio-soggetto straordinariamente alieno al cui interno sembra ospitare solo ciò che non è umano. Ed è precisamente in questo spazio vivo che può emerge un’inquietante riflessione che mette in questione i bordi di ciò che si considera essenzialmente umano. Il reale e il figurativo in Stalker si fondono e si confondono, laddove la mappa e il territorio non solo non coincidono, ma non appartengono più a una possibile traduzione della Zona.
Così come in Solaris (1972) e poi in Stalker il regista russo crea degli spazi fittizi partendo da ambienti naturali, rispettivamente l’Oceano e la Zona, per mettere in discussione la definizione dell’umano e il suo territorio. L’anomalia della topografia estromette l’umano da spazi naturali con l’intento di alterare il modo di vedere l’ambiente degli spettatori attraverso il punto di vista dei personaggi principali del film Stalker (lo Scrittore, il Professore e lo Stalker). Proprio perché la Zona è un pezzo di pianeta, ma allo stesso tempo è un territorio che si differenzia da tutto il resto a causa dell’impatto di un meteorite che rende straordinario questo luogo, diviene proibito attraversarlo dalle autorità. L’immaginario latente e soprannaturale che affolla le città vicine porta alcuni ad avventurarsi al suo interno. È proprio l’impossibilità della presenza umana all’interno che spinge alcuni ad attraversare questa zona misteriosa e occulta, certi spinti dal voler scoprire che cosa c’è al suo interno, altri dalle voci che dicono che chi riuscirà a sopravvivere potrà realizzare qualsiasi desiderio. Inoltre, si pensa che la Zona spinga chi l’attraversa al suicidio, la morte o alterazioni fisiche e psichiche o a qualche tipo di contaminazione.
I viaggiatori che cercano di attraversare questo luogo insieme allo Stalker, l’unico in grado di accompagnarli, affrontano un paesaggio naturale che li disorienta, li rende impotenti e in balia dell’assoluta ignoranza dell’inconoscibile codice spaziale della Zona per la quale non esiste alcuna mappa o itinerario. Lo spazio in cui si trovano è una rappresentazione che si mostra pura, originale, naturale, il punto zero della realtà umana. E il problema per i viaggiatori è che possono confondere la realtà con quello che vedono. Come ha notato Henri Lefebvre (1976) tutto viene catturato in un solo sguardo e diviene parte del senso di orrore che si prova quando l’illusione della trasparenza si confonde con l’innocenza dello spazio libero da trappole e nascondigli segreti; propriamente perché il dissimulato, l’occulto e il pericolo si oppongono alla trasparenza. L’ambiente vergine, selvaggio e inumano, o preumano, emerge come il pericolo assoluto dell’abitare la Zona, la sua più completa ostilità alla vita umana.
Tuttavia, lo Stalker si presenta come un intermediario, un iniziato affine alla singolarità della Zona. Ciò suggerisce una possibile comunicazione con la Zona che diventa una reale interlocutrice. Infatti, lo spazio attorno ai viaggiatori risponde immediatamente all’umana presenza che non rimane impermeabile all’ambiente, ma ne viene contagiata. Lo Stalker è capace di mediare tra la Zona e l’umano perché sembra quasi rinunciare a leggere lo spazio, in altre parole non cerca di comprenderlo attraverso i costrutti e i valori dello spazio sociale, bensì lo riconosce, lo sente fisicamente e si lascia attraversare come egli attraversa la Zona a sua volta. Accetta l’insubordinato reagendo come farebbe un animale o una pianta in un nuovo ambiente. Insomma, lo Stalker lascia che la Zona esprima la sua agentività aliena, costruendo la sua esperienza di vita a partire dalla conformazione spaziale del luogo. Questo mostra come le alterità che albergano nella Zona siano vive, dotate in un certo qual modo di coscienza e senzienza.
Allo stesso modo Marco Malvestio con il suo nuovo saggio Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene (nottetempo, 2021) si presenta al lettore come lo Stalker di luoghi oscuri e distopici abitati dalla catastrofe. La grande forza narrativa fantascientifica prende con i romanzi e il cinema del Novecento un sapore amaro dell’inevitabile realizzazione della fine del mondo (di un certo tipo di mondo, come hanno segnalato Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi in Medusa. Storie dalla fine del mondo (Nero, 2021). Tuttavia, il filo rosso che accompagna il lettore nel labirinto della fantascienza (a mo’ di filo di Arianna) è «l’agentività del non umano» (p. 174). Questo perché l’Antropocene, ossia l’era nella quale l’umano da agente biologico si è trasformato in agente geologico, nonostante il nome alquanto umano-centrico, ospita nel suo statuto catastrofico umani e non umani.
