[Pubblichiamo la Prefazione di Luca Negrogno al libro di Giuseppe Caroli, L’Io e la sua ombra, Kimerik, 2022].
«La posta in gioco delle lotte relative al senso del mondo sociale è costituita dal potere sugli schemi di classificazione e sui sistemi classificatori che stanno alla base delle rappresentazioni e, attraverso queste, della mobilitazione e smobilitazione dei gruppi. […] Potere che separa, distinzione, diacrisis, discretio, che fa emergere la differenza dal continuum indivisibile delle unità discrete, da ciò che è indifferenziato» (Pierre Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, 1983).
La pretesa oggettività delle classificazioni diagnostiche è stata ampiamente criticata nei suoi presupposti ancora legati al positivismo ottocentesco. Gli ambiti di attenzione che finiscono sotto lo sguardo delle discipline psy sono condizioni esistenziali per leggere le quali la forma tradizionale del rapporto soggetto oggetto deve essere messa in discussione da vari punti di vista. In primo luogo, è da mettere in discussione l’idea che la “malattia mentale” abbia un’esistenza indipendente e universale attraverso il tempo e le culture; in secondo luogo deve considerarsi che la definizione di queste condizioni esistenziali e relazionali come “disturbi” o “malattie”, secondo un modello medico, tende a giustificare l’orientamento della maggior parte delle risorse destinate alla ricerca verso il campo biologico, oscurando l’importanza dei fattori sociali e dell’organizzazione dei servizi come causa di sofferenza. In generale, la concettualizzazione delle condizioni esistenziali e dei comportamenti insoliti come disturbi, sul modello dei concetti medici, mettendo in ombra gli aspetti simbolici e discorsivi del corpo, delle sue funzioni e disfunzioni, impedisce di guardare agli affetti come incorporazioni di storia, cultura e relazioni sociali. Allo stesso modo, reificando e ipostatizzando pratiche sociali politicamente e culturalmente situate, tale distorsione semplifica i complessi rapporti tra mondo e coscienza appiattendoli sulla inerte relazione tra oggetti e cognizioni. Gravido di conseguenze etiche e politiche, l’altro punto che è necessario superare è la supposta neutralità della posizione dell’osservatore: ponendosi come neutrale riproduce in realtà valori istituzionali, forme di privilegio, metafore saturanti che tendono inevitabilmente a marginalizzare evidenze, esperienze e testimonianze prodotte al di fuori dai parametri positivistici. Tali riflessioni possono applicarsi oltre che ai modelli descrittivi diagnostici basati sui “disturbi” anche a quelli basati sul “funzionamento” nella misura in cui riproducono in maggiore o minore misura le stesse problematiche.
Nel campo dei saperi psy proliferano modelli semplicistici e inappropriati di casualità: biologici (es.: “l’eccesso di dopamina causa la schizofrenia”), psicologici (es.: “l’abuso sessuale causa l’udire le voci”), sociali (es.: “la povertà causa la depressione”), il cui portato potenzialmente ritraumatizzante si aggrava quando tali supposti meccanismi generativi vengono usati per legittimare paradigmi di intervento che favoriscono esclusione, invalidazione, sottrazione di diritti; da questo punto di vista resta urgente la necessità di analizzare tali modelli soprattutto in quanto dispositivi adeguati a particolari modelli di economia politica, gestione delle “eccedenze” sociali, regolazione dei flussi sul mercato della forza-lavoro. È sempre più evidente la necessità di sviluppare contro-narrative rispetto al modello dominate dei saperi “psy”, anche nei contesti istituzionali, consapevoli del rischio che, nella ricerca classica, il supporto empirico di una teoria dominante possa venire dal fatto che i presupposti teorici assunti aproblematicamente, i metodi di ricerca e gli standard di evidenza possano essere più facilmente corrisposti solo grazie al fatto che essi sono compatibili con gli interessi e i valori dominanti. D’altra parte, ricorsivamente, metodi basati su assunti circa la natura degli oggetti fatti materia di indagine notoriamente tendono a produrre osservazioni che confermano quegli assunti.
