La collana “Brick” di Coconino Press, curata da Rathiger, colpisce con precisione al centro profondo dell’encefalo, inverando perfettamente il proprio nome inspirato al topo Ignatz che, nella Contea di Coconino, Arizona, lancia un mattone in testa al gatto KrazyKat in ogni striscia disegnata dal fumettista George Herriman. Ignatz odia Krazy Kat, «something like a sprite, an elf. They have no sex. So that Kat can’t be a he or a she. The Kat’s a spirit – a pixie – free to butt into anything».1 Ignatz tira il mattone a Kat per evitare la persecuzione costante delle sue incondizionate dimostrazioni di affetto e per zittire il profluvio di curioso e innocente argot che Kat impasta di strani suoni dall’Inglese, dal Francese, dallo Spagnolo, dall’Yddish e dallo Yat (dialetto della classe operaia irlandese del Nono Distretto di New Orleans). Kat, immancabilmente colpita in testa, considera il lancio del mattone un segno dell’amore di Ignatz nei suoi confronti. ZIP. POW. Cuoricino. Sembra che l’antenato di Ignatz, il topo Marco Antonio, nell’antico Egitto avesse effettivamente commissionato a uno scalpellino un mattone con inciso un messaggio d’amore per l’antenato di Kat. La mattonata è davvero una concreta dichiarazione d’amore. ZIP. POW. Cuoricino attraverso la Storia. Eldorado di Tobias Tycho Schalken è una mattonata densa e accurata al cuore della nostra mente e fa deflagrare storie, meraviglia e meditazioni. L’opera, edita in Francia nel 2020 dall’editore franco-belga Frémok, un gigante del fumetto indipendente e della bibliodiversità,2 si guadagna un posto nella selezione del Fauve d’Or al Festival di Angoulême del 2021. Schalken, classe 1972, è un artista visivo totale, formatosi al St. Joost School of Art & Design di Breda, dove incontra Stephan van Dinther, insieme a cui autopubblica i primi due numeri di Eiland, un’antologia di fumetti d’avanguardia che dura cinque numeri e cattura l’attenzione dei lettori più esigenti. I numeri 3 e 4 della rivista sono pubblicati da un editore belga, Bries, mentre il quinto numero è pubblicato dall’editore Frémok. Schalken partecipa in seguito all’antologia Comix 2000 che raccoglie le opere mute di trecentoventiquattro autori di ventinove paesi diversi per rappresentare il fumetto indipendente al passaggio di millennio. Schalken espone poi le sue opere in diverse mostre a Bastia (2002), Angoulême (2011 e 2014) e Grenoble (2016). L’editore francese Les Éditions de la Cerise pubblica nel 2012 Balthazar – già in parte apparso nei primi tre numeri di Eiland – un fumetto muto ricco di echi visuali dalla narrazione labirintica fatta di codici morse, segni eterogenei, spartiti musicali, movimenti dei corpi, pittogrammi, passi di danza, per forzare i limiti del genere fumetto componendo insieme fotomontaggi, disegni e arte digitale. Vi si possono scorgere riferimenti a Magritte e Munch, reinterpretati da una prospettiva che alterna il particolare e il dettaglio minuziosi al campo lungo di sconfinati pannelli unici. Il ripetersi ossessivo di alcune immagini, la variazione straniante di alcune inquadrature, la costruzione di pannelli a meandri di vignette ricordano anche le atmosfere angoscianti e le visioni inquietanti di David Lynch. Per Bart Beaty Schalken non si limita a raccontare una storia, ma miscelando media diversi crea un mood – un ambiente segnico, direi – un senso di profondità psicologica. Balthazar è una teomanzia della creazione che segue i ritmi e i balsami delle arti senza parole. Il culto di Balthazar segue la scia delle immagini, stella cometa, stella filante, spermatozoo, giovane ragazza, cane, codici medievali, lingua dei segni. Arti molteplici e arte del molteplice. Sistemi grafici articolati. Schalken ritrae momenti banali di vita quotidiana rendendoli essenziali e assoluti grazie alla resa classica del segno, che si semplifica per guadagnare forza plastica e profondità surreale. Il senso dei volumi e della luce testimonia la sua formazione come scultore, che Schalken mette al servizio di una personale narrazione visuale. Le sue tavole sembrano fare proprie le sperimentazioni di Muybridge sulla rappresentazione del movimento per frammenti consecutivi, per tentare nuove strade di raffigurazione del tempo nello spazio. Questa sperimentazione sul medium continua anche in quest’ultima opera di Schalken: Eldorado. Da un personaggio mitico, il terzo re magio in viaggio verso il dio bambino, a un luogo mitico, il paradiso nella foresta in cui ogni bisogno e desiderio è appagato. Per Schalknen Eldorado «[c]’est lié en particulier à l’idée de désir, à la quête d’un lieu où tout est parfait, résolu, où l’on se sent en harmonie avec son environnement. On sait au fond de soi qu’un tel lieu n’existe pas, mais l’essentiel est dans la recherche de ce lieu, dans le fait d’essayer de l’atteindre sans jamais y parvenir».3 La copertina mostra un uomo nella sala di una pinacoteca. Osserva attentamente un quadro. Un paesaggio. È completamente solo. Ha cappello, barba e capelli lunghi, uno zaino capiente pieno, stivali. Un fucile. Un sopravvissuto a un evento apocalittico che mentre cerca il cibo si sofferma a guardare un’opera d’arte? L’immagine di un mondo perduto? Se il mondo è finito, che fine fa l’arte? That Bright Land… La stella cometa di Balthazar ci ha condotti a un Buco nero? L’arte è l’Eldorado sempre più perduto, sempre più inattingibile nel collasso della civiltà? O è l’unico paesaggio rimasto?

