Negli ultimi quattro anni ho studiato molto e parlato con decine e decine di “psi” – psichiatri, psicoanalisti, psicoterapeuti, psicologi – per provare a raccontare in un libro il modo in cui viene concepito il disagio psichico nella nostra “società degli individui”. L’idea – una pazza idea, di sicuro, data l’ampiezza e la smisuratezza delle questioni in gioco – mi nacque dopo la lettura di Mark Fisher. Quella fu la scintilla, dopo la quale mi avventurai in un dedalo felice.

(E mi pare allora quasi destinale il fatto che il mio libro uscirà, a febbraio prossimo, per minimumfax, che è l’editore di tutte le opere di Fisher).

In quelle pagine che furono la scintilla iniziale, Fisher diceva che la biologizzazione e la farmacologizzazione del disagio psichico erano tra le questioni più rilevanti, profonde e politiche della nostra era – di questa “società degli individui”, come mi sembra opportuno denominare la civiltà ipermoderna neoliberale, quella che prese corpo definito negli anni Ottanta, all’insegna del motto thatcheriano: «Non esiste nulla che possa definirsi società. Esistono gli individui, i singoli uomini e le singole donne, ed esistono le famiglie».1

«La chemio-biologizzazione della malattia mentale è strettamente legata alla sua de-politicizzazione», scriveva Fisher.2 Se ogni disagio psichico è causato da un’anomalia chimica nel cervello, allora non serve chiedersi se c’è qualche determinante patogena nella società stessa. Che “non esiste”, appunto. Questo non significava certo per lui sostenere un determinismo – che sarebbe schematico e banale – tra cause sociali e disagio psichico.

Si tratta invece di uscire da ogni forma di riduzionismo, e focalizzarsi sui punti di intersezione tra psiche individuale e psiche sociale, tra mente singolare e mente estesa. Focalizzarsi, insomma, sulla natura relazionale della psiche e della mente, in ogni senso. Cosa che non è una mera petizione di principio, ma è sia un dato acquisito nelle ricerche epidemiologiche che attestano i determinanti sociali della salute, sia il movimento stesso delle scienze – le scienze cognitive, la neurobiologia, l’epigenetica – che mostrano l’unità biopsichica dell’umano, la caratteristica naturalculturale della sua esperienza esistenziale, e che mostrano come questa unità biopsichica sia in una costante interazione con le altre, ovvero che la relazione tra gli enti è il luogo di tutti i problemi e di tutte le possibilità. Per dirla con le parole di un grande psichiatra statunitense, fondatore della neurobiologia interpersonale, Daniel J. Siegel, «[i]l Sé non è un sostantivo singolare, ma un verbo plurale. Non siamo un Sé isolato e separato, ma un processo costantemente emergente di “creazione del Sé” collegato ad altri Sé in evoluzione».3

Invece, nella società degli individui che ci ha educato a concepire la mente come qualcosa di assolutamente individuale, e organicamente determinato, la psichiatria egemone ha messo in un angolo le prospettive della psichiatria psicosociale (quella che ha vissuto il suo momento più intenso nella stagione basagliana, per intenderci) ed è tendenzialmente riduzionista. Ossia, riduce la malattia mentale a una questione organica. Nella narrazione oggi egemone, la natura relazionale della persona umana, la sua natura sociale, scompare: scompare la sua storia, scompare la parola. Ciò che resta è solo la dimensione organica – il cervello, le reazioni chimiche: e qualsiasi forma di sofferenza psichica viene farmacologizzata. Come si prende l’insulina per il diabete, così si dovrà convivere tutta la vita con la propria patologia mentale, e prendere il farmaco: questo mantra risuona negli ambulatori di ogni tipo. È come per il diabete! ti dicono. Che una persona sia nevrotica o psicotica, per restare alla partizione di Freud; che sia la persona depressa che conduce una vita “normale”, o la persona “schizofrenica” – ciascuno viene ridotto al suo sintomo, per ogni sintomo c’è una diagnosi, e per ogni diagnosi c’è una “cura” farmacologica. In questa narrazione egemone, il disagio psichico nasce da un cervello rotto, motore in panne da riparare: e lo si ripara con uno psicofarmaco.

