Questa sarà una recensione di una raccolta di poesia alquanto atipica rispetto a ciò che sono solita fare: più che svolgere un’analisi stilistica farò infatti alcune riflessioni etico-sociali. A settembre è uscita per la collana bianca di Einaudi l’ultima raccolta di Alessandra Carnaroli, 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti (Einaudi, 2021). “La bianca” suscita innegabilmente in chi scrive il genere letterario forse al contempo più bistrattato dai lettori ma anche quello più inflazionato per i ben noti meccanismi di inquinamento editoriale, sentimenti ambivalenti di ammirazione, invidia e critica nei confronti degli autori ivi pubblicati. Ciò nonostante, più che riflettere sulla qualità dell’opera pubblicata sento l’esigenza di soffermarmi sul suo contenuto per due motivi: il mio interesse per le tematiche femminili e l’essere orgogliosamente una femminista da un lato, dall’altro per una mia personale idiosincrasia, se vogliamo piuttosto istintiva e irrazionale, nei confronti dell’arte che affronta tematiche sociali. Mi sono più volte interrogata sulla questione se sia giusto scrivere o, più in generale, fare arte ricorrendo a fatti di cronaca e utilizzare materiale attinto dalle vicende dolorose esperite da altre persone. Cito spesso per motivare la mia idiosincrasia il caso della foto di Kevin Carter che gli valse il premio Pulitzer nel 1994, “Bambino con avvoltoio” (“Stricken child crawling towards a food camp”). L’immagine era stata scattata in Sudan nel marzo del 1993 con l’intento di sensibilizzare l’opinione mondiale riguardo alla carestia che attanagliava il paese. Per scattare tale immagine il fotografo aveva dovuto esercitare una certa freddezza che in molti interpretarono come un atto disumano: il fotografo si trova di fronte a un bambino denutrito riverso a terra alle spalle del quale vi è un avvoltoio in attesa, scatta la sua foto e si allontana. Si potrebbe interpretare tale gesto come un atto meschino che sfrutta le sofferenze altrui per sancire la propria affermazione professionale e artistica. In molti in effetti mossero aspre critiche nei confronti di Carter, le quali generarono nel fotografo un profondo dilemma interiore, causandone una forte depressione che lo condusse infine al suicidio proprio nello stesso anno in cui vinse il Pulitzer. Personalmente ho sempre reagito istintivamente con una profonda critica alla necessità di scattare immagini simili, sia perché mi sembra appunto che il fotografo sfrutti a proprio vantaggio una realtà di dolore, sia perché in qualche modo mi pare che ciò contribuisca a creare un clima di anestetizzazione rispetto a immagini crude: le guardiamo asetticamente, quasi senza provare sentimenti e senza che tali immagini comportino una qualche azione. Però, – vincendo le mie personali resistenze – è pur vero che senza quella testimonianza fotografica probabilmente anche chi può intervenire attivamente per contrastare tale realtà, non ne sarebbe stato informato. Questo preambolo è necessario perché nutro un sentimento simile anche per la poesia che affronta tematiche sociali: mi sembra sempre che ci sia una buona dose di ipocrisia e uno sfruttamento analogo di situazioni di disagio. Quindi scrivere di questa raccolta mi ha richiesto di interrogarmi in maniera profonda e infine di rivedere la mia opinione.