Tobias Tycho Schalken, Eldorado

Le vignette e le pagine alternano particolari e dettagli dell’intimamente piccolo alle vertigini e allo spaesamento dell’universalmente grande, lungo tutto l’orizzonte del tempo, strano e sublime, dalla genesi all’apocalisse attraversando il passato, il presente e il futuro, ibridando gli esperimenti di Muybridge alle Lacrymae Rerum di Verga e alle finestre temporali multiple dello Here di Richard McGuire.

Eldorado nasce come una raccolta di novelle visuali, frammenti eterogenei di visioni raccontate con linguaggi e stili differenti: fumetto, illustrazione, striscia, installazione, schizzo, fotografia, ritratto, rendering 3D, story board, dipinto, scultura… ogni frammento è però interconnesso agli altri per formare un’esperienza artistica organica. «Mes peintures reflétaient des idées exprimées dans mes histories en bande dessinée, les combiner pouvait étendre le temps et l’espace de celles-ci».4

La sperimentazione dell’autore sulle possibilità espressive del tempo e dello spazio della pagina, sulle metamorfosi possibili della sua arte, già iniziata in Elian e in Balthazar, prosegue e si approfondisce in Eldorado. Qui però al legendarium di una nascita si sostituiscono le cronache di trapassi diversi. Cronache spezzettate di situazioni, ambienti, personaggi, voci e immagini che interagiscono e si sviluppano, come un dialogo di koan zen, un percorso attraverso luoghi visuali di meditazione che suggeriscono al lettore delle connessioni possibili, dei percorsi di racconto e di senso da far emergere da una sorta di atmosfera testuale composta da tanti elementi difformi. «Une œuvre qui semble avoir été générée par une sorte de force invisible».5 La storia emerge sotto forma di visioni che non sono il prodotto incasellato in una griglia definita da un narratore, da un occhio o da una mano onniscienti. Le visioni parlano una propria voce, «ni trop élaborée ni littéraire»,6 meno interessata a raccontare una storia che a manifestare un mondo. Le visioni di Schalken sono fatte di immagini e parole in tensione tra loro: il testo non è mai una didascalia di ciò che si vede e le immagini non sono mai un’esemplificazione di un concetto. Immagini e parole non corrispondono. Il senso non è esibito, ma va cercato proprio nello scarto tra i due linguaggi. Questo vale a livello locale di significazione, pagina per pagina, vignetta per vignetta – la distinzione tra queste due dimensioni non sempre è netta, essendo la pagina spesso un unico panel –, ma vale anche a livello strutturale, essendo la narrazione stessa affidata a un avvicendamento di griglie classiche e salti stilistici vertiginosi e perturbanti, o forse, più precisamente, eerie nel senso proposto da Mark Fisher: c’è qualcosa – una storia, un senso – dove non dovrebbe esserci nulla e non c’è nulla – una storia, un senso – dove invece dovrebbe esserci qualcosa. La sensazione si trova ai margini dei generi, dei linguaggi, in quello scarto su cui lavora Schalken, «l’esterno, […] ciò che sta al di là della percezione, della conoscenza e dell’esperienza comune».7 Sicuramente il lettore di Eldorado non si sente a casa – unhomeliness – al pari di alcuni personaggi (il sopravvissuto tra le rovine della civiltà in un pianeta rinato, il ragazzo narratore di esperienze invisibili nel paesaggio, la ragazza a spasso con il cane in cerca di un ricordo, la ragazza in fuga dalla gita con la famiglia…). Non si sente a casa anche rispetto alla lettura stessa di un fumetto strano. La percezione di estraneità non è solo nella situazione – la fine di un mondo, piccolo o totale che sia –, ma anche nella fruizione artistica stessa: i personaggi che osservano, attraversano, interrogano, subiscono l’arte, sono suoi pari. Il lettore è dentro un’installazione dai confini incerti. Fisher ricorda che lo eerie

