Raccontare il mondo, costruire rappresentazioni: scienza e arte vivono di una affinità elettiva, proprio come nel romanzo di Goethe, e squadernano l’umano universo attraversando sentieri spesso simili. Un grande errore della mentalità contemporanea, foraggiata da banali pamphlet commerciali, sta nel ravvisare alla fine del sentiero tali convergenze, mentre bisogna individuare “a monte” l’origine della somiglianza, quasi fosse un Urtext primordiale. Scienza e arte dunque attraversano le nebulose esistenziali per rivelare pattern nascosti, scovare modelli, descrivere la vita, e lo fanno ognuna secondo il proprio metodo d’indagine, ma partendo da quel limite che tutto abbraccia: l’Erlebnis, l’esperienza vissuta di colui che vive il thauma, lo stupore/terrore davanti al cosmo circostante.

Ignazio Licata, La resistenza del mondo

Ignazio Licata, fisico teorico e raffinato intellettuale, già autore di molti saggi, ne La resistenza del mondo. Connessioni (in)attese fra scienza ed arte (Divergenze, 2021) investiga tale delicatissimo tema rimettendo ordine nella confusione imperante tra ciò che arte e scienza hanno in comune e quanto le distingue, ma soprattutto riavvolgendo il nastro delle narrazioni ufficiali per mostrane le criticità sottese. La società contemporanea pare dimenticare come l’osservatore sia parte integrante del mondo che osserva, e quest’ultimo sovente assomiglia al barone di Munchausen, il quale tentava di uscir fuori dal fiume tirandosi su per il codino, perché «tende a vedere la scienza come un implacabile algoritmo scavamondo costruito su un metodo astorico» (p. 11). La cultura d’oggi sembra dunque dimenticare il problema della semantizzazione dell’essere. Di che si tratta? La questione è antica, e comincia ufficialmente con Parmenide e con la volontà – estremamente occidentale – di giudicare pensiero e realtà identici. La corrispondenza dei termini si “avvera” nel linguaggio, che rappresenterebbe la realtà nella sua essenza. Questa convinzione, senza dubbio affascinante, non è convincente. Nel titolo dell’opera si coglie perfettamente il perché serva una ermeneutica differente: la resistenza altra non è se non la consapevolezza di accettare un limite alla possibilità di conoscere; significa abbandonare il mito della descrizione finale, e sviluppare un metodo di ricerca dove il logos non è distaccato dal reale ma vi si incarna storicamente, attraverso tradizioni culturali e bagagli ideologici.

Ciò che conta, per lo scrittore così come per lo scienziato, è scovare una pista, «trovare un metodo, un destino» (p. 13). A priori, tra i due esploratori, deve esserci certamente una tecnica, ma anche un forte grado di immaginazione in grado di accendere nella mente nuove ipotesi e congetture – e tutto ciò ha a che vedere con esistenze concrete. Questo non vuol dire che la scienza risulti depotenziata, tutt’altro. Significa ricondurre l’architetto dentro il suo edificio, il quale è tirato su con sudore e fatica, e non piovuto da un iperuranio platonico sotto forma di equazioni astratte e atemporali.

È proprio tra siffatte rizomatiche edificazioni che scienza e arte si assomigliano:

«Il fitto intreccio delle correlazioni fra scienza e arte attraversa l’intera Storia, almeno a partire della “nascita” della scienza moderna, che può convenzionalmente farsi coincidere con la rivoluzione galileiana e che, globalmente, vede la nascita dell’arte borghese centrata sul mercato e sulla esplorazione attiva del mondo» (p. 15).

Il punto centrale sottolineato da Licata appare dunque stravolgere quella coerenza tra essere e linguaggio non per negare un legame tra loro, ma per riappropriarsi semanticamente del mondo, ogni volta e da capo, nell’atto stesso della ricerca o della creazione artistica. Questo “fare eretico” riscrive l’universo semantizzandolo, traducendolo in un pluriverso bruniano, e rimanda all’operazione joyciana sul testo biblico. Dove nell’Antico testamento c’è scritto che God created Adam and Eve, Joyce propone nel Wake God created atoms and ifs – atomi e se – per ricordarci cosa fonda il mondo e lo guida.

