L’anno scorso mi trovavo a passeggiare lungo le vie di Venezia, durante un classico “bacaro tour”. Nonostante la pandemia abbia frenato il turismo, le piazze e i ponti offrivano lunghe code per passare da un posto all’altro. Quel giorno una scena classica si è palesata di fronte ai nostri occhi, e vorrei che la immaginaste, se non siete mai stati in quel di Venezia: una giovane ragazza orientale addossata su di un muretto di fronte a un bar; lo spritz appoggiato sul muretto, lei che con una mano regge un piccolo vassoio con i classici cicchetti veneziani e con l’altra cerca di farsi un selfie prendendo il ponte sullo sfondo. A un certo punto (ve lo state già immaginando, penso), passa un missile che le ruba i due cicchetti lasciando il vassoio intatto nelle mani della ragazza sbigottita. “È un uccello? è un aereo? No, è Superman!”. In realtà era proprio un uccello, un classico gabbiano veneziano. La gente del posto sa che ci sono questi animali di una spavalderia inconcepibile che aspettano solo qualche distratto turista. I veneziani si sanno difendere bene da questi attacchi, li noti, mentre chiacchierano, appoggiare il loro vassoio sui muretti tenendo con le punta delle dita i loro panini come se il vento glieli stesse portando via. Tuttavia, parlando con un signore del posto mi diceva che i gabbiani dopo il lockdown sono diventati ancora più aggressivi perché, mentre gli umani se ne stavano a casa, loro soffrivano la fame.
Parlando di volatili, ricordo che l’ultima settimana di dicembre stavo facendo uno scalo nell’aeroporto di Las Palmas e mentre aspettavo l’imbarco del mio aereo ho visto un piccolo passerotto aggirarsi lungo i passaggi che separano i negozi dagli imbarchi. Immediatamente ho pensato allo sfortunato volatile, quante cose si perderà e quanto sarà ridotta la sua libertà. Tuttavia, il passerotto, dopo aver visto che sgranocchiavo delle patatine si pone di fronte a me, aspettando con pazienza la caduta di qualche briciola. E così, impietosito mi sono affrettato a lanciargliene qualcuna che, però, non mangiava lì per lì ma portava via per poi ritornare ad attendere pazientemente un altro pezzettino. Così mi sono chiesto se effettivamente quell’aeroporto, che sicuramente non è il suo ambiente naturale, non potesse esser diventato un ambiente ancor più consono alla vita di un piccolo uccellino. La temperatura dell’aeroporto è costante indipendentemente dalle stagioni, le vetrate lungo tutte le pareti fanno passare la luce naturale ed essendoci pochi voli notturni i luminari vengono spenti. Inoltre il cibo abbonda e i predatori non ci sono. La domanda, alla quale non so rispondermi (se non tornando nel medesimo aeroporto tra qualche anno per vedere se la sua sopravvivenza persiste), ne pone a suo modo molte altre circa la coesistenza degli animali negli spazi urbani.
Il libro di Menno Schilthuizen Darwin va in città. Come la giungla urbana influenza l’evoluzione (Raffaello Cortina, 2021) ripropone propriamente questa domanda sulla relazione che sussiste tra i non umani e la città. Il biologo evoluzionista olandese, professore di Biodiversità all’Università di Leida, offre al lettore una lettura alternativa della città. Siamo difatti soliti pensare che ciò che i non umani costruiscono (pensiamo alle dighe dei castori, per esempio) sia parte della Natura, mentre l’edificazione umana sia qualche cosa che rimane al di fuori del contesto naturale. Tuttavia, se osserviamo Homo sapiens come un animale tra gli animali (evitando ogni distinzione ontologica dagli atri viventi e spodestando l’umano dalla sua pretenziosa trascendenza) dobbiamo inserirlo a tutti gli effetti tra quegli animali che sono denominati “ingegneri ecosistemici”. Questi ultimi, come affermano gli ecologi Clive Jones, John Lawton e Moshe Shachak che hanno coniato il termine a metà degli anni ’90, sono organismi che creano i propri ecosistemi regolando la disponibilità di risorse a disposizione di altre specie. In tale nozione rientrano molteplici specie, tra cui le formiche (punto di riferimento per la modificazione ambientale), castori, coralli e altri ancora. Fatta questa premessa, l’autore, che sicuramente non è affezionato al termine Natura, poiché spesso con esso ci si riferisce a un costrutto che detiene entro sé una carica ideologica antropocentrica, si domanda: «perché dobbiamo sempre, implicitamente o esplicitamente, escludere il fattore umano dall’equazione quando parliamo di natura? Per quale motivo consideriamo naturale il formicaio su quell’albero laggiù ma non le nostre città?» (p. 38). Certamente bisogna segnalare che il discorso proposto deriva da una visione completamente evoluzionista della faccenda, senza alcuna implicazione etica sulla responsabilità circa l’impronta di una parte della specie umana sugli altri viventi. Prosegue l’autore:
«Perché ammiriamo il ruolo dominante delle formiche nei meccanismi ecologici del pezzetto di foresta pluviale in cui vivono ma, allo stesso tempo, esprimiamo disgusto pensando a come gli esseri umani possono dominare il paesaggio? Non c’è alcuna differenza sostanziale. […] Considero le città umane come un fenomeno totalmente naturale, al pari delle megastrutture costruite da altri ingegneri ecosistemici per le loro società» (pp. 38-39).