«lo incontriamo più di frequente in paesaggi parzialmente svuotati della presenza umana […] è fondamentalmente legato a questioni di agentività (agency). Che tipo di agente opera in questo caso? Ed esiste veramente un agente?».8

Che tipo di lettore è convocato dal testo? Assomiglia al cane seduto sopra un tavolo che osserva fuori dall’unica finestra della stanza-stereoscopio mentre il vento agita le tende? Molte tavole presentano personaggi di spalle o di tre quarti. Le scale e le proporzioni variano da una pagina all’altra, scatenando straniamenti cognitivi. Il lettore è immesso dentro l’immagine stessa. O è l’immagine a inglobarlo? Come se l’immagine-installazione lo comprendesse. Come elemento costitutivo? Accessorio? Come testimone o partecipante? Che ruolo e statuto ha il suo sguardo?

«J’essaie effectivement de mettre le lecteur en valeur».9 Schalken richiede al lettore un lavoro importante di ricerca del senso. Una collaborazione nel realizzare l’opera fino in fondo o oltre i suoi stessi confini. «Je m’intéresse de fixer des limites, et de m’exprimer dans ces limites, de tirer le maximum possible d’un espace fixe. Je trouve cela assez libérateur d’avoir des contraintes».10 Schalken dichiara di avere, tra le sue fonti di ispirazione, il fumetto belga degli anni ’70, la Linea chiara di autori come Hergé, Edgar P. Jacobs, Jacques van Melkebeke: «j’apprécie de plus en plus les bandes dessinées où le dessin accorde de l’importance à la lumière, à la plasticité, la texture, aux atmosphères».11 Altri riferimenti importanti sono anche il tratto e il pensiero stilizzati all’essenziale, la gamma di colori ristretta a bicromie espressive e la capacità evocativa tra Carver e Auster di David Mazzucchelli; il segno morbido, i colori tenui, le espressioni rese sostanziali, gli sfondi “narrativi”, i momenti di vita quotidiana e gli sguardi da interpretare di Adrian Tomine; la contaminazione di generi e registri eterogenei di Olivier Schrauwen che mescolando il resoconto biografico all’avventura surreale creano una sorta di speculative memoir dal forte impatto straniante; le sperimentazioni su molteplici strumenti espressivi per rivelare una complessità non sempre narrabile di Chris Ware. Schalken è figlio di artisti, si è formato da artista e crea pensando a un’arte senza confini definiti, quindi le sue influenze travalicano ovviamente il mondo del fumetto, per affondare nella pittura, nella fotografia, nella scultura, nel cinema, nell’architettura e nell’installazione. Sarebbe lungo provare a dare conto dei tanti riferimenti rintracciabili all’interno delle pagine di Eldorado. Ci si limita a sottolineare qui quelle che più sembrano colpire, sia per la loro ricorsività nel testo, sia anche in relazione al significato complessivo dell’opera: i ruderi della casa sulla cascata di Wright, collassata, sul ciglio prosciugato di una cateratta che non c’è più sembrano il memento mori antropocenico di un progetto fallito di armonia tra uomo e natura, di un nuovo sistema di equilibrio ormai estinto tra casa costruita e ambiente planetario.