Per ricostruire una critica alla piatta omologazione prodotta dal furore classificatorio e oggettivistico dei saperi psy si possono valorizzare vari spunti teorici, attingendo da diverse tradizioni di pensiero. L’individualizzazione, la medicalizzazione della devianza, il riferimento a caratteristiche intrapsichiche patologiche per determinare l’elegibilità rispetto alle misure di welfare; il lavoro su sé come compito che abilita alla fruizione dei diritti di cittadinanza, i rapporti tra culture trattamentali e andamenti del mercato della forza lavoro: si può partire dai classici spunti marxisti e post-strutturalisti fino a svolgere, in ottica intersezionale, l’interrogazione sulla violenza strutturale e sistemica, sulla marginalizzazione dei gruppi sociali subalterni nella produzione di saperi rispetto a se stessi. A fianco di alcune prospettive cognitiviste “radicali”, che rifiutano l’assunto positivistico della “internità” delle cognizioni, nella letteratura recente 1 vengono valorizzati gli approcci costruttivisti come valida opposizione all’essenzialismo ingenuo, come strumenti di attenzione ai molteplici “looping effect” che caratterizzano questo campo: tra gli individui diagnosticati e i sistemi sociali di classificazione, tra la possibilità di raggiungere alti livelli di “impact factor” pubblicando su riviste scientifiche e la diffusione delle categorie diagnostiche, tra i modi di definire gli oggetti medici e i modi politici di oggettivare i problemi. Tali prospettive sono compatibili con un realismo critico, che salvaguardi il valore dell’esperienza e della sofferenza vissuta pur dichiarando l’infondatezza empirica ed ontologica delle categorie diagnostiche. Alcune riflessioni recenti 2 hanno utilizzato in tal senso le filosofie processuali, sistemiche ed ecologiche, che aiutano nell’apprezzare l’impatto e il significato di fattori contestuali come povertà e discriminazioni (e di come essi possono essere riprodotti dall’intervento dei servizi). Gli approcci di liberazione e giustizia sociale sono stati utili a mostrare come ciò che viene definito sintomo può essere una comprensibile risposta a particolari situazioni di minaccia o invalidazione; gli approcci dei movimenti di users e survivors hanno permesso di evidenziare l’ingiustizia ermeneutica e la violenza epistemica implicate dai modelli dominanti; le prospettive femministe e la psicologia indigena consentono di ricostruire il senso delle esperienze dei gruppi marginalizzati.
Questo rinnovamento della riflessione sul nodo della classificazione, vale a dire sul tema metafisico dei nomi, del rapporto tra sistemi definitori e la realtà degli oggetti definiti, viene dopo un ventennio di forte marginalizzazione di questi temi all’interno della produzione dei saperi psy. La tendenza alla interpretazione oggettivistica del rapporto tra i sistemi nosografici e le entità da essi designate ha dominato la scena culturale negli anni ’80 e ’90 del Novecento, riprendendo terreno dopo l’era dei dibattiti critici che hanno caratterizzato gli anni ’60 e ’70. Tali dibattiti critici erano stati intimamente legati ai processi di deistituzionalizzazione. In particolare in Italia questo dibattito aveva assunto una forma peculiare: esso era orientato infatti all’invenzione di nuove forme organizzative e istituzionali per separare il mandato della cura da quello della custodia, per approfondire la questione della cura come funzione di un rinnovamento generale del legame comunitario, per realizzare un modello di servizio sanitario che fosse all’altezza di una società democratica. Gli anni ’80, contestualmente ad una stagione di riflusso politico e sociale, hanno visto anche il recupero di terreno da parte di un approccio “neo oggettivista” al rapporto tra sistemi classificatori ed entità da essi designate. Riprenderemo le tematiche del movimento anti-istituzionale italiano introducendo il secondo volume dell’opera di Giuseppe Caroli; qui non possiamo che limitarci ad alcune riflessioni generali.
A partire dagli stimoli che abbiamo citato in apertura, potremmo definire la posizione di Giuseppe Caroli come nominalismo dinamico: quando usa termini come “isteria”, “schizofrenia”, “personalità multipla”, il suo sforzo è quello di descrivere condizioni esistenziali al di là, o al di qua (per ora non chiariamo dove è il confine), di specifiche classificazioni nosografiche. Il suo tentativo, di cui questo libro è solo un primo passo in un programma più ampio, è quello di collocarsi oltre le distinzioni disciplinari, in un luogo di indecisione in cui le tassonomie psicopatologiche, pur presenti, ritraggono la loro pretesa descrittiva, oltre che esplicativa, per lasciare spazio a considerazioni antropologiche che investono l’esperienza umana “tutta” (vale a dire complessivamente nel tempo, più o meno dal paleolitico a oggi) proponendo letture “asistematiche” – non di una pretesa “natura umana” ma piuttosto della dimensione di senso di un complesso di esperienze condivise: il porsi come problema sociale la propria morte, il prefigurare l’universo come campo esplorabile, il cogliere l’ambivalenza delle organizzazioni istituzionali necessarie a sopravvivere in modo cooperativo. Tale ambivalenza, tema centrale nel testo di Caroli, permette di volgere uno sguardo ampio all’esperienza umana nel rapporto con le istituzioni, le quali costituiscono un ambito di forte investimento affettivo, in quanto necessarie alla sopravvivenza, ma sono pure fonte di limitazioni, frustrazioni, oppressioni. Come iniziamo a vedere, il campo in cui si pone Caroli trascende i limiti della psicopatologia per entrare in una riflessione – centrale in tutta la storia del pensiero europeo – a proposito della natura del patto sociale e di ciò che ne resta fuori.