Alessandra Carnaroli ha indubbiamente una scrittura riconoscibilissima e prolifica; da lungo tempo si occupa di femminicidi, di traumi infantili e abusi sessuali, e lo fa utilizzando un linguaggio crudo, ironico, di grande potenza e precisione stilistica e ritmica: i suoi sono testi che in gergo potremmo dire che funzionano e tengono bene sia la lettura mentale che quella ad alta voce e ancora di più rendono nella sua interpretazione. Le sue raccolte costituiscono delle serie che indagano la realtà attraverso un procedimento combinatorio e che virtualmente potrebbe non terminare mai: si ha infatti la sensazione che esse giungano a conclusione solo per esaurimento della vena poetica dell’autrice (per far ricorso a una metafora abusata ma che è indiscutibilmente efficace). In questo ultimo lavoro l’attenzione dell’autrice si rivolge all’ambiente domestico al quale siamo stati confinati per quasi un anno. Un luogo che è stato definito sicuro ma che, sin dai primi giorni di lockdown, è stato indicato dalle varie associazioni di tutela delle donne come altamente pericoloso. È infatti tra le mura domestiche che hanno luogo i delitti più atroci e spesso derubricati dalle cronache come l’ennesimo femminicidio, e ai quali i media tendono a trovare giustificazioni insostenibili. Ormai, se non in pochissimi casi, l’attenzione dell’opinione pubblica nemmeno si accende più e tali omicidi vengono scorti rapidamente e altrettanto lestamente dimenticati dai lettori e dagli ascoltatori di giornali e tg. Un po’ come se quelle orrende morti di donne fossero un tributo che la società tutta deve pagare, in maniera analoga alle morti per incidenti stradali. Ma questo tributo alla società maschilista in cui siamo immersə e dalla quale siamo modellatə dovrebbe tuttavia ricordarci che una società diversa è immaginabile. Siamo invero tuttavia lontanə da essa, tanto più se la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne come quella del passato 25 novembre 2020 viene – e per tantə con un sospiro di sollievo – oscurata dalla morte di un celebre calciatore – in un anno peraltro in cui le violenze e gli omicidi sono stati terribilmente numerosi.
Una raccolta di poesia che parli di questi temi potrebbe facilmente cadere nel patetismo, nel vittimismo e in certo voyeurismo, assumendo toni moralistici. Alessandra Carnaroli invece attraverso un linguaggio basso, un’ironia caustica e un immaginario quasi orroristico riesce a restituire alla lettrice e al lettore tutta la cruenza e l’ingiustificabilità dei femminicidi, lasciando cadere ogni tentativo di giustificazione del carnefice. Come si può intuire dal titolo, 50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti, la raccolta è costituita da due parti simmetriche di cinquanta testi ciascuna: i primi cinquanta mettono in scena altrettanti suicidi immaginati, desiderati o attuati da una donna – potrebbe essere una sola che si immagina altrettanti modi di farla finita, o cinquanta donne diverse, poco importa perché qui siamo piuttosto nella dimensione archetipica di una donna frustrata da una quotidianità soffocante, da un ruolo socialmente imposto e da doveri percepiti come irrevocabili che ne schiacciano la natura femminile, rendendola l’ombra di sé stessa; la seconda parte illustra invece come cinquanta oggetti contundenti (tutti per lo più presenti in qualsiasi casa, o comunque con elevata frequenza) siano stati utilizzati da un uomo contro la moglie, la compagna e la fidanzata e in alcuni casi i figli. Nella seconda parte non c’è vagheggiamento ma solo la violenza cruda che si scatena contro la figura femminile. L’omicidio è compiuto con accanimento e con la volontà di far soffrire orribilmente la donna e deturparne il corpo, violandolo e massacrandolo.
Le donne non sembrano avere reale desiderio di morire, piuttosto tentano una fuga da una realtà soffocante attingendo a oggetti di uso quotidiano dei quali si scopre una valenza violenta quasi per applicazione sagace della fantasia, oppure gettandosi sotto treni o metro, ricorrendo a farmaci e sostanze con uso calcolato, più per stordirsi, levare un allarme che per farla finita realmente:
I.14.
una cravatta di mio marito meglio
una cinta di accappatoio più lunga
che assorbe saliva se sbavo
(p. 18)
I.6.
nel rubinetto
vorrei affogare il naso
fare bolle da ognuna narice
pesciolina d’acqua dolce
uccisa dal calcare
(p. 10)
I.9.
tra le rotaie del regionale ancona piacenza
che dai moscioli porta alla nebbia
altezza pesaro
dietro istituto alberghiero
schiantarsi contro verdurine
al vapore
fischi di ragazzi ai culi
ritardi
probabili aborti
(p. 13)
I.10.
rileggere più volte nel foglietto
la posologia corretta che fare
in caso
di eccessiva assunzione
al cielo
visione di angeli
paradisi artificiali
isole
di rockers scomparsi in circostanze misteriose
elvis mi passa il sale
per rinvenire
(p. 14)
Oppure si ricercano, incidenti, situazioni di pericolo o contingenze esterne che possano arrestare la vita:
I.38.
in bicicletta mentre torno
con le buste della spesa
appese al manubrio
mentre curvo i gomiti
all’incrocio infilo
un senso unico vietato
unico ricordo
lo sguardo
del bambino seduto accanto
al volante
lo spruzzo
di sangue
che copre il cappello dell’inter
(p. 42)
I.50.