Il primo piano di un uomo in tuta d’argento, con gli occhi chiusi, seguito dal particolare dei suoi occhi chiusi. Dorme? È in raccoglimento? È morto? Sembra la versione sci-fi dell’Andrej Rublev di Andrej Tarkovskij. È un monaco artista del futuro che cerca l’ispirazione? Che medita l’arte e il tempo? La tuta argentata è una veste futuristica o una veste mortuaria? Il riferimento a Tarkovskij non è estemporaneo. Il volume si apre con una sfera nera che esce dal ventre della Terra e ascende allo spazio. Pensando didascalie. È il pensiero del pianeta? Come la coscienza cosmica di Solaris?

L’uomo e il cane nel mondo post-apocalittico, le due splash page con militari e persone in scenari post-evento enigmatici, la stanza – di una casa, di un museo – con squarci sul soffitto o sul pavimento o sulla parete, con acqua o rocce o nembi misteriosi o erba e alberi o animali che hanno fatto irruzione… sembra di aggirarsi nella Zona di Stalker dove esiste una stanza in cui è possibile avverare i desideri. Le parole del regista in Scolpire il tempo sembrano fornire una possibile chiave di lettura di Eldorado: «La Zona è la Zona, la Zona è la vita: attraversandola l’uomo o si spezza o resiste. Se l’uomo resisterà dipende dal sentimento della propria dignità, dalla sua capacità di distinguere il fondamentale dal passeggero».12

Come in Tarkovskij anche le immagini di Schalken sono soglie che invitano a una percezione diversa del tempo, a una visione metafisica. Se nel regista russo quest’esperienza nasce da una nostalgia esistenziale per una casa-patria da cui si è esiliati, in Schalken quella stessa inquietudine per uno sradicamento insanabile si connota più marcatamente come solastalgia: la percezione che l’ambiente non ha più posto per il nostro futuro; l’immagine dell’uomo con il volto nero che osserva uno schermo bianco; Tredici, la storia della giornata di un ragazzo le cui immagini non trovano posto nei luoghi del loro avvenire; l’uomo di fronte all’oblò di una struttura (laboratorio? astronave?) su un paesaggio desolato che osserva la propria immagine riflessa; le quattro tartarughe d’oro che reggono e trasportano una casa di legno vuota come icona di una cosmologia senza più l’uomo; la figura antropomorfa stilizzata con il volto, le mani e le gambe scure che osserva delle fratture sul terreno con una serra sullo sfondo alla deriva nella nebbia. La capsula di metallo nel sottotetto del museo e la capsula monoposto nella moquette blu della stanza, entrambe vuote, sono scialuppe di salvataggio? Il razzo che salva da Krypton? Ma il lancio è avvenuto o fallito?

Il pianeta che sta per esplodere è il nostro tempo? Eldorado è un viaggio nel tempo? Gli amici del narratore di Tredici sono Vincent e il Dottor Bibber… Van Gogh e Doctor Who?! Tim, il fratellino della protagonista del racconto Eldorado, racconta al resto della famiglia, durante il viaggio in auto, di una macchina del tempo, di un viaggio indietro nel tempo e di legami familiari che inevitabilmente si intrecciano. Di nuovo Doctor Who o Ritorno al futuro? Lisa, la protagonista, soffocata dai suoi familiari che cercano di ricomporre un’unità, non vuole giocare con Tim e lo scaccia in malo modo. Compie il suo personale viaggio dentro la foresta (dentro il tempo?). Osserva un’aquila in volo, aiuta un cavallo a fuggire, torna nella sua famiglia e abbraccia forte il fratellino. Che però porta una ferita nuova. Forse insanabile.