La posizione di Caroli emerge da una stratificazione di esperienze umane e professionali che mi sembra utile riassumere brevemente: medico psichiatra, ha lavorato prima in uno dei servizi territoriali legati al manicomio in via di dismissione (secondo la tesi di Jervis, che comportò aspri dibattiti all’interno di Psichiatria Democratica), poi nell’ambito dei servizi pubblici in cui “la politicizzazione della scienza si è trasformata in ideologia semplificatoria” (parole sue, che approfondiremo nel prossimo volume…), poi nello spazio privato in cui, a pagamento calibrato secondo le condizioni dell’utente (non richiede l’ISEE) egli dichiara di “non usare più alcuna tecnica” ma di fare affidamento solo sulla possibilità di costruire una relazione. La sua formazione psicoterapeutica è avvenuta nella scuola sistemica di Milano, per la quale ha svolto anche la funzione di formatore e supervisore; il suo impegno in questo senso ha toccato anche vari servizi pubblici sanitarie sociali, principalmente per l’amministrazione comunale di Modena. Le posizioni che emergono da questo libro, oltre ad affondare le radici in questa esperienza, poggiano anche su una vasta conoscenza della psicoanalisi e delle discipline etnografiche, utilizzate qui come ulteriori sostegni alla scelta di definire uno scarto nei confronti delle tassonomie psicodiagnostiche: le sindromi, come lui preferisce dire, sono non-oggetti, sistemi complessi di fenomeni che si prestano all’esperienza in una determinata condizione relazionale, collocandosi su diverse dimensioni di senso variamente stratificate e interagenti tra loro. DSM e ICD sono dunque da rifiutare perchè, dice Caroli, nella loro furia amministrativa, hanno perso qualsiasi possibilità di contatto con l’esperienza delle persone che si incontrano e che potrebbero essere aiutate.
Più che essere oggetto di critica estetica, il cinema appare qui come un dispositivo di scambio, un trasduttore che funziona in due direzioni: da una parte attraverso questo dispositivo le condizioni “psicopatologiche” sono inserite in una trama: inevitabilmente così il gioco delle classificazioni è sottoposto e ricondotto ad un gioco ulteriore, quello dello spettacolo – per cui il godimento dell’azione, la sua scarica, prende il sopravvento sulla credibilità e il realismo delle definizioni, che si incarnano in dinamiche attraversate da processi catartici, proiettivi, mistificatori o di ironico nascondimento; d’altra parte le classificazioni psicopatologiche, attraverso il caleidoscopio cinematografico, sono ricondotte ad un sistema sociale di conoscenze (forse sarebbe meglio dire “credenze”?), che investono il campo dei “saperi psy” in modo situato (Caroli cita il positivismo europeo, la Grande Depressione, la tensione romantica all’indagine del “profondo”, il ruolo sociale della psicoanalisi negli Stati Uniti d’America e in Europa nel secondo dopoguerra…). Tale doppio dispositivo permette di considerare l’interazione tra il campo dei saperi psy e la loro rappresentazione pubblica: uno dei principali meriti del libro è proprio quello di osservare le rappresentazioni cinematografiche congiunte della psicopatologia e della figura dell3 psichiatr3, nella loro particolare interazione situata in determinati contesti storico sociali. Mentre nella trama la condizione dell’individuo etichettato si scioglie in una restituzione di soggettività – con cui sono possibili processi di identificazione e disidentificazione, nella storicità relativa delle interazioni tra classificati e classificanti si apre uno squarcio sulle condizioni sociali di esistenza della scienza e della disciplina pratica ad essa connessa. Ironicamente si potrebbe dire che si passa dal “portare la peste” di Freud diretto alla volta degli Stati Uniti d’America ad una più profonda analisi delle interazioni tra l’agente patogeno e il sistema immunitario che ne viene colpito. In questo cogliamo un ulteriore slittamento nella prospettiva di Caroli: nella interazione tra sistemi classificatori psicopatologici e soggetti classificati, alla luce del dispositivo cinematografico, emergono i riferimenti alle grandi immagini «originarie», le enantiodromie eraclitee – i simboli che tengono insieme il tutto mentre sfocia nel suo contrario, secondo la lezione di Jung.
