[La “Monstrorum Historia” di Ulisse Aldrovandi (1642) si rilegge ora per la prima volta in traduzione italiana, a cura di Lorenzo Peka, in una bellissima edizione prodotta da Moscabianca Edizioni, pp. 320, con oltre cento illustrazioni tratte dalla stampa originale, € 24. Dell’originale (quasi mille pagine in folio) è stata operata una selezione che lo sfronda della messe erudita e gli restituisce l’ambizione tassonomica].
Se c’è qualcosa di cui abbiamo disperatamente bisogno nel nostro tempo fatto di paure sanitarie e omologazioni culturali, questo qualcosa è il mostro: ibrido e composito per natura, il mostro è una necessaria introduzione alla diversità, compagno degli incubi dei bambini e delle proiezioni degli adulti. Al mostro affidiamo le nostre paure, certamente, ma anche la nostra speranza di superare il limite, di poter essere diversi da come ci concepiamo e d’incontrare il soprannaturale. Il mostro è infatti negazione della natura, in quanto deformazione e contraddizione, ma pure strumento di oltranza, passaggio verso l’ignoto e conquista dell’alterità. «La tragedia dei mostri è di essere troppo grandi e potenti per essere accettati dal genere umano», diceva Ishirō Honda, il creatore di Godzilla, rimandando a quella dialettica tra spaventoso e curioso che rende il mostro affascinante perché è sempre, comunque, di più dell’umano, oltreumano.
Di mostri sono piene le favole, la mitologia, i romanzi, i fumetti e i film: chi non ha un mostro preferito? Il molliccio (boggart), nella saga di Harry Potter, è lo strumento magico che fa emergere la mostruosità delle paure con cui interiormente ci confrontiamo: creatura mostruosa essa stessa, ma informe, invisibile e inafferrabile, perché si manifesta solo con le sembianze di ciò che più fa paura a colui che lo incontra. Proprio perché ciascuno ha un mostro dentro di sé, il molliccio non riesce a prender forma quando si trova in una compagnia plurale.
Di mollicci, in fondo, era già pieno un libro stranissimo, catalogo di mostruosità naturali che sono più vicine alla dismorfologia (malformazioni dalla nascita) che alla teratologia (lo studio dei mostri): la Monstrorum Historia di Ulisse Aldrovandi, raccolta di casi di deformità e contaminazione che trovò una sistemazione editoriale solo nel 1642, trentasette anni dopo la morte dell’autore, per le cure di Bartolomeo Ambrosini (di fatto più coautore che solo editore). Di naturalista in naturalista, perché entrambi dovevano il loro interesse per i mostri alla fiducia che il mondo fosse comprensibile e spiegabile solo attraverso l’osservazione della natura, sulla scena del gran teatro del mondo. Erano naturali anziché innaturali o soprannaturali, i mostri, dal loro punto di vista, al punto da potervi includere Tommaso d’Aquino per la sua sapienza straordinaria, Saffo per il suo ingegno creativo e papa Clemente VI per la sua memoria prodigiosa. Tutti proto-Frankenstein, in fondo, esperimenti biotecnologici che alterano gli orizzonti dell’umano nel nome di un misto fra cause naturali e influssi celesti.
Non era certo il primo dei moderni a occuparsi di mostri, l’Aldrovandi, perché il suo solo secolo annovera il Prodigiorum liber (1552) dello Obsequens, il Prodigiorum ac ostentorum chronicon (1557) del Licosthéne, Le dix-neuviéme livre traitant des monstres et prodiges (1573) del Paré, il De conceptu et generatione hominis (1587) del Ruffius e le Histoires prodigieuses (1597-98) del Boaistuau, per non parlare della diffusissima trattatistica classica e medievale, nei conventi e tra gli umanisti, da Plinio ai popolarissimi bestiari; ma l’Aldrovandi concepiva la sua opera come un museo più che un’enciclopedia, un luogo di esposizione della realtà nella sua fenomenologia sensibile, tanto che, in effetti, la Monstrorum Historia non è altro che un ulteriore capitolo della sua trattazione dell’intero universo, dall’ornitologia fino alla botanica (annoverandosi fra i suoi titoli in vita tre volumi di Ornithologia e un De animalibus insectis, mentre la Syntaxis plantarum rimase manoscritta tra le sue carte, per la delizia di successori, rielaboratori e riscopritori). Un museo, del resto, lo realizzò concretamente, accumulando erbe e fossili per le sue ricerche. Quasi in competizione con l’Organon aristotelico, Aldrovandi è prima di tutto un compilatore seriale, accumulativo, ma è mosso da una curiosità erudita senza limiti, che lo porta a indagare ogni minimo dettaglio, da vero naturalista, se, come suggeriva Matteo Sturani in una bellissima antologia di qualche anno fa, il microscopio può diventare misura del mondo, strumento di osservazione analitica e insieme di sorpresa estetica.