L’opera si conclude con una didascalia che recita: «Non sapevamo di avere già alle spalle un futuro meraviglioso» (p. 220). Ma la ricerca di un altro percorso di senso, di nuovo dentro l’opera o al di là di essa, dietro un nuovo branco di immagini o dietro al prossimo stormo di storie, spetta al lettore.

Un altro riferimento che non è possibile mancare è quello all’opera di Maurizio Cattelan. Buchi e squarci nelle sale di museo, l’arte esposta al fuori, «It was very important that this work was exhibited outside. But that is why people found it so unbearable. Safely inside a museum»,13 al di fuori del museo l’arte diventa una sfida vitale per la sopravvivenza? Che senso ha l’arte? Il significato che genera può aiutare a comprendere meglio il mondo? Né il museo, né alcun’altra costruzione antropica riescono comunque a tenere separate l’arte e la cultura dall’ambiente e dalla realtà. Ma l’arte può contribuire a rendere il mondo un luogo migliore? Migliore per chi o cosa? In Breath, una scultura in marmo di Carrara, Cattelan rappresenta un uomo e un cane che dormono accucciati – sono morti? – l’uno di fronte all’altro, condividendo lo stesso ossigeno, così come i cani che accompagnano i diversi protagonisti di Eldorado – ma anche di Stalker e Nostalghia – nel loro girovagare in un luogo nuovo non-più-umano, alla ricerca di un altrove della memoria o del proprio posto nel mondo. Con Ghost, una tassidermia di piccioni diffusa nello spazio espositivo, Cattelan evoca uno stormo di uccelli che portano la domanda sulla vita e la morte, simili forse ai tanti stormi che portano i messaggi-storia che compongono l’opera di Schalken. I cavalli in Eldorado, a differenza che in Kaputt di Cattelan, corrono liberi e, insieme agli altri animali, sembrano voler suggerire una forma più istintiva e primaria della vita, una corrispondenza meno razionale con il mondo, quello scatto simultaneo e totale dello sguardo e del corpo – del sopravvissuto oltre le macerie e della ragazza in bilico sulle rocce della foresta – che può liberare l’accesso al luogo dorato della pienezza. «Ci inseguivamo con una tale veemenza che dovevamo fare la pace singhiozzando. Quasi impossibile immaginare un godimento più grande» (p. 219). Il contatto tra uomo e animale (cane, uccello, cavallo, altro umano) resta un momento di verità: «Amavamo tutto ciò che viveva e pensavamo che anche tutto ciò che viveva amasse noi. Era la cosa più normale del mondo» (p. 220).

Un altro riferimento importante è agli ambienti totali di Bill Viola, opere-luoghi interattivi di esperienze condivise che invitano al confronto con forme, suoni, animazioni così rallentate da evocare la statuaria. È un processo di straniamento che cerca di avvicinare la percezione di un tempo diverso del tutto simile a quello messo in atto da Schalken con le sue vignette che si dilatano a pagine, trasformando lo spazio in protagonista narrativo, rallentando la sequenzialità del medium fumetto fino alla sacralità quasi di pale d’altare o icone post-bizantine. Non solo da ammirare, ma come suggerisce Viola, da incorporare, abitare, sentire respirare come sistemi di vita totali, «immagini come organismi viventi».14 Sembra questo l’obiettivo di Eldorado: «il problema centrale di oggi è come conservare la sensibilità e la profondità di pensiero (entrambi funzioni del tempo) nel contesto delle nostre vite accelerate».15

Così Schalken:

