«Cosa orienta diverse persone a chiedere di alternare le sedute in presenza nello studio con quelle da remoto? In pratica, questi soggetti propongono una modalità analoga a quella che sperimentano nella loro attività professionale là dove lavorano alcuni giorni in smartworking e altri in ufficio. Tale piega presa dalle proprie attività ha la stessa validità e la stessa efficacia nel campo della messa al lavoro specifica della clinica psicoanalitica?» (Roberto Pozzetti, Bucare lo schermo. Psicoanalisi e oggetti digitali, Alpes, 2021, p. 225).
Queste sono le questioni fondamentali trattate da Roberto Pozzetti in Bucare lo schermo. Psicoanalisi e oggetti digitali. Attraverso un percorso accurato, il saggio conduce il lettore ad approfondire tematiche fondamentali nella definizione dell’oggetto digitale, a partire dalla questione del padre nella psicoanalisi – attraverso le trattazioni di Freud e Lacan –, e dallo statuto dell’oggetto nella storia della disciplina.
L’oggetto digitale gode di una definizione e di una dimensione peculiare rispetto all’idea di oggetto feticcio, il cui ruolo è di sublimare il desiderio. Nel terzo capitolo l’autore si occupa nello specifico delle sue declinazioni, in relazione ad alcuni dei temi più centrali nella questione educativa contemporanea, ovvero la noia, lo stress da video nell’età evolutiva, la relazione mediata dai dispositivi. L’autore offre un’analisi convincente di problematiche che oggi impegnano genitori e insegnanti, sia nell’ambito della famiglia sia in quello della scuola. I soggetti trasformano la comunicazione attraverso i dispositivi digitali, e questa trasformazione incide sulla comunicazione in senso lato, sulla vita e sulla psicologia di giovani e adulti.
Con riferimento alle riflessioni dell’antropologa Mary Douglas, e al suo lavoro dedicato al buon gusto, Pozzetti sostiene che per quanto riguarda i pre-adolescenti, adolescenti e giovani,
«[c]onsumare […]in modo compulsivo video su Tik Tok oppure su Instagram, per ore consecutive, costituisce una sorta di scelta culturale che implica l’adesione a una collettività più o meno immaginaria composta da coloro che frequentano quel social “per adulti” come Facebook o Twitter» (p. 125).
In questa prassi quotidiana per milioni di adolescenti in tutto il mondo gioca un ruolo determinante la noia, a cui Pozzetti dedica pagine molto toccanti. Cosa sia la noia non è affatto una domanda facile a cui rispondere. Ormai percepita come una sensazione ingombrante, di cui liberarsi attraverso lo scrolling infinito sui social, in realtà, come scrive l’autore,
«[l]a noia, in modo analogo a una più estesa insoddisfazione esistenziale, costituisce l’humus per lo sviluppo di una propria creatività e di una propria inventiva accostabile al concetto di sublimazione. La sublimazione è una delle vicissitudini della pulsione imperniata sul raggiungimento del soddisfacimento attraverso la creazione di un’opera, dalla più semplice alla più complessa, che offre un appagamento analogo a quello della pulsione. […] L’oggetto della sublimazione ha pari dignità di un godimento assoluto» (p. 136).
Non sono quindi i dispositivi digitali a determinare la noia, come spesso viene ripetuto nei mass media, creando a volte un autentico panico rispetto all’uso che ne fanno i soggetti in età evolutiva e scolare. Al contrario spesso nella clinica si vede come la vita reale risulti annoiante e vi sia invece un rilancio del desiderio nella fantasia correlata al mondo virtuale (p. 137). C’è da chiedersi quanto l’utilizzo del virtuale nel tempo della pandemia e la sua percezione come obbligo abbia trasformato il godimento generato dalla socialità online in un ulteriore tempo di noia. Gli adolescenti che hanno vissuto il lockdown e la DaD si sono disaffezionati ai dispositivi digitali, o li hanno incamerati nella loro routine al punto da non considerarli più come potenziali strumenti di sublimazione, ma al contrario, come strumenti di lavoro, associando agli schermi l’idea di dovere e produttività.