Questo interesse alla continuità simbolica del tutto porta Caroli ad affrontare questo denso campo di tensioni attraverso il continuo interscambio tra saperi psy e discipline antropologiche, chiarendo grazie a queste ultime i punti in cui le esperienze umane eccedono i sistemi definitori delle classificazioni diagnostiche e si presentano come possibili temi di un racconto che prenda le mosse dalla dimensione irrazionale, legata a quell’inconscio collettivo ricco di miti sempre operanti. Sono costanti i rimandi ai materiali etnografici, con il fine di cogliere corrispondenze tra le nostre figure topiche e le esperienze che accompagnano la specie umana a partire dai primi insediamenti stabili, dall’emergere dell’agricoltura, dalla costruzione di abitazioni e dalla definizione di allevamenti. Centrale è il tema mitologico dell’ombra che viene letto attraverso un ventaglio molto ampio di produzioni culturali e materiali etnografici: dalle popolazioni “primitive” a Peter Pan, dal doppelgänger al Vampiro, fino a Goethe e Dostoevskij. Merita una citazione la storia di Peter Pan la cui analisi, inserita nell’ambito più ampio delle controverse rappresentazioni mitologiche dell’ombra, passa per la storia del suo autore scozzese James Matthew Barrie, la cui opera viene letta alla luce di una complessiva agitazione morale della modernità rispetto ai ruoli familiari, ai generi e alle forme di oppressione che questi suscitano. La mostruosità del doppio, altro tema letto sulla base di elementi psicoanalitici ed etnografici, rimanda da una parte alle molteplici raffigurazioni presenti nelle tradizioni popolari e dall’altra alla tendenza moderna alla produzione di una “scienza” tutta rivolta alla proiezione della propria costitutiva instabilità su figure del “diverso” inteso come nemico, da definire, catalogare e controllare tecnicamente, mettendo a rischio la possibilità stessa di esistere con la propria costitutiva ambivalenza. Inevitabilmente la questione posta da Caroli sfocia verso una prospettiva tragica: l’umano tende ad estinguersi, data l’incapacità di trovare una condizione equilibrata tra l’oggettivismo delle definizioni e la afasia mistica, tra la libertà di parola e le patrie identitarie, tra l’evoluzione tecnologica che fagocita i miti e la necessità di confrontarsi con l’ambivalenza della propria ombra. Caroli suggerisce la possibilità di una specie diversa, che possa raccontare la storia della fine dell’homo sapiens sapiens, in un finale che risuona con le attuali riflessioni sull’antispecismo e sulla necessità di mettere in discussione il nostro posizionamento ecologico presuntuosamente “egemonico”.
Annodando i fili dell’antropologia, della psichiatria e del cinema Giuseppe Caroli restituisce un testo in cui la comprensione della psicopatologia risulta inscindibile da una riflessione sulla specie umana e il suo destino, costitutivamente stretto tra una pulsione di controllo e ordinamento “positivo” del mondo e i misteriosi effetti della sua coimplicazione tra debolezza e conato a sussistere. Perdendo la possibilità di apprezzare le ambivalenze nella condizione umana, in un contesto culturale in cui proliferano e dominano i modelli descrittivi della psicopatologia oggettivista, siamo a rischio di non saper più in nessun modo relazionarci con le condizioni esistenziali e i comportamenti umani, di non poter sviluppare più alcuna comprensione, di non poter produrre più alcun racconto. Ciò che era oscuramente espresso dal mito, che nelle tradizioni popolari e nei materiali etnografici ci ritorna come esercizio sempre incerto della capacità umana di sopportare l’ambivalenza, oggi si disperde con la totale oggettivazione. In qualche modo Caroli sembra dire che una volta persa la funzione del mito diventa impossibile cogliere le dinamiche proiettive, semplificatorie, in alcuni casi propriamente “sacrificali”, intrinseche ad ogni nostra oggettivazione. L’incomprensibilità delle condizioni esistenziali e dei comportamenti abnormi – la loro irriducibile “alterità” – resta infatti il duro nucleo dei modelli tassonomici e delle spiegazioni eziologiche psy. Ma quando tutto è oggettivato la specie non può che essere al suo tramonto, si aspetta qualche altra specie che venga a raccontare la nostra fine.