Secondo l’approccio proposto da Schilthuizen, un numero sempre maggiore di specie animali ha cominciato a stabilirsi nelle periferie cittadine, abitando anche i centri di grandi città urbane. La migrazione è dovuta sicuramente al fattore dell’ampliamento delle città che sono diventate “megacittà”. Infatti, si stima che nei prossimi dieci anni il 10 per cento della popolazione mondiale vivrà in appena 41 megacittà, situate nella Cina orientale, India, Africa occidentale. Per megacittà si intende una città abitata da più di dieci milioni di persone. In passato il limite di espansione delle città era dovuto alla capacità di reperire risorse nelle vicinanze. Con la modernità questo problema si è risolto grazie alle innovazioni tecnologiche dei trasporti e del commercio globale.
Le moderne megacittà sono degli spazi urbani che con la loro espansione compenetrano i centri vicini inglobandoli attraverso il fenomeno della “conurbazione”, 1 termine coniato dal biologo e urbanista scozzese Patrick Geddes. Sono dei veri e propri agglomerati urbani costantemente connessi con l’intorno. La conurbazione è un concetto che si inserisce nell’ecologismo classico e che vede la città come un ecosistema in equilibrio che permette di educare e far sviluppare i cittadini in uno spazio eterogeneo che rinforza tuttavia la coesione sociale con la consapevolezza ecologica.
Ciò che possiamo osservare nella macro-espansione delle città è che lo spazio urbano in realtà non toglie habitat alla fauna e la flora, ma lo modifica. In altre parole, si è visto che la città influenza l’evoluzione perché essa si trasforma in una molteplicità di ecosistemi che vengono sfruttati da altre forme di vita. La coabitazione di molte specie animali e vegetali ha portato ad un adattamento delle forme di vita “antropofili”. In questo senso non è possibile separare la città dal resto degli ambienti naturali, così come non è possibile scindere la natura dalla cultura. Infatti, le città sono dei veri e propri habitat con le medesime dinamiche che servono agli altri ecosistemi considerati “naturali”. Bisogna d’altro canto sottolineare che non esiste una tale natura (pura e incontaminata), se non nell’immaginario umano. Apportando infatti uno sguardo ecologico sull’intero mondo animale, bisogna osservare che umani come non umani sono in fin dei conti degli ingegneri ecosistemici. C’è bisogno di decostruire ogni ideologia circa la divisione natura/cultura e ristabilire una visione delle città umane come un fenomeno totalmente naturale, parlando di ecosistemi urbani.
Si tratta di capire che l’ecosistema urbano crea luoghi in cui avvengono rapide mutazioni evolutive. Zanzare sotterranee della linea metropolitana di Londra oggi sono una specie a sé, falene che non seguono più le luci della città dimostrano una chiara evoluzione alla sopravvivenza urbana, la pianta erbacea nota come mimolo giallo muta per eliminare il rame dal suolo e il pesce mummichog nel corso dell’evoluzione ha sviluppato un modo per sopravvivere in mezzo al sudiciume chimico. Tutti questi esempi mostrano che le altre forme di vita hanno trovato stratagemmi per sopravvivere in quella che chiamiamo catastrofe ecologica. Oltre a ciò, molte specie vivono propriamente nei centri città. Pensiamo alle volpi, i ricci, le cornacchie che usano le automobili come schiaccianoci, il ciuffolotto che vola di bar in bar rubando le bustine di zucchero. Pare addirittura che i passeri messicani utilizzino i mozziconi di sigaretta per costruire i propri nidi perché tengono lontani acari, pulci e pidocchi (p. 207). I merli urbani stanno divenendo una specie differente da tutte le altre grazie ad un processo rapidissimo di speciazione.