Pozzetti conduce il lettore attraverso una disamina del potenziale legato ai vari usi dei dispositivi digitali nei vari ambiti della società, ma il saggio si concentra, come indicato dallo stesso titolo, sull’applicazione del digitale alla pratica psicoanalitica, riservando una sezione molto interessante alla cura degli attacchi di panico.
«Le sedute online vengono richieste con una frequenza tutt’altro che irrisoria anche da persone che soffrono di attacchi di panico, specialmente se tale fenomeno diviene così intenso da impedire di spostarsi con serenità dalla propria abitazione e di recarsi in seduta. Quando uscire per strada diventa complicato nell’agorafobia […] oppure quando il panico risulta abbinato a una tendenza al ritiro sociale dal vago sapore di tristezza, non è tanto rara la richiesta di un trattamento da svolgere online» (p. 162).
L’utilizzo dei dispositivi digitali per incontrare gli altri, si tratti del proprio psicoanalista oppure di persone con cui si intrattengono relazioni personali, fino all’estremo di intrattenere una intera vita sociale attraverso le app, non ha quindi solo aspetti negativi, come si vuole far credere. Al contrario, poter partecipare ad eventi online, poter interagire con persone che si ritengono interessanti, poter costruire una dimensione di dialogo senza dover necessariamente passare per il corpo, risulta essere di grande beneficio per chi soffre di attacchi di panico. Un elemento importante che sottolinea l’autore è la paura della solitudine legata all’ipotesi che si possa verificare l’attacco di panico. Il dispositivo digitale fornisce a chi è solo e teme di stare male la possibilità concreta di chiedere aiuto, di contattare qualcuno e venire soccorso.
Nelle conclusioni l’autore sottolinea che la dimensione del corpo nella seduta di analisi è irrinunciabile, e lo stesso si può affermare per la pratica dell’insegnamento, in cui entrano in gioco la postura, il contatto, l’interazione e quindi anche la disposizione di un setting che favorisca l’ascolto e lo scambio, in cui al corpo venga riconosciuto il giusto ruolo. Tutto considerato, tuttavia, il digitale offre a entrambe le dimensioni, un ambiente ulteriore in cui mettere in campo le competenze sociali che non sono direttamente collegate alla presenza fisica. Voce e immagine sono parte di uno scambio quotidiano che può in situazioni di particolare sofferenza sopperire alla presenza. Quando l’oggetto digitale è inserito in un contesto in cui non si rinuncia completamente al corpo, vale la pena di considerare i registri in gioco, che non sono banali: l’immagine, la funzione della parola, la scrittura in chat. Il desiderio, il bisogno emerge anche dall’uso di questi tre registri che possono fornire indicazioni precise sulle sensazioni che si avvertono quando si affrontano determinati argomenti.
È difficile oggi pensare le interazioni al netto dell’oggetto digitale, quando tutto, anche il semplice fare amicizia nella vita reale passa dalla presenza online. L’esserci con il corpo come pazienti, come studenti, come persone che si conoscono e condividono è intrecciato a un diverso tipo di presenza con cui tutti ormai facciamo i conti quotidianamente. Come interagiamo? Quale valore attribuiamo agli oggetti digitali? «Al centro della nostra esistenza vi è l’oggetto che oggigiorno prende spesso la piega di quella particolare forma di plusgodere offerta dagli oggetti digitali» (p. 233), conclude il saggio. Ed è innegabile che se il corpo pulsionale è il grande assente nella comunicazione contemporanea, parafrasando Lacan, la psicoanalisi ha il suo fondamento nel rapporto fra l’uomo e la parola. È così determinante che in seduta, come nella vita, la parola sia “parlata”? Si potrebbe continuare il ragionamento di Pozzetti estendendolo alla qualità sostanzialmente orale della comunicazione digitale, come fanno diversi studi contemporanei. Oralità, oggetto digitale, psicoanalisi ma anche educazione attraverso i media sono tematiche fondamentali di questa epoca. Il saggio di Pozzetti rappresenta un tassello importante nella ricostruzione dei nodi fondamentali di questo aspetto della contemporaneità.
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Immagine di copertina:
Mike “Beeple” Winkelmann, Everydays, particolare di un collage digitale che racchiude 5.000 immagini realizzate quotidianamente nell’arco di 13 anni.