Riprendiamo brevemente gli spunti offerti dal costruttivismo sociale per porre in luce un campo di ricerca che il libro di Caroli permette di aprire, tenendo insieme nell’analisi le condizioni esistenziali con la loro rappresentazione socialmente condivisa. Il cinema a questo punto – macchina di godimento – propone nuovi stili di ragionamento, quanto mai utili. Marica Setaro riporta che “Hacking tende a sottolineare come ci sia una interattività relazionale tra i soggetti, fra le conoscenze comunemente accettate, fra i comportamenti”. Sempre secondo Setaro tale riflessione, che tiene insieme stili di ragionamento e nominalismo dinamico, «consente di capire sia la nascita di un concetto sia come esso, descrivendo un comportamento umano, crei un campo di possibilità di fare esperienza di se stessi e di costruire un’identità».3 Collegato ad esso, allo stile tassonomico di pensiero, deve necessariamente stare la riflessione sulle possibili interattività della classificazione, sulla interazione tra categorie e tipi umani che in esse vengono inseriti. Dice Ian Hacking: «io sono affascinato dalla dinamica della relazione tra le persone che sono oggetto della conoscenza, la conoscenza che verte su di loro, e quelli che detengono questa conoscenza. (…) L’individuo classificato si modifica solo per il semplice fatto che è classificato. Di conseguenza, siccome le persone classificate cambiano, la nostra conoscenza di questa classe di persone deve essere rivista, e anche i criteri di applicazione del nome della classe sono modificati».4 In un pensiero che allude ad una condizione post-antropocentrica, attraverso l’articolazione di strumenti teorici psichiatrici e antropologici e la focalizzazione situata nel campo della rappresentazione filmica e letteraria, Caroli permette di osservare delle “singolarità”: specifiche condizioni esistenziali al di fuori dalla loro oggettivazione da parte dei saperi psy – su un piano in cui si incontrano perpendicolarmente le diverse modalità di lettura dell’esperienza umana. Non si tratta di verità metastoriche ma della reciproca influenza tra forme di classificazioni, cultura popolare e detentori della conoscenza – come abbiamo visto, la particolare operazione di Caroli dell’osservazione degli psico-film non riguarda solo l’analisi critica dell’articolazione del sapere psichiatrico che essi propongono ma si articola nell’analisi di quale immagine del sapere psy essi creano e della forma di legittimazione pubblica dei suoi detentori ad essa corrispondente, in una sorprendente vicinanza con lo sforzo di ricerca di Ian Hacking. D’altra parte non è forse il cinema, come ha scritto recentemente Carmen Albanese, «il luogo in cui l’esperienza del singolo e quella collettiva si incontrano, il luogo che forse cerchiamo su uno schermo»?
La stessa centralità del tema dell’ambivalenza può essere messa in relazione con un importante assunto dell’epistemologo canadese: la comparsa di particolari “manifestazioni patologiche”, con il suo corredo di forme classificatorie ed eziologiche, risponde, tra le altre cose, alla presenza di una specifica polarità culturale che si afferma in un determinato contesto sociale in cui un particolare elemento può essere oggetto di valutazione contemporaneamente positiva e negativa. In altri termini, la manifestazione di una categoria classificatoria e del comportamento ad essa relativo si inscrive in una sorta di nicchia ecologica permessa dall’esistenza di una specifica tensione tra due elementi – contrastanti ma intimamente legati – della cultura ad essa contemporanea. Per esempio, la “dromomania” e le sue epidemie compaiono in Francia soprattutto presso la popolazione della classe media, mentre nel frattempo si sviluppava l’attenzione poliziesca contro il vagabondaggio criminale delle “classi pericolose” e mentre cresce il turismo internazionale delle classi privilegiate. “Fuggire”, quindi, arriva a configurarsi come specifica malattia psichiatrica proprio nel contesto sociale e culturale in cui questa stessa azione è caratterizzata dalla massima ambivalenza rispetto al suo significato e al giudizio morale che le è attribuito. Accumulare relazioni, cibarsi, controllare la propria fitness, curare un “self” mutevole e resiliente, pronto ad adattarsi a molteplici esperienze irrelate, non sono altrettante condizioni di polarizzazione culturale che hanno come oggetto esperienze ambivalenti, la cui manifestazione patologica prende le forme di vere e proprie epidemie?