Nel libro si trovano centauri, arpie, ciclopi, idre e sirene, ma anche ermafroditi, uomini pelosi e uomini selvaggi, nani e giganti, fino agli esseri ibridi, come il maiale con la testa umana o il fanciullo con la testa di rana, e quelli con malformazioni genetiche, come il pollo geminato con una sola testa, l’infante dotato di cuspide in luogo dei piedi o il gallo a tre zampe con un alopecuro minore (detto gallo grottesco). Non mancano i mostri vegetali e quelli celesti, che includono le apparizioni, come la cometa che annunciò la nascita del Cristo. Misto di superstizione, mitologia e osservazione, il libro fu criticato subito per la sua natura onnicomprensiva, incapace di distinguere tra fenomeno naturale e credenza leggendaria, al punto che centocinquant’anni dopo il grande naturalista moderno Buffon (Georges-Louis Leclerc) lo definì inutilmente prolisso, pieno di materiali inutili e propenso alla credulità; ma gli riconosceva anche capacità di classificazione, efficacia di suddivisione e precisione nella descrizione (Histoire naturelle générale et particulière).
Testimone di una cultura che ragiona in termini, in primo luogo, di collezione anziché selezione e, in secondo luogo, di sistemazione del sapere naturale, la Monstrorum Historia è una Wunderkammer che racconta storie, nel transito dalla historia naturalis alla scientia naturalis, ma sempre col gusto della digressione narrativa, dell’aneddoto curioso e dell’esemplificazione letteraria. Pressappoco e precisione, per usare la fortunata formula di Alexandre Koyré, s’incrociano e si confondono, perché l’attenzione al dato materiale si sublima in fascinazione simbolica e la storia culturale confluisce nella sistematica scientifica. Cantiere più che camera delle meraviglie, allora, il libro da trattato scientifico diventa laboratorio dell’arte del racconto, con ampio ricorso al repertorio dei mythologica, hieroglyphica, emblemata, symbola, proverbia e moralia (ben consapevole di egittologia, iconologia e astronomia rinascimentali), su una linea che giunge fino alla Foglia di fico di Antonio Pascale, il tentativo più recente e convincente di trasformare l’osservazione in principio diegetico, dalle forti potenzialità allegoriche.
Siamo in quel passaggio epistemologico che Michel Foucault ha designato come transito dalla somiglianza, su cui si fonda il sapere umanistico, alla tassonomia, che caratterizza il sapere moderno; ma di Foucault andrà richiamato soprattutto il ciclo di lezioni sull’anormalità, dove il mostro assume una funzione decisiva: essendo infrazione della norma tanto biologica quanto legislativa, il mostro porta con sé l’illecito e il proibito. Diviene figura dell’ordine politico, su cui convergono tutte le inibizioni e i controlli della società e da cui emerge quindi il principio della differenza. Portatore di un’istanza vitalistica, anziché negazione dell’ordine naturale.
La società occidentale ha infatti costruito la sua normalità – e normatività – sull’esclusione piuttosto che sull’inclusività (oggi tanto di moda all’insegna di quella prevalenza dei diritti della persona sui diritti universali che presto dovrà diventare tema di riflessione collettiva): monstrum vel prodigium è la formula del diritto romano con cui si nega la capacità giuridica. Eppure proprio il mostro potrà cominciare a farsi veicolo di comprensione della diversità e abbraccio con l’alterità, se è vero che solo i bambini, da grandi classici del cinema come The Elephant Man di David Lynch ed ET di Steven Spielberg fino a fumetti del nostro tempo come Monster Allergy, col mostro possono instaurare un dialogo, vincendo le paure ideologiche e razionalissime degli adulti: nel fumetto appena citato, anzi, ai bambini spetta la scoperta più affascinante e decisiva di tutte, che i mostri sono umani anche loro.
Aldrovandi non ha nulla a che vedere con la lettura del mostruoso proposta da Foucault cinquecento anni dopo di lui, ma potrà diventare strumento di riflessione sulle stesse problematiche, perché gl’interessa la genesi della mostruosità più che la sua oggettività strutturale (teratogenesi anziché disfunzionalità). Certo, per lui i mostri restano abiette aberrazioni, spaventosi e oscuri, ma l’immersione nel loro mondo, arricchita da splendide xilografie (fondamentale per Aldrovandi era la visualizzazione, tanto che coinvolse un’intera bottega di artisti nell’illustrazione dei suoi scritti, da Jacopo Ligozzi, Lorenzo Bernini e Agostino Carracci fino ai tedeschi Christopher Lederer e Cornelius Schwindt), consente di prenderli per mano, affiancarglisi e giocarci più di quanto non fosse mai stato fatto fino ad allora. Perché i mostri sono i nostri compagni quotidiani, il male con cui dobbiamo convivere che può diventare principio di bene, di fiducia e di apertura. Why can’t they call me the Adorable Snowman, or the Agreeable Snowman, for crying out loud? («Non potevano chiamarmi l’adorabile uomo delle nevi o il simpatico uomo delle nevi, per la miseria?»), grida lo Yeti nel film d’animazione Monsters &Co., dove i mostri sono terrorizzati dai bambini con cui sono costretti a confrontarsi.
Opera ibrida per eccellenza, questa Monstrorum Historia, mostruosa anch’essa, in fondo, frutto di quattro mani oggi indistinguibili, nata in quella cultura umanistica per la quale non esistevano confini tra lettere e scienze, ma approdata a letture quasi solo sul versante naturalistico, fusione di osservazione e racconto, tra antropologia e fisiologia, inclusiva anziché selettiva, persino genderqueer e certamente intersectional, se vogliamo: va riletta senz’altro, per nutrire l’immaginazione, confrontarsi con le emozioni e interrogarsi sul mistero.
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Immagine di copertina:
© Sabrina Manfredi, Drago, 2016 (“Parco dei Mostri”, Sacro Bosco di Vicino Orsini, 1547, Bomarzo)