contro il palo della luce
senza casco
dove hanno già attaccato
una sciarpa fano calcio
madonnina fiore finto
per un altro morto
(p. 54)
Fatta eccezione per i rasoi (“una lametta | mentre mi depilo sbagliare | rotta”, p. 29) utilizzati per svenarsi, le armi da taglio non vengono usate in prima persona ma da altri che ne vengono incaricati (“assoldare un killer sconosciuto | […] che possa tagliarmi a spicchi”, p. 16; “farsi pugnalare | a lione”, p. 21). Spesso quando i suicidi vengono immaginati all’interno della propria abitazione assumono un’ironia comica che rivela tutta la perdita di significato di una vita confinata alla ripetizione di gesti banali e avvilenti:
I.2.
raggiungere lo stato profondo
che solo dash bucato lavatrice
di sporco
fare il cambio-scheletro nell’armadio
partorire pelle
come le cicale
(p. 6)
Rispetto ai testi della seconda parte quelli dei tentati suicidi sono caratterizzati da una maggiore brevità: vi sono invero alcuni testi che superano la decina dei versi, ma solitamente si oscilla da un minimo di 4 versi a un massimo di 9, quasi come se questi desideri di morte fossero delle intuizioni momentanee, oppure delle fantasie che si compiacciono di un uso sciolto dell’immaginazione:
I.26.
per congelamento sotto un manto o
pupazzo di neve con carota al posto
del naso e carbone in ogni occhio
scesa la temperatura del corpo
sotto i 20 gradi strapparsi
i vestiti di dosso per allucinazione
viaggi in posti esotici isole deserte
rompere vene come tubi rubinetto
neanche un idraulico nella tormenta
(p. 30)
I testi della seconda parte invece si aprono tutti – fatta eccezione per gli ultimi quattro testi – con l’oggetto del delitto per proseguire con la descrizione di come esso sia stato utilizzato e generalmente i testi presentano un maggior numero di versi soprattutto quando l’assassino si attarda nel descrivere con dovizia di dettagli il modo in cui ha sfigurato il volto e dilaniato il corpo della donna. Qui non c’è spazio per l’immaginazione, piuttosto si ripercorrono i gesti eseguiti con calcolo e ira furibonda e talvolta ci si gongola per la fantasia avuta nella scelta dell’arma:
II.24.
il ferro
da stiro
uno magari non ci pensa quando
lo compra
lo usa due volte a settimana
per le camicie e le maglie
che proprio non si possono mettere
con le pieghe storte
quando butta lo spruzzo
o nuvoletta
di vapore
poi se ancora scotta
lascia sulla pancia
la v
di vittoria
o vendetta
a seconda
(p. 80)
II.6.
una scarpa
con tacco
per lasciare buchi
nel cervello l’effetto
della vera pelle
sulla pelle
gli ossi
la materia grigia o cervelletto
le varie parti viste nei libri di scienze
ma sparse
chissà se mio figlio ricorda meglio
(p. 62)