Tuttavia, anche qualora ritenessimo le città parte di un processo di costruzione di una nicchia ecologica dell’animale umano che ospita antropofili non umani, bisogna comunque far fronte alla devastazione e inquinamento esponenziale degli elementi che sostengono la biosfera. Esistono difatti disparate narrazioni sulla fine del mondo causata dall’impronta ecologica umana. Queste narrazioni post-apocalittiche, però, non riescono a focalizzare il reale processo che sta avvenendo nell’Antropocene.2 Ciò che potrebbe aver fine è la vita sul pianeta di molteplici specie, tra cui la nostra. Ma nonostante questo pensare che la fine della nostra specie sia la fine del mondo è una narrazione ideologica che rimette al centro l’umano come distruttore e salvatore della vita sul pianeta. Al di là della devastazione molteplici forme di vita sussisteranno nonostante la catastrofe che stiamo vivendo e che vivremo. Batteri, piante, piccoli animali sopravviveranno e prospereranno al di là di ogni ideologica “fine del mondo”. Ciò che avverrà sarà la fine del mondo umano, non del mondo della vita. E lo possiamo vedere con i nostri occhi che esiste una intrinseca resistenza vitale che interseca natura e cultura nelle città.
Il termine giapponese “hibakujumoku” indica un albero che è stato esposto al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki. Sono alberi che nonostante l’attività radioattiva subita sono sopravvissuti o hanno potuto rigermogliare dalle radici.3 La resilienza delle piante deriva non solo dalla necessità di sopravvivere ai predatori ma altresì alle catastrofi. Un altro esempio affascinante di resilienza è quello degli animali che dopo lo scoppio del reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl sono rimasti a vivere in quelle zone. La “zona di alienazione”, area di 30 chilometri, è divenuta dopo l’estromissione dell’umano un rifugio per molteplici specie animali che hanno continuato a vivere in quel luogo.4 Questi due esempi hanno qualche cosa in comune: in entrambi i casi gli scienziati avevano predetto l’impossibilità per la vita di sopravvivere a tali catastrofi.
Ritornando al tema affrontato dall’autore, c’è in qualche modo bisogno di metterci in ascolto delle specie non umane che abitano la città. Tale attenzione non dev’essere solo rivolta a una mera descrizione di ciò che c’è (cosa che fa spesso l’autore, soprattutto riportando differenti esperimenti su animali in laboratorio a dimostrazione delle tesi), bensì dovrebbe attivarsi un’attenzione rivolta alla cura degli spazi di coesistenza. Viene alla mente il magnifico Manifesto del terzo paesaggio di Gilles Clément (Quodlibet, 2005), in cui i luoghi abbandonati dall’uomo, luoghi perciò stesso invisibili allo sguardo umano, possono generare rifugi. Oppure alle indicazioni circa i possibili legami o il fare parentela con le altre specie – il making kin di Donna Haraway (Chthulucene, Nero, 2019). Insomma, a partire da questo saggio di evoluzionismo urbano si può ripensare una nuova pratica dell’abitare radicalmente differente da come l’abbiamo pensata fino ad ora, basata sull’accoglienza, l’inclusività e la molteplicità, decentrando il tal modo la posizione di Homo sapiens e ibridando natura e cultura in un solo grande spazio.
Riferimenti bibliografici
M. De Giuli, N. Porcellucci, Medusa. Storie dalla fine del mondo (per come lo conosciamo), Nero, 2021.
G. Clément, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet 2005.
P. Geddes, Cities in Evolution: An Introduction to the Town Planning Movement and to the Study of Civics, Harper & Row, 1915.
D. Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, 2019.
M. Malvestio, Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene, Nottetempo 2021.
M. Schilthuizen, Darwin va in città. Come la giungla influenza l’evoluzione, Raffaello Cortina, 2021.
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Note:
2) Si veda a tal proposito: M. Malvestio, Raccontare la fine del mondo. Fantascienza e Antropocene, Nottetempo 2021; M. De Giuli, N. Porcellucci, Medusa. Storie della fine del mondo (per come lo conosciamo), Nero, 2021.
3) Database of Hibaku Jumoku Atomic-Bombed Trees of Hiroshima, Unitar.org, United Nations Institute for Training and Research: https://web.archive.org/web/20170329060433/http://www.unitar.org/hiroshima/sites/unitar.org.hiroshima/files/A-bombed%20trees%20worddoc%20as%20of%20Dec.%202011_1.pdf
4) https://theconversation.com/chernobyl-has-become-a-refuge-for-wildlife-33-years-after-the-nuclear-accident-116303
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Immagine di copertina:
© Ceslovas Cesnakevicius, tratta dal sito designboom.