Per fare giusto uno tra molteplici esempi dell’egemonia della psichiatria organicista, o – come penso sia più corretta chiamarla – biomedico-burocratica, citerò quel che ha detto il primario di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza all’Ospedale del Bambino Gesù, Vicari, intervistato da Repubblica sulle motivazioni di autolesionismo moltiplicati durante la pandemia:
«Le motivazioni non sono così determinanti. È un atteggiamento figlio di uno psicologismo vecchia maniera: se arrivi in pronto soccorso con l’infarto, ti importa poco sapere il perché quello che conta è di essere curato. Le cause sono importanti ma secondarie. Le malattie mentali sono malattie, hanno una base biologica e sono il risultato di processi lunghi. La familiarità è il primo fattore di rischio. La leggenda del trauma di psicanalitica memoria è stata ridimensionata da un pezzo. Dobbiamo iniziare a pensare ai disturbi mentali come a vere e proprie malattie, come lo sono il diabete e l’ipertensione, con una base biologica e genetica e fattori ambientali che possono favorirne la comparsa».

Che il «trauma di psicanalitica memoria», come si esprime Vicari, sia stato ridimensionato da un pezzo è solo la prospettiva di una certa psichiatria (e anzi, l’epigenetica – che mostra come gli eventi psicosociali modifichino il sistema nervoso e immunitario e retroagiscano sul genoma – ha verificato con evidenza come traumi infantili modifichino il cervello). E soprattutto, il concetto biologico-genetico di “malattia mentale” non è così nuovo tanto che “dobbiamo iniziare” a pensare in questo modo, piuttosto è esso stesso non solo divenuto egemone, ma è già vecchio e scientificamente superato (la teoria dello squilibrio chimico, per esempio, entrata nel senso comune, è totalmente invalidata dal punto di vista scientifico). Sarebbe invece l’ora di ripensare la mente nella sua natura relazionale, sociale, politica, che non è solo un’istanza filosofica, ma una realtà scientifica, che si fonda sulla neurobiologia, l’epigenetica, la psicologia.

Insomma, la psichiatria istituzionale si incentra sull’individuo, e sull’organo, questa è la psichiatria nell’era della “società degli individui”, dove l’oggettivismo di Kraepelin è assolutamente funzionale all’individualismo della società, e costituisce un’ideologia perfettamente funzionante, dove l’ideologia non è solo un insieme di concetti, ma anche e soprattutto di pratiche, norme, relazioni, istituzioni. Invece alla psichiatria toccherebbe occuparsi dei fattori contestuali e soggettivi delle persone, nella consapevolezza che la malattia non è un oggetto da conoscere e su cui esercitare un sapere, ma è un’esperienza esistenziale, per cui anzitutto sono necessari ascolto, solidarietà, affettività, accoglienza.

Per questo mi sono messo a studiare la questione a parlare con decine e decine di “psi”: da una parte per capire che cosa ci raccontano della nostra società i disagi psichici più rilevanti e diffusi (ansia e depressione nella società della prestazione; ritiro sociale e anoressia; disturbi di panico; disturbo borderline); dall’altra per capire come è strutturata “la scienza che cura la psiche” – la psichiatria –, e in che modo essa concepisce quella psiche che si propone di curare, a partire dalle sue pratiche, (individuando non solo la sua cecità alla relazione di cura, ma anche le buone pratiche che indicano un altro modo possibile – a partire da Trieste, ma non solo). E ho cercato di raccontare come il nostro “senso comune” non sappia riconoscere nei disagi psichici prevalenti i segni che contraddistinguono la nostra epoca, confinandoli troppo spesso a disturbi individuali e organici; e come faccia lo stesso anche la psichiatria egemone, misconoscendo la natura relazionale della salute mentale, e confinando “la malattia” all’individualità isolata del corpo e della psiche.

È questa, allora, la grande questione inumana della nostra epoca: che l’essere umano ha una natura relazionale, e noi ci siamo abituati a concepirci come individui isolati.

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Note:

1) Margaret Thatcher, Aids, education and the year 2000!, intervista a Woman’s Own, 31 ottobre 1987, pp. 8-10.
2) October 6, 1979: Capitalism and Bipolar Disorder.
3) Daniel J. Siegel, La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale, Raffaello Cortina 2013, p. 217.

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Immagine di copertina:
fotogramma da Hwang Dong-hyuk, Squid Game (오징어게임), ep. 4, 2021, Netflix.