II. 20.
il cacciavite
accanito
a smontare spalle
cosce dalle anche
gira a vuoto
tra le ovaie spanate
cerco su google come fare
per svitare
(p. 76)
Come si può notare da queste citazioni i testi che compongono la raccolta utilizzano la prima persona singolare e di conseguenza tutta la prima parte inscena una voce femminile, mentre la seconda una maschile, ribadendo così come la violenza femminile sia immaginata e comunque rivolta contro sé, al contrario di quella maschile che si attua in gesti reali e calcolati volti ad annientare un altro essere umano. Devo ammettere che la lettura dei primi cinquanta testi risulta più facile proprio perché i suicidi vengono percepiti più come desiderati che tentati realmente, formulati come fantasie e che possono avere pertanto una funzione catartica; tutta la seconda parte mi risulta invece urtante e riprovevole (parlo ovviamente non di ciò che pertiene il piano stilistico che, come ho già notato, è ineccepibile e forse negli ultimi cinquanta testi ottiene i risultati migliori, ma piuttosto del contenuto e pertanto, considerando i temi trattati, si può concludere che questa seconda parte raggiunge magistralmente l’effetto ricercato dall’autrice). Di certo credo che in quanto donna la lettura sia tutt’altro che facile o serena e non nascondo di avere avuto incubi per diverse notti, analogamente a quanto mi è successo in seguito alla visione della serie tv Handmaid’s Tale (soprattutto la prima stagione): i temi trattati e la violenza rappresentata risultano per una donna fisicamente – oltre che emotivamente – provanti, tuttavia questo genere di finzione permette alle donne di riflettere sulla violenza insita nella società capitalista patriarcale e di discuterne dapprima in un dialogo intimo con sé stesse e in seguito con altre donne (e auspicabilmente anche con gli uomini, sebbene sia più complesso e meno pacifico). Credo quindi che ci sia una valenza di riflessione, terapia e presa di consapevolezza in questo genere di operazioni. Occorre però che esse non vengano né banalizzate, né ridimensionate, tanto più che ciò che viene rappresentato o fa già parte della realtà quotidiana mondiale (la violenza sulle donne), oppure lo è già o lo sta divenendo in certe parti del globo (penalizzazione dell’aborto, dittature religiose che impediscono alle donne qualsiasi tipo di autoaffermazione, individualità, libertà di scelta e movimento). Trovo pertanto che la quarta di copertina della raccolta sia riprovevole perché disinnesca la portata critica dei testi nei confronti della società patriarcale che ci attornia, conseguendo una banalizzazione e un’anestetizzazione della violenza che si esplica all’interno della struttura della coppia e dell’istituzione famigliare (“suicidi e omicidi sono due facce della stessa medaglia, a seconda che lo sconforto prenda la piega dell’autolesionismo o dell’impulso omicida. Intorno agli ‘insani gesti’, un mondo femminile con tutte le sue frustrazioni, le paure, le costrizioni, i desideri repressi. Questo delle cinquanta variazioni sul tema può apparire come un sistema chiuso e ripetitivo che sprigioni la furia e l’ossessività di una sestina. Ma in realtà, nel suo paradosso, è un meccanismo desiderante combinatorio e infinito […] Un libro paradossale, divertente e disperato”, corsivi miei).
Io credo che il procedimento che si deve fare per cercare di salvare la vita delle donne e portarle a una presa di consapevolezza sana della propria individualità debba invece essere condotto in tutt’altra direzione. Innanzitutto, si deve evitare qualsiasi giustificazione e banalizzazione della violenza che si può scatenare all’interno di una casa e di una coppia (e non parlo solo di violenze fisiche, ma anche di quelle psicologiche, economiche, giuridiche, culturali). Dobbiamo permettere alle donne di prendere parola, di dare voce al proprio vissuto e alla propria interiorità, e inserirle in un contesto protetto in cui il dolore vissuto possa esplicarsi, esorcizzarsi e condurre a una nuova opinione di sé. Io per prima mi rimprovero di non essere riuscita a stabilire un contatto e a fornire un aiuto quel giorno in cui su un autobus mi sono trovata di fronte una donna in lacrime con i chiari segni di una violenza perpetuata dal compagno, ho sentito una forte stretta allo stomaco, un’empatia smisurata, ma non sono stata in grado di fare molto di più che offrirle un pacchetto di fazzoletti e sorriderle con accorata preoccupazione. Credo invece che in una società realmente pacifica, gentile e pronta a sostenere il prossimo altro da sé con tutta la cura che potremmo rivolgere a noi stessi o a un nostro caro, ciascuno di noi in una circostanza simile dovrebbe essere in grado di agire e dare supporto. Oltre a ciò, occorre intervenire a livello culturale ed educativo, ripensando la differenza di genere, combattendo certi stereotipi e non insegnando al bambino maschio la repressione delle emozioni (e Alessandra Carnaroli, maestra di scuola dell’infanzia, ha sicuramente grande cognizione di ciò).
Ora, una raccolta poetica non può fare molto per cambiare la società ma di certo conduce la lettrice e il lettore attentǝ a una presa di consapevolezza che possa illuminare una realtà di sofferenza che troppo spesso siamo portati a ignorare. E rispetto a raccolte precedenti di Alessandra Carnaroli quest’ultima beneficia di una posizione di rilievo, dal momento che è facilmente reperibile in tutte le librerie d’Italia: magari l’appello che si può rivolgere a chi ne parlerà e scriverà è quello di non disinnescarne la critica sociale e culturale.
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Immagine di copertina:
di Aarón Blanco Tejedor da Unsplash.