In questo scenario qualcuno potrebbe sentirsi smarrito, ma contemplare il mistero del mondo non deve spaventare, bensì ricordare quanto sia necessario quel limite, quella resistenza per l’appunto, affinché l’essere umano possa viaggiare. È un confine mobile, un orizzonte infinito a cui rivolgere lo sguardo. Il creato, in definitiva, si presta a essere un arcipelago di segni da esplorare: l’artista e lo scienziato in questo sono uguali, e non – lo ripetiamo – perché si incontrano nella stessa fortezza della conoscenza, ma perché assomigliano a viandanti partiti dalla medesima città per andare a comprendere la vita là fuori. È nelle maglie sottili di questi intrecci che emerge la bellezza. Licata propone osservazioni estremamente sottili a proposito, confrontandosi non solo con l’opera di scrittori-scienziati (si pensi a Leopardi o a Del Giudice oppure a fisici, come Majorana, ormai personaggi letterari) ma evidenziando quanto da “scenari d’emergenza” si manifesti, imprevedibilmente nella maggior parte dei casi, quella forza luminosa piena di verità e capace di catturarci.

La conoscenza, infatti, non è astrazione, ma vita reale: riflettendo sul San Matteo del Merisi, Licata individua chiaramente uno dei nuclei interpretativi più importanti del suo discorso, analizzabile su più livelli. Dell’opera di Caravaggio

«ci resta una vecchia fotografia che riesce ad evidenziarne le caratteristiche rivoluzionarie, con un San Matteo affaticato e senz’aureola che scrive il primo Evangelo con l’aiuto dell’ispirazione angelica, e apre anche al mondo delle cose religiose un cammino di conoscenza faticosamente e interamente umana, in modo non dissimile da ciò che avviene per l’intendimento dei moti nel Galilei» (p. 28).

Si tratta insomma della pratica dell’inventare il modo in cui si fa mentre si fa, secondo l’ontologia pareysoniana, e di assumersi la responsabilità di comprendere i nostri linguaggi, i quali persino nella matematica fanno parte di un processo. Quando ci si illude di una perfetta corrispondenza degli stessi con l’universo, secondo la suggestione di Max Tegmark, si perde di vista la natura stessa, ontogenetica, del procedimento adottato. Tra significante e significato, tra sintassi e semantica, il punto centrale è la vita pulsante. Il filosofo Marco Maria Olivetti, in un saggio di qualche anno fa, evidenzia chiaramente le implicazioni annesse al tramonto della ontologia classica.

«[…] Non esiste un’essenza dell’essere umano. Tale essenza è immaginata, e senza siffatta immaginazione l’essere e l’umano non si coapparterrebbero. Così si dice, in un certo senso la fine dell’etica. Tuttavia così si dice anche che l’etica, e non l’ontologia, è la filosofia prima, anzi anteriore» (Analogia del Soggetto).

Nel saggio di Licata, oltre alla questione della conoscenza in sé, emerge parimenti il bisogno di focalizzare l’attenzione sulle implicazioni “politico-spirituali” che un’idea fallace di scienza comporta nel vivere quotidiano, ovvero una alienazione effettiva e asettica. La grande scienza e l’arte si dirigono in direzione opposta: in questo si accomunano veramente, nell’attraversare l’esistere e rappresentarlo in opere mondo (che siano letterarie o scientifiche poco importa), volte a produrre più libertà e democrazia e a respingere le narrazioni univoche, miopi troppo vaghe o iperspecialistiche.

«Scienza e arte, come l’indecidibile macchina di Turing, non terminano continuano a moltiplicarsi spostando asintoticamente il necessario oltre ogni limite precedente, ad ogni passo corrisponde una nuova, ineludibile percezione della distanza tra il mondo e le sue descrizioni» (p. 48).

Quello di Licata è evidentemente un testo necessario non solo per questioni metodologiche, ma anche per riappropriarsi correttamente del patrimonio prodotto dall’umanità, in queste pagine raccontato con un piglio da romanziere. Musica, coscienza, macchine cibernetiche, pittori, artisti si intrecciano in quadri descrittivi pieni di energia vitale rappresentando in fieri quanto lo studioso ha voluto sottolineare in tutto il suo lavoro, e cioè che

«le voci del mondo, molteplici, dense, all’origine quasi indistinguibili l’una dall’altra, sono inestricabilmente entangled e delocalizzate. Ci chiamano alla responsabilità e alla necessità dell’interpretazione, alla gioia della partecipazione attiva, quindi alla definizione di un cammino nel mondo».

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Immagine di copertina:
Michelangelo Merisi da Caravaggio, San Matteo e l’angelo (particolare), c. 1602, Kaiser Friedrich Museum, Berlin. Opera distrutta durante un bombardamento e conseguente incendio del museo nel 1945 – (Fotografia conservata presso la National Gallery of Art Library – Department of Image Collections, Washington, DC).