«Le plus souvent, je créé des choses pour me comprendre, pour découvrir ce qui m’anime et ce qui compte pour moi, […] Je peux penser à une idée qui m’est importante, et j’essaye de la saisir, je tente des choses avec. En vivant avec, en la travaillant, elle peut progressivement changer du tout au tout. […] Ce n’est pas toujours planifié, j’essaye simplement d’être aussi sincère que possible, et attentif aux multiples directions que peut prendre une idée».16

Confrontarsi con le immagini come cose viventi – cibarsene – per comprendersi. Il narratore di Tredici: «In discarica cerchiamo qualcosa per la nostra casetta, o altre cose utili. Non sai mai cosa cercare. Soltanto quando vedi un oggetto, capisci che lo devi prendere» (p. 57). Il sopravvissuto di That Bright Land osserva le forme disegnate nel cielo da uno stormo di uccelli che giocano. L’uomo li guarda. Guarda la lucertola. La libellula. L’insetto. La farfalla. La coccinella sulla sua mano. Il cielo stellato. Le rovine del mondo. Il cane gli poggia il muso sulle gambe. L’uomo lo accarezza. Ancora il narratore di Tredici: «Penso a domani, a tutto quello che voglio fare. Ho un sacco di piani. […] Niente al mondo è più importante di entrare in campo di corsa e partecipare» (p. 63). La protagonista di Le luci di casa voleva imparare a suonare il piano, da bambina, per rinsaldare il legame con il padre, «Ma allora non avevo ancora idea di quanto tempo ci voglia a imparare le cose» (p. 66). Poi, da ragazza, vorrebbe vedere le luci di casa senza raggiungerle mai realmente. Come uno spettro del tempo. Ora, da adulta, insegue nella notte Boris, il suo kelpie scappato tra i vicoli della città nell’indifferenza delle tante finestre accese di luci. I due si ritrovano nel parco, nella radura di un campetto da calcio.

Pagine di losanghe con silhouette di uomo e donna in pose di arte quotidiana e onirica, erotica e marziale con al centro una pagina di losanghe con forme semplificate della natura micro e macroscopica (virus, coralli, galassie, buco nero…).

Attraversare l’arte nel mondo per imparare a donare e a ricevere ciò che si esplora. L’Eldorado.

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Note:

1) Ben Schwartz, Hearst, Herriman, and the Death of Nonsense, in Bill Blackbeard (a c. d.), George Herriman, Krazy & Ignatz: a mice, a brick, a lovely night. Complete full-page comic strips, 1929-30, Fantagraphics Books, Seattle, Washington, 2003, p. 9.
2) L’Humanité, 26 gennaio 2017, edizione online (https://www.humanite.fr/culture-et-savoirs/festival-dangouleme/fremok-la-bande-dessinee-sur-le-ring-de-la-bibliodiversite#).
3) Intervista di Lilian Philippe a Tobias Schalken, Angoulême, gennaio 2020, riportata sul sito della casa editrice Fremok (https://www.fremok.org/site.php?type=P&id=346).
4) Ibid.
5) Ibid.
6) Ibid.
7) Mark Fisher, The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, (2017), trad. it. V. Perna, Minum Fax, Roma, 2018, p. 8.
8) Ivi, p. 11.
9) Intervista di Lilian Philippe a Tobias Schalken, cit.
10) Ibid.
11) Ibid.
12) Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo, (1985), V. Nadai (a c. d.), UBULibri, Milano, 1988, pag. 178.
13) Maurizio Cattelan, intervista in The Guardian, 23 giugno 2004 (https://www.theguardian.com/artanddesign/2004/jun/23/art), corsivo mio.
14) Bill Viola, La storia, dieci anni (di video) e l’epoca dei sogni, (1984), trad. it. M. Giovannelli, in V. Valentini (a c. d.), Bill Viola. Vedere con la mente e con il cuore, Gangemi, Roma, 1993, pag. 47.
15) Ibid., p. 56.
16) Intervista di Lilian Philippe a Tobias Schalken, cit.

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Immagine di copertina:
mural di Garrick Marchena, Ami Ta Kòrso (I am Curaçao), a Punda, Willemstad, Curaçao – Foto Kattiel