L’intreccio tattico che si pone fuori dagli steccati disciplinari restituisce una forma di posizionamento che saremmo tentati di definire umanista se non fosse lo stesso Caroli a chiarire che non c’è niente di umano da salvare, se non un’ombra, rimasta sul muro durante un’esplosione nucleare: è una forma di rifiuto del soggetto; riecheggiano in essa la critica al “soggetto supposto sapere” e la messa in discussione del ruolo di intellettuale. Solo occupando una posizione di liminalità tra le discipline Caroli riesce a cogliere un non-oggetto, una singolarità che si dà nel suo essere relazionale piuttosto che nel suo essere definito come oggetto, non nel senso di qualcosa di essenzialistico che stia al di sotto delle categorie definitorie evolutesi dall’arcaico al moderno, ma di una configurazione mobile delle articolazioni esperienziali e concettuali che ha a che fare con i sistemi di relazioni in cui le strutture della nostra specie dislocano, immersa nell’ambivalenza, la nostra libertà di scelta.
Leggendo il libro di Giuseppe Caroli torna in mente un altro libro che tentava di farla finita con l’umanesimo, Le parole e le cose di Michel Foucault, in cui disfarsi dell’uomo era il modo per cogliere le intersezioni creative tra le discipline. Leggendo le pagine di Caroli sull’ombra e il doppio torna in mente la riflessione foucaultiana sul rapporto tra saperi psy e discipline antropologiche:
«psicoanalisi ed etnologia potrebbero quindi articolarsi l’una sull’altra non già al livello dei rapporti tra individuo e società, come si è spesso creduto; queste due forme di sapere sono prossime non già perché l’individuo fa parte del suo gruppo, non già perché una cultura si riflette e si esprime in modo più o meno sviante nell’individuo. Esse non hanno, a dire il vero, che un punto comune, ma tale punto è essenziale e inevitabile: è quello in cui si tagliano ad angolo retto: la catena significante attraverso cui l’esperienza unica dell’individuo si costituisce, è in fatti perpendicolare al sistema formale a partire da cui si costituiscono i significati d’una cultura: ad ogni istante la struttura propria dell’esperienza individuale trova nei sistemi della società un certo numero di scelte possibili (e di possibilità escluse); inversamente le strutture sociali trovano in ognuno dei loro punti di scelta un certo numero di individui possibili (e altri che non lo sono), allo stesso modo in cui nel linguaggio la struttura lineare rende sempre possibile, a un certo momento, la scelta tra più parole e fonemi (escludendone tutti gli altri)».5
Seguendo l’indicazione di Caroli dobbiamo situarci allora su questo angolo di intersezione e lavorare congiuntamente sulla relazione come possibilità di cura del vivente, su come si genera e si diffonde la «rappresentazione sociale della follia» (riprendendo Scheff, Per infermità mentale)6, su come si costruiscono le «carriere morali» dei «classificati» (riprendendo Goffman),7 su come si può erodere il riduzionismo scientifico e lo snodo di poteri e saperi ad esso connesso che ha chiuso lo spazio di queste riflessioni per affermare L’istituzione del male mentale (è il titolo di un libro importante degli anni ’90 di Furio Di Paola, su questi temi).8
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Note:
1) Ian Hacking, Plasmare le persone. Corso al Collége de France (2004 – 2005), Quattroventi, 2008.
2) Power Threat Meaning Framework, British Psychological Society, 2018, in preparazione la traduzione italiana.
3) Marica Setaro, L’epistemologia storica dei concetti: una questione di stile. Confronto a distanza fra Ian Hacking e Arnold I. Davidson, Medicina e Storia, X, 2010.
4) Ian Hacking, cit.
5) Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli, 2016.
6) Thomas J. Scheff, Per infermità mentale. Una teoria sociale della follia, Feltrinelli, 1980.
7) Erving Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, 2010.
8) Furio G. Di Paola, L’istituzione del male mentale. Critica dei fondamenti scientifici della psichiatria biologica, Manifestolibri, 2000.
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Immagine di copertina:
Dante Gabriel Rossetti, How They Met Themselves (particolare), 1851-1860, Fitzwilliam Museum, Cambridge