La narrazione della fine del mondo a diversi livelli ripresenta la perdita dei confini che si ergono tra l’umano e il non umano; prova incontrovertibile sono i racconti terrorifici e isterici che provengono dai media circa il nemico invisibile che ha fatto rallentare la società umana durante la pandemia. In fondo, come si diceva, l’immaginario oltre che riempirsi di mostri costruiti a partire dalle forme di vita non umane si costituisce sull’assenza. Non si tratta solo dell’assenza di senso, cosa che ci hanno confermato le filosofie del secolo scorso, ma altresì dell’assenza di un’opposizione ideologica chiara tra umano e non umano. La mancanza di opposizione noi/loro, umani/non umani, dentro/fuori, visibile/invisibile (si pensi al virus che ci abita e che non vediamo), immaginazione/realtà (i documentari sul cambiamento climatico ne sono un esempio), ripresenta un collasso costitutivo dell’umano e della storia della nostra specie.
Il mostruoso in altre parole è già da sempre dentro di noi, per non dire che per le altre creature siano proprio noi il mostro per eccellenza. È la coesistenza di umano e non umano in noi e fuori di noi che costituisce un’assenza originaria che viene costellata dai racconti fantascientifici. Racconti nei quali l’umano nonostante sia il protagonista in realtà non lo è affatto poiché non si tratta di un’apocalisse nell’Antropocene ma di una catastrofe in corso. «Ma lasciamo stare, qui c’è una piega apocalittica», ci dice con tono scherzoso Jacques Derrida (1984, p. 85).
Paradossalmente i grandi protagonisti dell’Antropocene sono i non umani. Con non umano non vogliamo qui reantropomorfizzare il mondo considerando solo gli animali o solo la vita, bensì anche tutti quegli eventi che provengono dall’inorganico. Stiamo parlando di ciò che Timothy Morton (2018) ha definito “iperoggetti”: complessità relazionali emergenti viscose, non-locali, che mettono in discussione ogni categoria cognitiva di comprensione umana. L’agentività della natura rappresentata dalle catastrofi ambientali esercita un’infinita influenza sulla realtà umana. Certo abbiamo dei bias che influenzano la nostra visione del non umano, si pensi alla plant blindness, e allo stesso tempo esiste una tragica “ecofobia” collettiva riguardo la minaccia della perdita di controllo sulla natura. Tuttavia, piante aliene, animali ibridi, cataclismi naturali, zombie affetti da virus, mutanti delle guerre atomiche costellano le nostre fantasie e ci portano in mondi sconosciuti che paradossalmente riconosciamo come non completamente impossibili e alieni al mondo che abitiamo.
Per tale ragione veniamo scossi nel profondo quando questi scenari dell’Antropocene appaiono sulle pagine di un libro o sullo schermo dei nostri PC. Donna Haraway (2019) ci ha consigliato di abitare la catastrofe, mentre lo scrittore Brian Aldiss (1973) ha parlato di una catastrofe confortevole (cosy catastrophe), forse proprio per riuscire a digerire il trauma della fine dell’umano più che la fine del mondo. In tal modo non vivremo il trauma dei sopravvissuti post-umani, ma abiteremo il possibile come il nostro reale, come fosse il nostro presente, dove si dispiegano direbbe Bifo (2018) “i germi della possibilità”. Scriveremo e leggeremo racconti fantascientifici che parleranno sempre più con la voce di Gaia, del non umano che risponde all’Antropocene e l’umano che dalla periferia di una Zona assolutamente inabitabile cerca di sopravvivere, ma alla sola condizione di oltrepassarla lasciandosi attraversare.
Riferimenti bibliografici
Aldiss, B. Billion Year Spree: The History of Science Fiction, Weidenfeld & Nicolson, London 1973.
Bifo, F. Futurabilità, Nero, Roma 2018.
De Giuli, M., Porcelluzzi, N. Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo), Nero, Roma 2021.
Derrida, J. Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia, Jaca Book, Milano 1984.
Haraway, D. Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019.
Lefebvre, H. La produzione dello spazio, Raffaello Cortina, Milano 1976.
Malvestio, M. Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene, Nottetempo, Milano 2021.
Morton, T. Iperoggetti, Nero, Roma 2018.
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Immagine di copertina:
fotogramma da Andrej Tarkovskij, Stalker, 1979.